lunedì, luglio 29, 2013

Venusia



Una serie di scaffali ed insegne luminose, lunghe debordanti file di deodoranti per uomo/donna in approssimati e colorati barattoli di lamiera, offerte dell’ultima ora su cartelli che spuntano quasi nel mezzo della corsia, pacchetti di farina ammassati, goffi e pieni sacchi di iuta pieni di riso, fagioli, lenticchie o spezie allevatrici o riparatrici dell’animo umano, lamette di ogni tipo appese in comode confezioni di cartone fresco di stampa appena uscito dall’industria di turno & pronto all’uso, lamette di ogni genere, buone per una rasatura da tre volte al giorno o tre volte alla settimana, bibite per ogni palato, birre & superalcoolici solo per intenditori, quest’ultimi tenuti sotto vetro se di pregio, assorbenti e pannolini come allo spaccio militare, sacchetti per la spazzatura, plateau di carne & pesce in lunghi e solitari banchi frigo, sacchetti di verdure surgelate, settimanali patinati di sordidi pettegolezzi per casalinghe depresse e annoiato dal ritardo del ciclo, riveste di fitness per obesi, giornaletti illustrati per soli uomini, cassiere pronte ad accoglierti, cassiere pronte al diluvio universale come ad una bella ripassata nel locale scarico merci, cassiere con una paga da fame che sono grate di appartenere a quella catena di market, la più fidelizzata nel Paese, gente in fila per la riscossione della raccolta punti per un asciugacapelli di quart’ordine, una pentola, una macchina del caffè, un frullatore, un punteruolo per rompere il ghiaccio, un di set di coltelli finti-giapponesi, un ventilatore, un servizio di asciugamani o di tovaglie, un biglietto del cinema, un viaggio, una promessa di matrimonio, un redde rationem, un’estrema unzione, per rimediare una scopata dopo anni o solo dopo un quarto d’ora, un occhio finto,  unghie finte,  una fotocamera, un cellulare, un televisore, un vaso per i fiori, un funerale garantito in piena regola, un film in voga,  un best-seller che la o lo porterà ad una soffice quanto nascosta masturbazione, chi per un biglietto della lotteria … siamo tutti in cerca di fortuna o di amore.
E’ il mio giorno libero e ci sono quattro posti in cui vado quando non lavoro: i supermercati, le librerie, i cinema & i bar. Soprattutto i bar.
Passato il supermercato, andando con ordine, viene il turno delle librerie.
Stavo andando al Libraccio di viale Vittorio Veneto, guidando in modo sconsiderato per essere le dieci di mattina ma mi piace fare certe accelerazioni e poi inchiodare o pure sgommare sul pavé in curva lasciando andare un po’ la macchina e riprendendola subito dopo, quando, finite alcune di queste mie bravate, attraverso il finestrino del passeggero mi capita sott’occhio una donna con capelli biondi tinti, buon fisico, pelle grinzosa e soda, tiene nell’avambraccio destro una borsa di hermes da almeno 7.000 pezzi e credo, mentre sta parlando all’ultimo iphone sistemandosi degli occhiali da sole di cristian-dior, che dopo tutta quest’inutile descrizione, credo che abbia solo voglia di una cosa: di sballarsi un po’ di mattina e di scopare fino allo sfinimento in un lussuoso hotel di piazza della Repubblica, almeno fino alle sei, o forse fino alle nove di sera, mentre il marito va a sbattersi un’altra, o se lo fa sbattere, cosa da non escludere per niente.
Intanto è solo un’alta mogliettina insoddisfatta con un marito deficiente e due figli scemi che la annoiano.
Almeno la scena me la sono immaginata così.
Lo so: cinico, crudele, squallido se proprio vogliamo.
Cosa meglio di un giro con me & una lunga cavalcata durante la giornata?
Decido di affiancarmi.
- Signora scusi. Mi scusi signora. Potrebbe dirmi dov’è il Libraccio di viale Vittorio Veneto?
- Prego?
- Il Libraccio di Vittorio Veneto.
- Viale Vittorio Veneto lo trova andando dritto, così. Il Libraccio non so cosa sia.
- E’ una libreria. Molti libri. Nuovi ed usati. Una manna letteraria, qualche volta.
- Ah, capisco. Guardi l’unica cosa che deve fare è andare avanti.
- Lo vuole vedere, vuole venirci con me?
- Ma cos’è un pervertito?
- Niente affatto. L’ho vista per strada. Non capita tutti i giorni di incrociare una donna del suo calibro.
Ecco ci è caduta. L’ho stesa. Si è messa la mani nei capelli ed ha messo il cellulare nella borsa. Guarda l’orologio.
- Non le salto addosso, stia tranquilla. E’ una libreria, un posto pubblico, non un bordello. Vuole venire con me?
- Senta è una situazione bizzarra. Mi sta mettendo in imbarazzo.
