domenica, gennaio 29, 2017

4, Rivisto












Anche questo fatto ho visto sotto il sole e mi parve assai grave:
c’era una piccola città con pochi abitanti.

QOELET 9,13















I Klimcko arrivarono una giornata del 1982. Ricordo bene la data perché quattro mesi esatti prima ero stato licenziato dalla falegnameria di Stato. Avevano comprato la proprietà dei Figueroa, rimastata disabitata per oltre un decennio e ridotta in decadenza da quando il vecchio morì ed i figli se ne andarono per trasferirsi in città ed iniziare una nuova vita, lontana da qua e dalla gente di qua. Io stavo sulla porta finestra della mia cabina in affitto con uno sguardo perso, nella mia salopette, senza aver fatto la doccia per giorni. Non avevo più contatti con la civiltà a causa del mio licenziamento. La falegnameria di Stato era stata venduta ad una multinazionale svedese. Riconvertirono parte delle attività, mandarono a casa due terzi degli operai. Lì dentro, più che lavorare il legname, lo avrebbero impacchettato e spedito alla sezione arredamenti del nuovo centro commerciale che aveva aperto in città. Cucine, letti, mobili, tavoli, scrivanie, librerie, cassettiere, divani. La gente ne sarebbe andata matta. Mobilio a basso costo, da portare a casa ed assemblarlo in pochi minuti. Dalla soglia della mia cabina vidi spuntare il muso di una Mercury Colony Marquis Park con delle grosse fasce di legno applicate sui fianchi della macchina. La pubblicità diceva: nelle famigliari Marquis il lusso e lo spazio si fondono. Splendidamente. Chi era al volante di quell’auto aveva di sicuro sborsato una cifra considerevole. Oltre a starmene in cabina a guardare la televisione tutto il giorno e a leggere qualche rivista sportiva, mi trovavo costretto ogni dieci giorni ad incamminarmi verso la statale per andare al centro commerciale a comprare quanto più cibo, alcolici e medicine potessi trasportare e permettermi. Tutta quella strada a piedi, otto miglia per un privato e solitario supplizio. Avevo dovuto cedere il mio pick-up per andare avanti e i sussidi stavano terminando. Avevo un conto a tre zeri da saldare con il bar vicino alla falegnameria dove tutti andavamo ogni giorno dopo il lavoro, dalle quattro del pomeriggio fino a quando le gambe e lo stomaco avessero retto. Qualche settimana fa il proprietario è venuto a farmi visita per dirmi che avrebbe chiuso l’attività e che il tempo era maturo per pagare i debiti. Non avevo un soldo in tasca così vendetti il mio pick-up e la settimana dopo saldai. La Mercury procedeva a bassissima velocità. I miei sensi potevano anche essere non completamente a pieno servizio, ma a quell’ora del pomeriggio, intorno alle 4.30 avrei potuto aver bevuto non più di un paio di birre oltre ad un singolo di whiskey. Cose molto amministrabili. Cose per rompere l’apatia della sobrietà. La serata sarebbe stata ancora lunga. Ve lo assicuro. I pneumatici non erano del tutto gonfi e il peso della macchina carica di quattro passeggeri, di valigie, di cibo, di un animale domestico e di qualche cosa necessaria ad un trasloco, sforzavano i dischi metallizzati dei cerchioni sotto l’irregolare gestione di ammortizzatori allentati. Il terriccio e la ghiaia del vialetto di accesso venivano tamburellati e tritati come da un mezzo di fanteria. Indica, una delle due figlie dei Klimcko, la più piccola, mi guardò attraverso il finestrino posteriore sinistro ed appannando il vetro con l'alito, tracciò un segno, una scritta, con il suo indice sinistro. Guardai più a fondo attraverso la porta finestra, uscii sul patio ma il retro della Mercury si oscurò nella curva a destra prima del cancello della proprietà dei Figueroa. Passai la notte addormentato sulla poltrona davanti alla televisione, guardando un documentario politico sui movimenti di protesta in Sudafrica e di seguito una replica di uno speciale sulla morte di John Lennon a due