sabato, novembre 29, 2014

Nymph()maniac









Un luogo da vivere







Stava sfogliando il giornale su una panca di marmo dei primi del Novecento. Un quotidiano dalla storia secolare, caratteri neri su carta bianca riciclata. I tabelloni delle partenze erano in continuo cambiamento, le tessere nere con le lettere che componevano i nomi delle stazioni roteavano ad una velocità costante e gli occhi di una donna tentavano disperatamente di stargli dietro: niente da fare, le connessioni dei suoi neuroni retinici erano franate, prevenendo un probabile stato di trance. In uno degli sporchi e trasandati bar all’interno della stazione viaggiatori sbadati facevano sbattere le tazzine di caffè producendo un sordo refrain straussiano. Le biglietterie delle ferrovie dello stato erano occupate da file scomposte di persone che attendevano bramose il miracolo del biglietto stampato. Le strutture metalliche forgiate in fabbriche oramai estinte sostenevano le volte animate da piccioni disseminati che beccheggiavano con corpi gonfi da un freddo insensato. Annunci vocali provenienti da altoparlanti nascosti, oppure collocati talmente in alto da non poter essere catturati dall’attenzione umana, intasavano l'aria cubica. La prima pagina riportava fatti di nessuna importanza. Il quotidiano era un nome storico per la stampa del Paese. Negli ultimi anni, seguendo il declino della nazione e del suo popolo, aveva scelto di scendere al livello del purgatorio: la realtà. Un’altra realtà era che in quel lembo di terra europea non accadeva mai niente di rilevanza mondiale, se non le solite vicende che, da almeno trenta e più anni, si ripetevano sempre secondo lo stesso tema - solo che si manifestavano in una forma più deteriore. In un posto del genere non sarebbe mai potuto accadere qualcosa di eco planetaria. I destini del mondo venivano decisi a migliaia di chilometri di distanza, che si trattasse di una stanza di Washington, Pechino o Bruxelles. La cosa non lo turbava affatto. Si sentiva uno straniero in casa, un apolide voluto del fato, un cittadino a cui hanno dato il passaporto senza mai averne fatto domanda. Che fare, allora? Niente. A turbarlo, mentre le pagine del giornale venivano girate con gesti sprezzanti, noncuranti dell’esilità della carta stessa, era la sua attuale condizione: si sentiva un uomo tradito. Tradito da sua moglie, dal suo lavoro, dai suoi amici, dalle donne avute, dal suo maestro, dalla politica. E poi, non in ultimo, tradito da se stesso, dalle sue scelte, dai suoi calcoli, dalla sua ambizione. Mal riposta, alla luce dei fatti. L’insegnante precario di un cazzo di liceo privato. Aveva dovuto accettarlo per sbarcare il lunario. Un’espressione orribile che rifiutava ma che era cara a sua madre, sollevata per l’impiego, seppur incerto, del suo unico figlio. Voleva proseguire il rapporto con l’università, ma lui, il suo maestro, il docente specchiatissimo ed illibato, titolare della cattedra di greco antico, era morto improvvisamente a causa di un infarto. L’infarto era parte di un artato abbellimento lessicale, una verità mozzata per dire che era morto, sì, morto di infarto, sì, ma: morto di infarto a causa di un uso massivo di cocaina era la frase completa da pronunciare. Pochi giorni dopo arrivò un altro docente che occupò la cattedra, la sezione dell’istituto di greco antico all’interno del dipartimento di lingue e da lì a breve seguì la relativa nomina. Ovviamente il nuovo docente portò il suo squadrone di assistenti e annessi. Per lui non c’era più posto. Riuscì in seguito ad ottenere la liquidazione degli arretrati, somma che gli permise di vivere per un paio di mesi. Al terzo mese le lezioni private di greco non bastavano più. Dopo un anno di fallimenti e frustrazione, arrivò la chiamata da un liceo privato. Si trattava di una supplenza a termine ma che sarebbe potuta sfociare in un impiego stabile a seguito delle annunciate dimissioni di una professoressa di un’altra classe. Non voleva insegnare al liceo, tantomeno privato e di stampo religioso. Almeno una pubblica. Ma niente. Aveva accettato. Lì conobbe sua moglie, insegnante di storia dell’arte. Si erano sposati in fretta ed in fretta erano arrivati i problemi, le incomprensioni e le porte sbattute. Poi lei gli sbatté in faccia che aveva un relazione con un uomo. Lui lo sospettava ma non voleva crederci. Lo deluse sapere che quella relazione non era iniziata dopo il matrimonio, ma proveniva dal passato, prima che si conoscessero. E non era mai stata interrotta. Si sentiva lui l'uomo della relazione extraconiugale. Il vero matrimonio era quell’altro. Nel periodo successivo alla separazione tentò di farsi forza con i pochi amici rimasti. Ma i rapporti si erano allentati, la brillantezza di certe battute era sbiadita ed inoltre quando lui aveva bisogno di loro, o aveva semplicemente voglia di andare a vedere un film al cinema, erano sempre in preda a impegni di dubbia natura. La sera prima di quella mattinata in stazione aveva ordinato la libreria in casa e aveva guardato con disillusione quei libri che tanto avevano significato per lui: i Rougon-Macquart, le raccolte con testo a fronte di poeti ellenistici, l’Iliade, Una vita violenta, volumi sulle acqueforti di Goya e l’enciclopedia del cinema. Sorpassati da mesi i quarant’anni si ritrovava in una dimensione sferica, in cui i movimenti al proprio interno, se ci sono e sono percettibili, registrabili, sono variazioni di moto infinitesimali, irrilevanti e di efficacia inesistente per chi la abita. Alzato dalla panca, gettò il giornale in un cestino. Si mise gli occhiali da vista per vedere se il treno era in orario. Le tessere del tabellone degli arrivi erano ferme. Lesse la provenienza: Torino Porta Nuova. Sarebbe stato lì in poco meno di cinque minuti. La pubblicità diceva “Milano Centrale, un luogo da vivere”. Fuori dalla stazione, mentre camminava con la persona che era andato a prendere, definì quello slogan fuorviante. Qualche minuto dopo si lasciò scappare che Milano era una delle poche cose che lo faceva andare avanti e così, oltre alla condizione di uomo tradito che viveva con estremo disagio, si ritrovò anche in un tormentato stato di contraddizione. 