- Lungi da me. Magari trova qualche bel libro. Scommetto che le piacciono i gialli ed i libri romantici.
- E lei come fa a saperlo?
- Sono uno studioso dei comportamenti umani. Giro il mondo, conosco persone, le analizzo, le penetro a fondo.
- Ma cosa fa? Lo psicologo?
- No è lei che probabilmente ha frequentato la facoltà di psicologia con l’intento di diventare una psicoterapeuta. Ma non ha mai esercitato perché si è sposata ed ha fatto la moglie e la mamma. Intanto suo marito guadagna una barca di soldi.
Ci siamo. Sale in macchina.
- Piacere io sono Venusia.
- Io Filippo.
- Senta questa è una follia. Non so come ha fatto a sapere, a capire buona parte della mia vita in pochi minuti.
O è un veggente o un genio o non so che cosa. Prima di partire, ah sia ben inteso che vengo solo a questo “libraccio”, poi mi riaccompagna qui nello stesso punto dove mi ha caricato, come una putt… pardon, mi dica cosa fa lei?
- Lavoro come capo redattore alla Nuove Direzioni, una casa editrice di teatro. Ho tre lauree: lettere, filosofia ed antropologia. E poi scrivo. Saggi, intuizioni, visioni e qualche volta, per deformazione professionale, testi teatrali. A novembre un mio testo verrà portato in scena. Speriamo bene. Mi scusi se sono stato spavaldo, sfrontato, diretto.
- Ma lei va in giro a raccattare donne per strada con stupide scuse tipo questo “libraccio”?
- Troppo sexy per farti scappare.
- Va bene andiamo.
Dunque … Siamo stati al Libraccio dove io ho comprato venti libri e lei uno, immagino per ricordo della nostra avventura, un libricino con aforismi di saggezza orientale, ovviamente su mio consiglio.
Abbiamo anche incontrato un paio di miei amici e siamo stati li a parlare un bel po’.
Dopo io e Venusia abbiamo deciso di pranzare e si sono fatte le quattro.
E’ venuto fuori che era sposata e che aveva due figli. Ma il particolare determinante che mi era sfuggito, che non avevo considerato nelle mie estemporanee equazioni umane, era che da 5 anni era divorziata e che i figli vivono in Svizzera in un collegio per le elite.
Dalle quattro alle sei siamo stati alla pinacoteca di brera e da lì ci siamo mossi per andare a fare l’aperitivo al Nottingham Forest, anche se sono anni che non bevo più cocktails e soprattutto che non ci mettevo più piede.
Lei è impazzita per la i supercocktail di Dario, il miglior bar tender di Milano.
Abbiamo bevuto dalle sei alle undici. Io sette cocktail lei cinque. Una buona media, un discreto bilancio.
Io ho retto benissimo ed ho fatto lunghi e circolari discorsi alla mia maniera, discorrendo della letteratura del novecento mentre lei si limitava ad interrompere con mirabolanti incursioni, veramente sorprendenti, concludendole con una dichiarazione di rancore ed odio nei confronti di Jacques Lacan e i suoi seminari.
Affamati, l’ho portata sui navigli dove le ho fatto mangiare un panino con fegato pasticciato da Enzo, un baracchino di fiducia che sta tra il naviglio grande e Miani.
Dopo di che abbiamo fatto un lungo giro a piedi con qualche birra in mano e ci siamo diretti al Nidaba per ascoltare un po’ di blues.
Sul finire della serata, fuori dal Nidaba, quando Max e Barbara ci hanno detto “è ora di chiudere” ed erano le tre, abbiamo di nuovo camminato fino alle quattro.
Ad un certo punto lei mi ha detto: ora mi puoi riportare dove mi hai caricata.
In tutta la giornata non mi era mai passato per la mente neanche un attimo di portarla in hotel.
Forse avrei dovuto chiederglielo, forse lei se lo aspettava e se lo meritava.
Arrivati vicino a piazza della repubblica mi ha chiesto di portarla in via san marco al 22, dove abita.
Lì, sotto il portone di casa, mi ha detto che erano state le diciotto ore più interessanti e piene di vita che ricordava.
- Allora a domani? Ha continuato.
- Sì.
- Posso venirti a prendere fuori all’uscita dal lavoro.
- Ok.
- Dov’è precisamente.
- Via Lecco 18.
- A che ora?
- Le cinque.
- Via Lecco 18, alle cinque. Cioè tra 12 ore.
- Esatto.
Ci siamo salutati con un bacio sulla guancia prolungato in cui io ho odorato fortemente la sua pelle ed i suoi capelli.
- Andiamo con calma, anche se lo farei qui in macchina.
- Andare con calma non fa per me.
- Ho tutto il tempo che vuoi, per te.
E mi ha messo una mano nei pantaloni dove ovviamente mi ha trovato pronto.
Ci sarà da divertirsi, mi ha sussurrato nell’orecchio, leccandomelo.
Lo spero, le ho ribattuto e le ho tirato un morso sul collo.
Avevo qualche ora di sonno davanti.
In giornata sarei stato su di giri, fuori controllo.
Niente di nuovo.