anni dalla morte. Mi risvegliai alle 4.30 come mio solito. Andai in bagno, mi pesai, feci una smorfia, mi diressi verso il cucinotto del soggiorno/camera da letto e mi versai tre quarti di litro di caffè nero. Guardai i notiziari per due ore abbondanti. Lasciai metà del caffè nella tazza e ritornai in bagno, appoggiando il braccio e la mano sinistra contro la parete. Mentre urinavo, guardai fuori dalla finestrella e per poco non morii sul posto. Dall'altra parte del vetro c’era la faccia stampata di Indica, che rideva straziata nel suo sorriso sdentato. Poi la sua faccia si fece truce e mimò le parole che scoprirò solo tempo dopo - In Nessun Modo - ma lì per lì ,non capii o non volli capire. Un disco di J.J. Cale verso le undici di mattina, quando fui assalito da una voglia di un sandwich al tacchino e di una Coca-Cola ghiacciata. Se non c’è nessun cambiamento nel tempo, non ci sarà mai nessun cambiamento in me. Nel pomeriggio sentii la Mercury percorrere il vialetto a velocità sostenuta verso l’uscita e la rampa di imbocco della statale. La macchina si allontanava con qualche leggera sbandata. Sentii la voce di una donna in lacrime che imprecava, che supplicava, che minacciava e che malediceva l’uomo. Era la prima volta che vidi il viso irrorato di lentiggini e rughe di Golda Klimcko. Si inginocchiò. Mentre sembrava che stesse per arrendersi ad una forza maggiore, nefasta, bulimica, fece uno scatto sulle proprie gambe e si riacquistò la posizione eretta. Infilò le mani nei capelli rossi, tirandoseli indietro e raccogliendoli sulla nuca come per farsi la coda. Li lasciò sciolti, e mise lemani in tasca. Mi diede la schiena per rincasare. In quel momento le due bambine Klimcko corsero verso la madre che le prese sotto le sue braccia. Il trio materno si voltò verso la mia cabina. Golda mi guardò, mentre Indica e Malika avevano lo sguardo altrove, verso la casa senza padre. Da quella scena nel vialetto non ebbi più modo di vedere alcun membro della famiglia Klimcko. Non ebbi più notizie "visive". Una notte mentre armeggiavo con un coltello ed una lattina di birra tanto per torturarla, udii una sorta di tonfo, di boato soppresso e immediatamente dopo vidi il riflesso di una luce incandescente spargersi, illuminando a giorno la mia cabina. Non era un'allucinazione. Già da una settimana mi stavo dando una ripulita per presentarmi in uno stato decente, almeno passabile, ad un colloquio di lavoro che avevo ottenuto per lo stand della rete ferroviaria al centro commerciale. Da quanto avevo capito al telefono si trattava di dare informazioni sulle direzioni e sugli orari dei treni del nuovo ramo ferroviario che collegava quasi tutta la regione. Inoltre avrei potuto dare ai clienti una brochure. Mi limitavo a sole due birre al giorno, e nessuno superalcolico o roba peggiore. Stavo bevendo molto caffè e molta acqua, quello sì. Qualche minuto dopo iniziai a sentire un forte odore di gomma bruciata, mista ad erba o a rami secchi. Uscii dalla cabina ed un'esplosione contenuta mi fece cadere con la schiena all'indietro. Urla femminili si avvicinavano verso di me. Aiuto, qualcuno ci aiuti. Dal buio sbucarono le sagome di Golda, Malika ed Indica Klimcko. Signor vicino, ci aiuti signore. Qualcosa è caduto dal cielo e ha fatto un solco nel terreno. Ha distrutto la casa del nostro cane e la piscina delle bambine. Adesso sta bruciando tutto. Signora io prenderò l’estintore mentre lei chiamerà i pompieri e la polizia. Potrebbe trattarsi di una scoria celeste, di un frammento di un meteorite o di un satellite. Indica chiese alla madre se potesse essere un segno del Signore per dire che il padre sarebbe tornato presto a casa. Indica a papà ci pensiamo dopo, le rispose Golda. Aiutiamo questo signore con la canna dell’acqua. Presi l’estintore ed iniziai a correre. Quello che vidi davanti era qualcosa di sconcertante. Un ammasso di fuoco, legno, erba, materiale