mercoledì, novembre 26, 2014

Come le vorresti








Certo,
ho fatto molte cose
alla mia maniera
ho parlato
sono stato
ragionato

ho ascoltato musica per 30 anni
letto, scritto - solite cose
&d un giorno
mi sono messo a suonare il piano

mi mandano foto di donne nude
come a bukowski
o donne con biancheria intima
mi chiedono ti piaccio
come le vorresti
medie o ben cotte?

c’è solo un altro papà zucchero in città
& quello non sono io

guardo queste donne
le vedo per strada
le ho conosciute in università
ai banconi dei bar
nei musei

buonasera
ho una camera poco distante da qua
ma in certi casi
non riesco ad andare in fondo
quasi mai a dire il vero

zola era di un realismo esagerato
lautrec visionario del tabacco
& hugo si iscriveva alla lotta femminista

la vita è molto più facile
di quello che si crede

ci si mette a pensare
persino che la notte non possa esistere

nella tavola degli assi universali
verticale, orizzontale
diametro o circonferenza in dilatazione

l’uccisione di qualche ora
capita ogni momento
& poco importa dove sei stato
& quanto hai contato

ogni tanto vengono per confortarti
senza che tu l’abbia chiesto

i tuoi scritti per me hanno significato molto
il tuo libro mi ha cambiato la vita
le tue foto sono bellissime
gente che mi scrive così

donne senza ritegno che dormono
senza mutande a barcellona
altre in vetrine ad amsterdam

niente di particolare

qualcun’altra si batte
per i diritti in piazza
o vede solo troppa televisione.






giovedì, novembre 20, 2014

13 giorni dopo








E’ solo gennaio
& lei ha già
gli occhi tinti di verde
per l’occasione
un nuovo vestito
ha già detto che vuole andare
dice che non andrà lontano
comprato nel negozio sotto casa
non ci sono campi gialli ad aspettarci
non vedo fantasiosi cieli blu
o eroi inventati per fantasmi
solo andare dritto per i cambiamenti
quindi salire in macchina
anno dopo anno
13 giorni dopo.