Che






domenica, luglio 28, 2013

Linda


Ho sempre pensato fosse meglio giocare su più tavoli, forse per il solo fatto di pensare e di realizzare di dividere, parcellizzare il rischio.
Sono qui in un bagno di un residence di Berlino, probabilmente costruito negli ottanta, i ruggenti ottanta di Strehler e Craxi a Milano, del cd. socialismo liquido, e sto per chiamare mio padre, il grande industriale della chimica, l’uomo da duecentocinquanta milioni.
Tutte le volte che dovevo alzare il telefono e fare quella sequenza di numeri che composti mi mettevano in contatto con la sua voce autorevole, ficcante, dura e composta in ogni frangente, ricordavo con disdegno e dolore una nostra conversazione o forse la nostra conversazione, quella in cui i nostri due mondi si scontrarono ed esplosero, frantumandosi, annientandosi a vicenda e non si sarebbero mai più riavvicinati.
- Papà io sono un regista e voglio fare il regista.
- Bene ti manderemo da quel medico dei matti, tanto in casa c’è già qualcuno che ci va, giusto? Quello che ha lo studio in vincenzo monti, almeno una volta nella tua misera vita avessi dimostrato il tuo interessamento agli affari, alle cose di famiglia, per non parlare della tua virilità, fatti una moglie e dammi almeno un erede degno del nostro nome!
- Papà non ti è mai passato per quel cervello del cazzo che morirai, magari anche a breve? E già che ci siamo affrontiamo pure il capitolo mia sorella ovvero tua figlia, la lesbica.
A quel punto mio padre era sull’orlo di un infarto. Mi ricordo il suo respiro nel telefono. Probabilmente stava sudando. Avrà allentato il nodo della cravatta da cinquecento euro e avrà chiamato l’interno della sua assistente personale giusto per il gusto di insultarla e accanirsi su di lei per dare sfogo al crollo delle sue granitiche ed inscalfibili idee, idee teutoniche da vero capitano d’industria, poggianti sulla sua fede incrollabile nel mercato, sulla sua arcigna convinzione che tutto è comprabile e vendibile nella vita, perché tutto è business e il denaro deve correre, deve girare più in fretta possibile e deve farlo nel maggior numero di mani possibili perché nella catena della trasmissione del denaro arriva un punto in cui esso passa per le mani dell’uomo giusto, uno come lui ad esempio, ed è allora, è lì che il denaro assurge al rango di capitale e il capitale si trasforma in lavoro e il lavoro finisce nelle tasche di quell’uomo capace sotto forma di ritorno d’investimento composto da capitale di rientro e margine di profitto, il cd. utile e questo cd. utile costituisce ricchezza aggiunta e la ricchezza è denaro spendibile, è l’unica linfa vitale che tiene insieme gli uomini, le società, gli Stati, le Nazioni, è il collante unico e supremo, quello su cui si innestano e si propagano le valute monetarie del mondo che sono il titolo legale di miliardi di transizioni quotidiane, miliardi di operazioni di debito e credito e queste sono le vite delle persone, sono la cifra degli individui ed ogni uomo ha la sua.
Questo è a grandi linee un discorso che mi fece quando avevo sette anni e credo che adesso, mentre magari sta firmando un contratto d’acquisizione di un terreno da lottizzare e cementificare oppure mentre sta chiacchierando affabilmente lungo le buche del golf club di Monza con un armagnac del ’72, queste cose lo stiano sorreggendo,
Sto preparando con un giornale del posto, il Transoceanic Language, una rivista specializzata di cinema e arti visive in generale che si propone di fare da trait d’union tra Europa e Stati Uniti, un lungo e contrastato footage sulle città di confine tra il Texas e la Louisiana.
Faremo una proiezione in un locale vicino ad Alexander Platz, ci aspettiamo un centinaio di persone, niente di più.
Adesso devo chiamare mio padre e devo dirle di Linda, mia sorella. Non ho scelta, devo farlo.

- Ciao, sono io.
- Sì, dimmi. Fai in fretta che ho telefonata sotto.
- Ascolta, vado dritto al punto.
- Sbrigati.
- Linda.
- Linda cosa?
- L’ha fatto. Un’altra volta.
- Ha fatto cosa? No,non quello, spero …
- Sì, hai capito bene.
- Ma non era lì con te a Berlino?
- Sì, ma io non posso controllarla 24 ore su 24.
- Come l’ha fatto stavolta?
- E’ un mese e rotto che va avanti a crack. L’ha trovata Elsa. la sua compagna di adesso.
- Come?
- Taglio longitudinale delle vene del solo braccio sinistro. L’ha presa per un pelo.
- Ora dov’è?
- In ospedale, sott’osservazione continua. Non è in pericolo di vita. Sto andando lì.
- Hai bisogno di soldi?
- No, ho tutto. Ti chiamo quando esco di là
- Ok.
- Non dire niente a mamma. Ci parlo io quando ho sistemato tutto.
- Chiamami.
- Sì certo. Ciao.
- Ciao.