ferroso ed i resti sparsi di un animale. Iniziai a spruzzare il liquido schiumogeno con l’estintore e il fuoco e l’odore iniziarono a placarsi. Le bambine buttavano secchi d’acqua e Golda continuava a spargere acqua sul luogo dell’incidente con la pistola di un compressore. Arrivarono la polizia della contea e i pompieri. L’incendio era già stato sedato. L’area fu recintata e gli agenti iniziarono a fare le indagini ed a raccogliere prove. L’indomani si seppe che un satellite di una non meglio precisata nazione aveva urtato un corpo extra-terrestre, anche questo non meglio precisato (entità, dimensioni e perché). I frammenti colpirono dodici punti sulla Terra in un raggio di cento venti miglia quadrate distruggendo proprietà, danneggiando scuole, fabbriche ed attività commerciali e facendo dodici morti. Undici persone adulte ed un cane, nella vecchia proprietà Figueroa. Alle undici di mattina ero pronto ad uscire per andare al centro commerciale dove avrei sostenuto il colloquio di lavoro. Scendendo le scale della cabina arrivò la Mercury dei Klimcko, che per poco non mi falciò. La macchina fece una brusca frenata, una retro e si fermò a pochi centimetri dai miei piedi. Dalla portiera uscì un uomo oltre la quarantina. Sono arrivato appena ho potuto. Grazie per quello che ha fatto per la mia famiglia. Golda mi ha detto tutto. Mi presento: sono il Pastore Ebner Maria Klimcko. Il lavoro al banco delle ferrovie andò bene per qualche mese. Verso l’autunno dell’82 la stampa indipendente condusse un’inchiesta giornalistica per corruzione ed appropriazione indebita ai vertici della compagnia dei trasporti statali che controllava le ferrovie. Nel giro di breve tempo quelle che potevano sembrare illazioni ed indizi agli occhi dei più, diventarono certezze e capi d'imputazione in una vero e proprio processo. Gli imputati più illustri patteggiarono la pena. Si scoprì che quelli più coinvolti erano propri i dirigenti che gestivano la sezione trasporti su rotaia. Diedi le dimissioni prima che tutto deflagrasse, ma questo non mi portò ad altro che una misera buonuscita ed una lettera di raccomandazione siglata dal responsabile per le assunzioni della regione. Di nuovo sulla strada quindi, e di fatto, rintanato nella mia cabina sul lago. Come ogni tipico disoccupato o senzatetto decisi di passare qualche ora della mie giornate nella biblioteca civica più vicina ma questa avrebbe dovuto essere anche la più fornita. Girovagai per biblioteche per almeno un mese e alla fine ripiegai su quella di Stato, quella della Capitale. Per arrivarci dovevo camminare dalla cabina per una buona mezz’ora lungo la statale. Il freddo e la neve erano tornati. Niente di nuovo. Salivo su un autobus che mi portava allo scalo ferroviario e di lì prendevo il treno che mi scaricava in città. Sceso dal treno avevo dieci minuti di tratta. Compilando il modulo di iscrizione per la biblioteca, barrai la casella "lettore". Dietro al bancone per l’accoglienza c’erano due donne: una anziana e mezza sorda, con abiti e fare tipici della prima metà del secolo, l’altra appena ventenne o neanche, con degli occhiali da vista ed una montatura di plastica trasparente e spessa che inquadrava le massicce lenti curve. Gli occhiali le occupavano metà del viso, le inglobavano il naso, che era appena poco più che pronunciato e all’insù, le guance di un rosa vivo che cadevano nella sue labbra piene di un rossetto anch'esso rosa, luccicante, riflettente; all’interno delle labbra a chiusura della dentatura c’erano pezzi di metallo e piccoli cavi elastici di un apparecchio correttivo. Erano veramente contente che compilassi il modulo di iscrizione permanente alla biblioteca. Mi chiesero come mai venissi da così lontano. Accennai loro della mia situazione lavorativa e raccontai come negli ultimi tempi, e non solo, avevo dovuto vendere i miei libri per tirare su qualche soldo