Algren









lunedì, novembre 17, 2014

Bob Dylan

Amanti fuori città









chiediti di come sei arrivato qui, dall’altra città
con un cappello in mano &d uno in testa al contrario
& le mani su un piano da parete
nessuno si mette a prenderti sul serio
se cerchi monk nel 2000 e rotti
& vendere chi non hai mai fatto parte del gioco

lei ha un bel nome, sì certo
nel prospetto dell’entrata dell’hotel
cosa si può ridefinire del bronzo colato
di cosa si può ridere sguaiati
il giorno è una piombatura dettata
perché non c’è ragione di andare altrove

sono tornati a casa con la mimetica
hanno imprigionato & torturato i terroristi
gli hanno fatto un battesimo da geova
il miracolo è capitato con l’elettricità esplosa
nel catino del pentimento denaturando le mascelle
i sassi in bocca di democrito per demostene

un’ondata di moscerini chiamati
coloro che colpiscono l’atmosfera
facce dalla costa orientale con un risucchio
tra i denti e la lingua e il palato
il dare della testa perdonato
dall’uomo senza sorriso pagato

la passione al distributore automatico
non ho niente da darti
le tue origini mi sono indifferenti
ti ho incontrato come dio alla stazione dei pullman
vengo chiamato giù, a scendere
tutti & tre amanti fuori città.




domenica, novembre 16, 2014

Il rilancio del giorno dopo








Il Signor Brecht
non sa niente di noi
& dopo quasi un chilometro
prima dell’ottavo miglio
& poco dopo il settimo
c’è un’intersezione stradale
& ci sono buche nell'asfalto
non è per niente facile
tirare avanti di questi tempi
uomini si trascinano sulla woodward
carrelli pelle vestiti per strada
filo spinato per centinaia di metri
assi di legno incurvate
panchine di cemento butterate
statue di santi dalla lontana europa
piangono con braccia invocanti
il rilancio del giorno dopo
nelle parole delle persone di colore
che non hanno un lavoro stabile
da oltre quarant'anni
un giornale riporta nuove operazioni
nel mercato finanziario
frutteranno
una grande quantità di danaro
agli amministratori delegati
della nuova compagnia.






Una grafia curata








Aveva pensato che la stagione fosse finita. Che fosse una tregua dalla pioggia. Avrebbe smesso di piovere e con l’autunno avrebbe iniziato a prendersi cura della sua grafia. Voleva iniziare a scrivere meglio. Quando passavo davanti all'entrata, il suo busto si chiarificava a tratti attraverso le lettere della scritta rossa dai contorni dorati sulla vetrina del The House of Malt. Si era detta che spreco, che spreco di tempo lavorare in quel bar per pagarsi gli studi che poi forse avrebbe mollato in pochi anni. Si chiudeva nello sgabuzzino sul retro, un posto chiuso, con un intonaco irregolare e dipinto di nero. La luce proveniva da una piccola lampada appesa al soffitto che si accendeva con una cordicella metallica. Chiudeva la porta e puntava i piedi e le braccia, contro la parete i primi, contro la porta le seconde. Un giorno, appena arrivata al lavoro all 16.45, posò le sue cose nell’armadietto. Indossò il grembiule della House of Malt, se lo allacciò e si mise davanti allo specchio. Aprì il rubinetto del lavandino per far scorrere l’acqua. Lavarsi le mani prima di prendere servizio, diceva il cartello incollato sopra l'asciugamani elettrico. Si diede un’ultima aggiustata ai capelli. Dopo un breve sospiro si guardò la pelle degli avambracci. Sembrò non crederci. Così smunti e opachi. Percorse il breve corridoio di collegamento tra gli spogliatoi e il salone del bar. Prese un giornale della free press; lesse le notizie principali, le strisce di vignette (in cui non ci trovò nulla di divertente), e qualche annuncio pubblicitario. Le cinque erano arrivate ed iniziava il suo turno. Quella sera c’erano i soliti clienti, con le solite storie, più una compagnia di ragazze dagli intenti saffici. Aveva servito birre, qualche cocktail e bicchieri di vino ghiacciato. La musica era una delle solite selezioni rock-blues scelte del proprietario e le erano piaciuti i brani di Rory Gallagher. Le era arrivata una chiamata da sua madre, verso le 23.00. Piangeva come ogni sera per la morte di suo padre. Aveva terminato la telefonata dicendole mamma devo tornare al lavoro adesso. Aveva ripreso a dare da bere e poi avrebbe guardato fuori dalla vetrina. Ed ero io che potevo passare o solo qualcun altro, che non avesse la mia faccia o il mio nome.