Mia sorella era in un ospedale a Mitte. Era in una stanza con altre due ragazze.
Credo che grosso modo stessero nelle sue condizioni perché le facce delle persone fuori dalla porta, parenti o conoscenti che appoggiavano la fronte al vetro che faceva da finestra sulla stanza e che la sbattevano con frequenza di un vecchio e tramortito gong, erano devastate.
Era arrivata a quattro. Quattro tentativi di suicidio in trentotto anni di vita.
Di sicuro c’è chi ha fatto di peggio, c’è chi ce l’ha fatta al primo colpo. Strike, scacco matto, nessun diritto di replica e tanti saluti.
Elsa mi è venuta incontro e mi abbracciato, disperata.
Grazie Elsa, le ho detto.
Io non ce la faccio più, non so più cosa fare. E si è messa a piangere.
Vai pure a casa. Ci sto io qui.
Va bene, torno in serata.
Oramai non mi chiedevo più il perché, e sinceramente non so se me lo fossi mai chiesto le altre volte.
Linda era una rinnegata, era quello che Artaud chiamava il suicidato della società a proposito di Van Gogh.
Lei non ce l’ha mai fatta a venirne fuori, come ho fatto io, anche se io ho avuto i miei bei scompensi.
Non c’è l’ha mai fatta ad uscire da quel meccanismo di quel tipo di società borghese per cui o se uno di loro o sei sputato fuori e vieni messo in un ossario.
Tu devi fare le loro cose, devi fare i loro studi, devi avere un lavoro rispettato, devi vestirti come loro, devi avere una bella macchina, due o tre suntuose belle seconde case, una bella moglie, qualche bel figlio, un pingue conto in banca, devi votare per chi difende i tuoi interessi economici non importa che sia giusto o sbagliato, devi andare nei soliti locali per essere notato o nei posti per potersi frequentare e praticare la maldicenza, devi essere iscritto al tennis club, al golf club per imbastire affari, devi donare risibili somme all’associazione volontaristica che aiuta i bambini del Mozambico, devi andare a messa, devi sposarti in chiesa, devi avere il televisore di ultima generazione, devi andare nell’hotel extra-lusso della Micronesia, devi viaggiare in business, non devi mai dare confidenza al prossimo perché è lui il vero potenziale pericolo, l’altro, il diverso.
Linda, in questo contesto che vive di una sua propria linfa propagatrice della stessa menzogna in cui è immersa e di cui è imbevuta ed avvelenata, era il diverso per antonomasia, era il suicidato della società par excellence.
Seconda erede di uno dei più importanti gruppi dell’industria chimica del Paese, secondogenita di una delle famiglie più influenti del Nord Italia, dopo che il figlio, cioè io, aveva scelto un’altra vita, tutto era ricaduto su di lei.
Si era trovata a fare una facoltà in cui non aveva il minimo interesse e che frequentava a malapena, e proprio in quegl’anni era oramai chiaro, almeno a me e mia madre, la sua chiara e definita inclinazione sessuale: le piacevano gli individui del suo stesso sesso, si masturbava pensando alle sue amiche non agli uomini.
Il disagio era enorme. Continui problemi di peso, andava su e giù come un palloncino gonfiabile.
La risposta a tutto ciò, per farla breve, fu la droga. E quando la droga non le bastò più, o forse l’aveva gettata in uno stato di disperazione incontrollabile o forse le aveva reso tutto più chiaro, ovviamente in modo tossico, fece il passo verso la grande mietitrice.
Ultimamente si era trasferita a Berlino, ed io con quel lavoro sul confine tra il Texas e la Louisiana, sarei stato per un po’ lì in città con lei.
Quando sono arrivato a Tegel al posto suo c’era Elsa ed io ho capito subito.
Elsa non dire niente ti prego. Lei mi ha detto: mi dispiace.
Sapevo che Linda non era venuta perché era talmente fatta che non poteva neanche uscire di casa, o forse perché in modo ancora più egoistico si era appena fatta un giro in vena.
Negli ultimi anni, Linda, aveva preso una strada definita, nel senso che faceva la fotografa e che era una tossicodipendente con tendenze maniacali suicide e che era dichiaratamente omosessuale.
Nel campo della fotografia aveva avuto le sue soddisfazioni. Aveva esposto qua e là. Aveva avuto molti scatti pubblicati su riviste del settore e non, soprattutto all’estero.
Si era specializzata in due ambiti: quello delle aree industriali dismesse e quello dello delle manifestazioni per i diritti dei LGBT.
E aveva avuto un discreto successo, diversamente da me, nonostante lei ripeteva ossessivamente che la mia arte rispetto alla sua era più vera, più forte, più diretta, più immaginifica e che lei aveva a malapena un decimo della mia impronta, della mia visione del mondo, della mia cultura.
Sono solo una dilettante di passaggio, diceva e rideva.
Le ribattevo che non era affatto vero.
A Berlino sono venuto perché, oltre al lungometraggio su quelle terre paludose e maledette – confine Texas-Louisiana - c’eravamo detti, io e Linda, di fare un lavoro assieme.
Secondo me sarebbe stato grandioso.
Volevamo fare un giro delle periferie delle città dell’Europa dell’Est, e filmare e fotografare.
No so quando si risveglierà e come.