e di come avessi smesso di comprare libri e di leggere. Ero lì per rincominciare un discorso abbandonato. Mi chiesero cosa avrei letto. Risposi per grandi tematiche, grandi intenzioni. La ragazza mi avvisò dell'inaugurazione oramai prossima di una nuova sezione della biblioteca. Sarebbe stata interamente sulla musica: storia della musica, studio della musica, strumenti e dischi di tutti i generi. Per ora l’archivio era molto ridotto. Sa, una volta oltre a comprare e leggere libri, ero un musicista, lontano da qua. Anche quel discorso finì, come molti altri nella mia vita. La ragazza e la donna anziana si guardarono e rimasero in silenzio per qualche secondo, fissando la pila di moduli sul tavolo. Forse ero stato troppo drammatico. Ho il gusto per quel genere cose. Quaranta minuti dopo mi ritrovai assunto dalla Biblioteca di Stato per un periodo di tre mesi di prova, con la specifica mansione di curatore speciale della nuova sezione di musica. Gli eventi proseguirono. Si allinearono e proseguirono lungo una concatenazione di risultati. Tutti i giorni vedevo il lucida labbra della giovane bibliotecaria, rosa trasparente, colloso, riversato sui denti, sulle gengive, nella bocca, nei meandri metallici dell’apparecchio correttore della dentatura non proprio aperta come si vorrebbe. La distorsione è l’unico fenomeno fisico che ci interessa. La sofferenza del risvegliato. Un libro parla della cospirazione mattutina contro la razza umana. I Klimcko sono stati via per molto tempo. Oltre un mese. Fuori, nello spazio aperto. Immaginazione. Stagni per centinaia di chilometri quadrati, oltre la catena montuosa, quando la valle è morta da un pezzo, e l’Eden rimane il nome di un negozio di ferramenta spiccia e liquori. Il lavoro alla Biblioteca di Stato continuò, accompagnato da nottate vuote, lente, rileggendo i discorsi dei grandi uomini politici del Novecento. Avevo intrapreso una dieta di sole proteine. Uova sode, carni al sangue. Tabacco a manciate, a mani piene. E una quantità di caffè nero che riempiva con il suo odore ogni parte della cabina, infestandola. Litri, litri e litri di tazze nere. Il sentiero dei perversi conduce alla morte (Proverbi, ore 12:28, numeri illuminati di rosso come nelle migliori pellicole del decennio passato). Da un giorno all’altro potrebbero rientrare. Magari al gran completo, sulla loro Mercury da buona famiglia. Dopo tutto, li sto solo aspettando. Ho camminato per stanze. Migliaia, in giro. Andato, andato, andato. Stanze dove le tende erano di spugna arancione, tessuti malridotti, affumicature, tracce di sigarette, macerie di nicotina per il signore nostro dio sconusciuto. E mentire divenne così facile. Ero perfino ostinato nel mentire. Una corretta pratica quotidiana lontano dai riflettori della società perbene. Poi arrivò la notizia dell’incidente, giù in città. Avvenuto in un’ora non meglio precisata, si parlò delle 6.41, ma il lasso temporale arrivava secondo alcuni, fino alle 8.52 del mattino, e la scena per la polizia municipale non fu facile, visto che il ventre molle digeriva ancora (caffè pesantemente zuccherato, paste piene di dolcificante, chiamiamole come ci viene più facile, brioches, ciambelle, forse scommesse perse alla corsa dei cani). Il vagone numero 49 era riverso in mezzo alla strada principale. Completamente ribaltato, pessimo presagio e pessima vista il sangue, in parte già rappreso, che colava dalla porta di sicurezza, un sangue nero, fuligginoso, tragico, dannatamente greco. Che cos’è questo mondo che siamo costretti a vivere, a guardare, a ricomporre. Ventisette corpi deformati, dilaniati nelle parti più impensabili. Inerzia. Tre bambini, due gemelli maschi e una bambina, un’estranea. Che cos’è che siamo disposti a fare. In definitiva, non siamo il risultato addizionale delle nostre scelte. Siamo un ammasso di cose non dette, di incidenti stradali, ferroviari. Siamo quella