Cisco Pike








lunedì, novembre 10, 2014

Depeche Mode

Stevie Ray Vaughan

Public Enemy

Sceso dalla macchina





Sceso dalla macchina vide quello che mesi dopo chiamò la MATURITA’. Davanti aveva casa sua con l’anta semichiusa dell'autorimessa e al primo piano, dietro una finestra dai vetri di zolfo, la sagoma lignea e statica della moglie, imprigionata in una magrezza asettica degna di un soggetto di una tela di Hopper. Prima di scendere dalla macchina si guardò tra i piedi e vicino ai pedali dell’auto vide due scontrini e una lattina schiacciata di birra olandese: li raccolse e li mise in un sacchetto di carta marrone già pieno di altra spazzatura del viaggio. Si lanciò in una sequenza imperturbabile di bestemmie e picchiò i pugni sul volante - cristo ci siamo. Fece un verso e mise i piedi a terra ed andò ad aprire completamente la basculante lasciata in quella terra di nessuno, a mezz’asta. La moglie avrebbe potuto spalancargliela, sapeva che gli piaceva entrare dritto senza fare la minima fatica. Di solito gliela lasciava tutta aperta quando tornava dalla spesa. Ma questa volta non era andato a fare rifornimento di cibi, bevande e detersivi. Era andato a fare uno dei suoi viaggi per il suo libro, e questo a lei non importava. L’autorimessa semichiusa e la sua tetra silhouette alla Emily Dickinson ad Amherst erano il suo manifesto disappunto.
Risalito in macchina spense lo stereo che stava riproducendo le note di una registrazione di un suo amico jazzista. Era del buon materiale, degli standards reinterpretati con una Fender Telecaster leggermente distorta. Faceva molto John Scofield. C’erano poi delle rivisitazioni di E.S.P. di Miles Davis. Ascoltando quell’ora e mezza di incisione per strada aveva prestato molto attenzione alle fasi della vita del suo amico. Aveva dovuto concludere come anche il suo estro si era calmato con l’età. Era diventato un uomo pacifico, di ragione. Tutti tendono a far pace con chi si ha attorno. Almeno che non si voglia rivoluzionare.
Mise la dannata auto dentro l’involucro di mattoni e legno; prendendo la borsa nel baule della Mercedes Pagoda 280 SL verde scuro, si lanciò in un retropensiero: la rivista.
Fino a qualche mese prima aveva fatto il critico musicale militante. Un paio di decenni fitti di musica saturante, locali, musicisti, fotografi, sale fumose, camere d’albergo sfatte. Il rock era il suo primo interesse, poi venivano il blues, il jazz e la classica. Passava settimane in giro per il mondo. Andava a scovare chitarristi texani sconosciuti e li proponeva al pubblico della rivista e a qualche amico discografico. Magari avrebbe scovato un’altro Stevie Ray. Prima di fare il critico musicale aveva fatto il reporter per una piccola rivista estera e prima ancora qualsiasi tipo di lavoro pur di andare avanti. Poi una mattina o forse era un pomeriggio, lesse o gli dissero, che era morto Lou Reed. Aveva scritto un lungo articolo intitolato "Morte di Lou Reed" e l’attacco era stato: Possiamo dire che il mondo finisca qua. A quest’ora. Niente di personale, cari lettori.
Se ne andò la sera stessa. La rivista gli riconobbe una buona liquidazione, con la quale avrebbe potuto vivere bene un anno e mezzo. La sera delle dimissioni, che era quella della morte di Lou Reed, morto a migliaia di chilometri a Long Island, quando la moglie gli chiese cosa avrebbe fatto e come avrebbe pagato i conti nei prossimi mesi lui le rispose che si sarebbe dedicato ed occupato dell'arte nella sua forma più pura: la speculazione. Al che la moglie si diresse verso una bottiglia di gin Beefeater Burrough’s Reserve e se ne versò mezzo bicchiere con ghiaccio, acqua ghiacciata e limone. Bevve e disse a suo marito, testa di cazzo.
L’immagine di sua moglie con la testa alla finestra della camera del primo piano e quella tazza di tè verde tenuta tra due mani come una dimessa ancella di Apollo, gli aveva dato sui nervi: era la concreta e perfetta antitesi con ciò che lui intendeva per speculazione. Tra sé e sé la definì un’inutile apparizione freudiana. Era ancora nell’autorimessa e guardava gli scatoloni impilati che contenevano dischi e libri, e solo alcuni, dei vestiti. La disintossicazione era durata quasi più di un anno. Pochi giorni da un anno dalla morte di Lou Reed venne dimessa. Ed adesso era lì in casa, ad attenderlo.
Il peso di dover convivere con una donna che aveva tentato il suicidio attraverso un’autodistruzione pilotata e che già aveva fatto un tentativo secco ed immediato oltre vent’anni addietro, prima che lui la incontrasse, lo deprimeva.
I due si incrociarono in salone. Lui gettò le chiavi della macchina nel piatto d’argento sopra la credenza e lei si mise davanti alla televisione. Se mi dai la lista vado a fare la spesa. Se non ti dispiace vorrei venire anch’io. Bene, andiamo.