sabato, luglio 27, 2013

Lettere selezionate







Secondo libro di lettere
jack kerouac selected letters 1957 – 1969 __________
prosa genuina spontanea vera ovvero verità d’America
eroi della grande notte occidentale imperversano

se stamattina ho letto buke
col resoconto di uno suo tour europeo del ‘79
 _________________  [da vero wino
ora ritorno con il vino di skid row

tenderloin, frisco
kerouac in una camera ammobiliata
da pochi dollari alla settimana
solito tokaj & bourbon

lettere & macchina da scrivere
lettere ai buoni bhikku d’America
ginsberg cassidy snyder whalen holmes
kerouac che si è sposato 4 volte

tante pene nelle parole di Gabrielle, la madre
tante preoccupazioni per il suo tesoro testa d’angelo
magari finito nel catalogo di ginsberg, quello famoso
delle migliori menti della sua generazione distrutte dalla pazzia

nell’ascensore dell’edificio
dove si trovano gli uffici della viking press
si è scolato un po’ di roba
&d ha firmato il contratto per ON THE ROAD

a 35 anni con una lunga lista di rifiuti
&  con 11 libri scritti in 6 anni
si dispera perché sono inediti
& la lista dei fallimenti inizia a gonfiarsi

l’unico pubblicato è stato
the town & the city, anni addietro
gli hanno dato subito 1.000 $ in mano
ma al botteghino è stato un disastro

denver, ozone park
da qualche parte in texas
mexico city, new York & la solitra frisco
(scrive san fran, qualche volta)

chiamava affettuosamente la benzedrina
“benny” o “bennie”
ne prendeva dosi massicce
per stare sempre in alto

& per squarciare il velo della conoscenza
& vedere il volto di dio
chiamava l’alcool con il suo nome
& per questo a 47 anni ha chiuso la partita

con un fiotto di sangue nello stomaco
ha chiesto scusa alla madre in un rantolo
non ha chiesto aiuto
non ha voluto essere soccorso.