petroliera lunga duecento venti metri che continua a sversare da decenni, per stanchezza. Il prezzo delle nostre quotidiane nefandezze. Il vagone aveva travolto una scolaresca e non aveva risparmiato il bus che trasportava i detenuti. Angeli innocenti e peccatori incalliti. Puro e disposto a salire le stelle, la gloria di colui che tutto muove. Questo è lo stato purgatoriale a cui siamo ridotti, questa la nostra destinazione celeste. A quell’ora la biblioteca di stato era chiusa ed il mio impiego, il mio trascorrere le giornate là, era la cosa quanto mai più lontana; nella mia testa, nel mio corpo, nelle mie gambe. Il treno era mezzo vuoto, correndo a velocità ridotta. Dovetti tenere la testa a quella poliziotta. Ansimava. Vomitava. Mi diceva che sentiva montare il sangue nella trachea. Mi trovavo lì, visto che stavo perlustrando l’area, a mio modo, e stavo guardando la città, la mia piccola cittadina di provincia, il mio universo circolare, piatto. Quel giorno volevo chiudermi in un cinema dalle undici di mattina in poi e nel pomeriggio bermi qualche birra al bar di Eveline e quindi succhiarmi vodka ghiacciata mentre la tv avrebbe trasmesso la corsa alle primarie, anche se il risultato era la cosa più docile e scontata del globo terracqueo. La carrozza di testa era stata sbalzata a distanza di una decina di metri. Assistere ad un incidente del genere non è il migliore viatico per un uomo che sta ricominciando. L’ennesima volta. Si dicono tante cose e molte sono inesatte. E loro, I Klimcko. La piccola famiglietta deviata. La loro felicità attraverso i vetri dei finestrini della Mercury. Al posto del bus dei detenuti, al posto della scolaresca potevano esserci loro, con le loro gioiose, plastiche e gommose facce nella Mercury. Non tanto le bambine, non ho propensioni infanticide. Ma lui, il santone. Il Pastore. La faccia di Ebner Maria Klimcko su tutta la principale. Ero là, come tutte le notti, e tutti le notti con quell’odore in quei luoghi che si chiamano boschi in altre regioni del mondo. Casa. Terra. Acqua. Fango. Animali. Piante. Corpi sepolti. Membra che affiorano. Le due bambine. Intrappolate. Volete che non abbia visto i segni, volete che non abbia sentito. So come uccidere un uomo in fretta. Sto per andare. Sto per venire, Malika. Di cosa parlavamo oggi, quando ci amavamo. Le persone. Le stelle nere. Il re giallo. Ho questa donna che vive nei boschi, sola. Ed è la cosa più pulita che conosca. La vedo qualche volta al mese. Una scultura buia, impenetrabile. Di che cosa volete parlare. Bere come matti e mettersi al volante, ma essere sobri a destinazione. Sto sentendo qualcosa. La fede nelle prime ore del mattino nel bacino della fede stessa. Le macchine per strade. Ebner, sto venendo. Cose hai detto alle tue figlie. Dimmi dove ti porta la tua immaginazione. Pagherai per le tue colpe o vuoi che venga io. Dimmi fino a che altezza vuoi che le fiamme salgano. Dai Ebner, fai un respiro. So cosa fai. Di giorno o di notte. So che ti piace mettere del gas nelle narici delle tue bambine. Sei un pastore, uno vero. Quella era solo una bambina. Erano due gemelle. Due sorelle. Vedi come sei finito. Adesso devo ripulire tutta casa. Con le tue ossa nelle assi delle pareti. Molto bene. Tutto è così calmo. Il tempo è uno strizza cervelli radiato dall’albo. Viaggiando, la notte. Un quadro decisamente bello ma Adine piange, e quando piange, piange per ore e non c'è niente che possa aiutarla. La frase di quel film. La battuta era, da Portland Maine a Portland Oregon. E adesso cosa ti rimane. Sul quel pavimento. Deforme, faccia gonfia. Ti hanno dato per scomparso. Quanto è durata. Quattro giorni. Ce ne hai messo di tempo a morire. Ne avevi di sangue in corpo. E qualcosa, qualche cosa, andava fatto. Strana fine per un sedicente uomo di chiesa. Finire senza una sepoltura.







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