Si misero in macchina e lei gli fece notare con tono sprezzante come la Mercedes che lei gli aveva regalato fosse tenuta come una "cloaca a cielo aperto" e che avrebbero dovuto farla lavare immediatamente, oltre a far scrostare il pianale e lucidare la pelle dei sedili. Lui convenne sul fatto. Dopo aver fatto quanto detto, imboccarono l’uscita per dirigersi al supermercato. La moglie mentre buttava nel carrello salumi imbustati e pancarrè, gli chiese come stesse andando col suo libro e con le sue ricerche. Sono ad un terzo, tenendo in mano un barattolo da mezzo chilo di maionese per controllarne la scadenza. Sono sei mesi che sei ad un terzo. E tu sei convalescente. I terapeuti dicono che non devi concederti tensioni. Lo sai. Proseguirono attraverso le corsie e gli scaffali altri tre metri e lei gli chiese di raccontarle un po’ del libro. Ne parlarono fino all’ora di cena e la moglie bevendo una bevanda gassata al pompelmo e agognando un gin, gli fece i complimenti, almeno per il piano dell’opera. E’ un’opera pretenziosa. E’ un’enciclopedia del rock che conta. Già, potremmo metterla in questi termini; sei molto gentile. Andarono a letto e a letto ripresero a parlare. La settimana dopo finalmente una piccola casa editrice indipendente, erede di una ben più gloriosa che aveva fatto parte del panorama di quello che anni prima veniva chiamato l’underground, accettò il suo progetto e si dichiarò disponibile a pubblicare a costo zero e a seguirne la commercializzazione. Marito e moglie valutarono i pro e contro di quella scelta. Meglio piccoli e liberi oppure continuare a tentare con i nomi più prestigiosi dell’editoria. Optarono per un libro su misura e lui prese contatti con la casa editrice che gli aveva scritto. Il libro uscì ad aprile dell’anno dopo e le vendite nei primi tempi si fermarono a qualche centinaio. Quando le portò la copia con dedica, una dedicata a sua moglie, definita per iscritto l’amore della sua vita, lei lo guardò incredula. Teneva tra le mani un volume immaneggiabile, un trattato sul rock. Mille settecento ottantadue pagine di rock. Un tomo tolemaico degli anni duemila, apostrofò. Lui se la prese e uscii di casa. Dopo due ore che era fuori casa lei lo raggiunse dove era sicura di trovarlo: il suo american bar preferito. Lo trovò al bancone con una copia del suo libro mentre lo mostrava agli avventori e ne illustrava il contenuto. Vide che un gruppo di persone, tra cui riconobbe ex colleghi del marito ed amici di lunga data, stavano lì attorno ad ascoltare. Suo marito stava spiegando, stava parlando al suo pubblico. Tempo prima avrebbe potuto avere una reazione duplice ed alternativa: l’avrebbe affrontato e aggredito o se ne sarebbe andata, scappando. Invece si diresse vicino al bancone e prese a baciarlo. Il giorno dopo era domenica e lui era sulla sua scrivania in pelle e legno del suo studio. Quando lei le portò il caffè lo sorprese nell’atto di arrotolamento di una sigaretta di tabacco inglese. Aveva un’aria compiaciuta. Le andò in contro e la portò davanti alla finestra che dava sul giardino. Erano vicini, non stretti uno all’altra. Lei volle dirgli che era dispiaciuta per non avergli dato un figlio. Lui liquidò la cosa come vecchia e le ripeté che non ne aveva mai avuto il reale bisogno e che una donna come lei gli aveva dato altro, una maturità consapevole.





martedì, novembre 04, 2014

Frank Sinatra - My Way

Walk This Way

Nella vita seduta








Seduta su una roccia
gesticolava
quattordicenne

dipinta di rosso
viola & nero
vuoi toccarmi?

ma non se ne può fare una messa

la terra sotto i piedi
tatiana & lolita
solo i bordi





Saenger









quando ti hanno guardato
non avevi ancora iniziato
a pensare che odiavi ognuno di loro

allungare con la cannuccia il ghiaccio
ti ricordi di me? certo che gli occhiali
ti stanno veramente bene

saltare a conclusioni
per chiudersi in bagno
con il braccio tirato

chi eri tu
con i capelli su
e gli occhi rossi

la città rimane
un posto da evitare
bruciature interne

il vivo rosso
delle tue ossa
ti commuovevi

alla morte di qualcuno
guardavi l'asse dell'universo
impasticcato di traverso

una scena dall'altra parte del mondo
ad harlem
ti dicono beato tu che ci sei stato.