venerdì, luglio 26, 2013

Ivo Nastic




 Ivo Nastic il carcere italiano l’ha conosciuto bene. In quindici anni di fortune alterne nel nostro Paese, è entrato ed uscito quattro volte – estorsione, stupro, rapina, spaccio.
Tutte accuse costruite ad arte, tutte messe in scena, tutti malintesi in cui Ivo era assurdamente ed ingiustamente incappato, mentre lui restava innocente ed integralmente estraneo ai fatti: signor giudice, mi dispiace, ma non so di cosa stiate parlando, io sono un brav’uomo, un semplicissimo padre di famiglia che vuole guadagnarsi il pane vivendo in modo onesto, mi chiamo Ivo Nastic e sono fiero del nome che porto.
E’ a Milano da 8 anni, gli altri li ha passati a Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Brescia, Torino e lo puoi vedere bazzicare attorno a corso Buenos Aires con la sua stazza massiccia ma guizzante, lui, di origine serba, ex combattente della milizia paramilitare “Serbia, Dio & Patria”, una delle tante che sguinzagliava il proprio pugno di ferro sul suolo slavo durante gli anni della guerra civile che lui chiama guerra di liberazione o una cazzo di guerra santa.
La corporatura debordante in un metro e settantacinque di persona fa da appoggio alla sua faccia levigata e oserei dire impreziosita da un maestoso segno che va dalla mascella fino su all’occhio destro, un segno dovuto ad una scheggia a seguito di un’esplosione di un ordigno, un segno che gli invade tutta l’intera faccia e ne coinvolge, deturpandone in modo sadico, tutte le possibili espressioni che possa azzardare di provare.
Tu lo guardi, magari quando ti passa affianco in strada con quella sua finta aria nobile e ti urta, e pensi, questo non scherza, questo non gioca al tuo livello, pensi a sangue, pugni, pestaggi, urla tutto condito da una bella dose di violenza gratuita e se non propriamente gratuita, a buon mercato.
Agli occhi dei miei conoscenti, nelle loro intonse coscienze perbene, questa frequentazione porterebbe ad una clamorosa disapprovazione ed ad un pubblico disgusto ma tant’è, che io ed Ivo siamo diventati da qualche mese grandi amici, buoni compagnoni o chiamatelo come diavolo volete. Lui esagera sempre e alzando la voce: saremo fratelli di sangue, principe!
I nostri incontri sono circoscritti al bar F. a pochi metri da piazzale Lima.
Ivo, come ogni buon professionista del suo mestiere, è ben radicato nel territorio & tra le altre cose gestisce il business delle “macchinette”, così come le chiama lui.
In poche parole, sapete, presta a strozzo e fornisce tutti quei servizi annessi che un affare del genere si porta dietro.
I malcapitati, di solito gente che riversa davanti ad uno schermo che si illumina e scintilla in cui stupide figure roteano attraverso un vetro unto & patinato dalle ditate di centinaia,  se non migliaia di persone al giorno, dal sudiciume e dallo schifo del locale in cui si trovano, gente che trascorre ore inutili e distruttive, che cerca di annientare fallimenti colossali e frustrazioni incancellabili davanti alle macchinazioni di una ferraglia mangia-soldi, ecco questi lui li chiama “i maiali”, e qualche volta quando è di buon animo, “i cani”.
Maiali o cani che siano, sono i suoi clienti e per questo vengono annotati scrupolosamente nella sua immancabile e vitale agenda con ogni tipo di informazione oltre al nome, al cognome, all’occupazione se c’è, alla famiglia se ce l’hanno e più importante di tutto, ai debiti, se esistono e a quanto essi, ancora più importante, ammontano.
Non metterti mai in affari con gente a cui non puoi fare del male o se non per forza fargli del male, farli cagare sotto. Ma proprio tanto intendo. Ieri sera uno mi si è pisciato nei pantaloni, davanti, cristo. Ed ero pure con la mia nuova bay. Gli ho detto fai proprio schifo, brutto pezzo dimmerda, come cazzo di uomo e come cazzo di cliente.
Pagami, o se no sarò io a pisciarti addosso la prossima volta.
Si è messo a piagnucolare. L’ho colpito con un rovescio. E vai a casa a cambiarti, verme.
Comunque quando si parla di clienti preferisce il termine maiali, perché del maiale non si butta via niente, non dite così anche voi qua?
Quando dice queste cose ci guardiamo negli occhi e non mollo lo sguardo per fargli capire che tra me e lui sussiste ancora una barriera e magari gli dico chiudi quella fogna, testa di cazzo, ma lui va matto per queste situazioni da saloon, gli piacciono queste frasi ad effetto, stile Hollywood, e magari si spinge a citarmele direttamente in inglese, imitando l’attore o persino ricreando il contesto del film di turno.
Certo in quegl’attimi di tensione frequenti – in ogni nostro incontro ce ne sono almeno un paio, fissi, rituali, più o meno forti, dove lui insulta tutta la linea materna del mio albero genealogico e riesce a raggiungere indescrivibili punte di odio, io gli sto davanti, con i gomiti sul tavolo e lo fisso a dieci centimetri, se non meno, faccia a faccia, e ci guardiamo isterici nelle pupille e sento il suo sudore della faccia che fiotta e vedo la sua cicatrice contrarsi, dilatarsi, muoversi come un serpente su quella pellaccia grassa e dopo questo bel quadretto ci rimettiamo tranquilli ed ordiniamo, con un pugno sul tavolo od un mezzo urlo seguito da una bestemmia, un giro doppio o triplo per entrambi, whiskey ragazzo, non farci perdere tempo, qui, diretto, subito.
Dopo aver tracannato almeno mezza dose di quanto nel bicchiere io gli dico tu sei il mio nemico e lui professore vai a leggere i tuoi libri del cazzo.
Da qualche tempo sta lontano dal giro che scotta, estorsioni, furti, sfruttamento della prostituzione, spaccio ad elevate quantità – quintali, e si limita alle macchinette; in più credo che faccia il protettore di qualche ragazza che lavora a domicilio.
L’altra sera, era un mercoledì, sono andato al bar F. per il nostro appuntamento.
Ero su di giri perché Ivo mi aveva accennato che voleva avere una mano in una faccenda di natura squisitamente culturale e mi ero fatto qualche cocktail prima, con una ragazza che ho conosciuto da due settimane. Un bel paio di gambe e un ottimo cervello.
Il barista mi ha chiamato al bancone. Mi ha dato un bigliettino piegato in due. Con scritto sopra. Aprilo poi ridammelo, che lo brucio.
Ho pensato il solito Ivo, sarà qua fuori a ridersela alle mie spalle.
Ho aperto il biglietto. Nella prima riga c’erano tre lettere ed una croce. Ivo †.
Nella seconda: trovato accoltellato.
Il barista mi ha poi detto che Ivo gli aveva detto di informarmi se gli fosse successo qualcosa. Sai ti voleva molto bene.
Gli ho chiesto un triplo, subito, diretto.
Dopo due sorsi ho tirato il bicchiere contro il muro.

Ho lasciato qualche soldo in più per il danno.


Kerouac








martedì, luglio 02, 2013

Gershwin






Nota introduttiva a DISTRETTI




In un suo libro Henry Miller scriveva “Io sono città! Io sono la città!”: proprio da questa esclamazione senza compromessi, posso prendere le mosse per parlare di DISTRETTI.
DISTRETTI è innanzi tutto una raccolta di miei scritti scelti dal luglio 2011 all’inverno 2012, grosso modo un anno e mezzo di vita.
Uso la parola scritti perché ritengo che sia la più corretta, la più efficace per sgomberare subito il campo da eventuali equivoci definitori sulla mia scrittura che a seconda delle volte viene qualificata o rubricata sotto le voci narrativa contemporanea o moderna, arti sperimentali, studi poetici, poesia etc. etc.

Io sono la città. DISTRETTI nasce da questa idea o quantomeno ne è una constatazione, una derivazione diretta o indiretta, conscia od inconscia che sia.
I “distretti” sono i nuclei costitutivi di questo mondo oramai completamente urbanizzato i cui i confini hanno cessato di esistere perché non servono più, perché non interessano più.

Di fatto troverete la vita delle persone, di fatto troverete i racconti delle vite delle persone e su queste le mie annotazioni e l’intreccio che il mio vissuto ha formato con esse.



Decimo minuto








Al decimo minuto della Rapsodia in Blue
Gershwin si è messo in un angolo
& ha scritto per una manhattan della mente
per una nyc universale
che facesse dire ai peggiori frenetici nichilisti
'con quel film di woody allen ho riso tutta la sera,
ora mi devo ripulire, non finisce tutto qua'.