giovedì, novembre 17, 2022

Patricia Hansen/Celia Kentner


Parte Prima: (La) Venuta al Mondo.
Parte Seconda: La Versione Integrale del Dottor Herbert Van Hansen.
Parte Terza: Il Vero ed Inevitabile Intreccio.
Parte Quarta: Non c’è nessuna Prima, Seconda né Terza Parte.
Parte Quinta: Un Unicum.

I.
L’intrusione intollerabile del Dr. H.V.H. Le iniziali ricamate sopra il taschino sul petto del camice sempre intonso ed inamidato fino ad un senso di stabilità ed inattaccabilità oltre che di impacchettamento. Una corazza verso il mondo esterno che denota un certo disboscamento del sé. Non vuole farsi scoprire. Non nasconde segreti ma rimane un emblema di antichi significati e verità inaccessibili. Conoscenze tramandate ed intramandate, intrasmissibili. Non tocca mai le mani di nessuno. Dalla Venuta al Mondo fino alla Sua Versione Integrale, registrata e depositata negli archivi del centro psichiatrico di un sito governativo.

II.
Tornata indietro all’età di. La tua città. R&R tutto in bocca e nelle orecchie, in vena e su per le narici. Sbattuta la fronte sul cruscotto con tanto di squarcio in mezzo alla fronte, aperta ora, punti di sutura e trauma cranico sicuro, fuori dalle tue palpebre ma fino ai capillari scoperti e chiosati di sangue, una tinta cremisi ora rappresa ora liquida, contemporaneamente.

III.
Spalancare il palato e far uscire fuori il cuore dell’infezione, una sillaba originata tra i denti tendente ad un sapere patetico, annotato nel quaderno rilegato e tessuto in pelle nelle notti prima degli esami come degli interventi sul tavolo operatorio alla facoltà di medicina dell’antica sapienza greca, qualcosa di incontestabile ed incontemplabile come il trascorrere del Tempo, morto e sepolto come un Impero con l’avvento del Cristianesimo e della Psicanalisi. Nella sua tanto amata Manhattan.

IV.
La strada è ancora lunga e la valle così profonda e porta quasi ad ogni miglio ad un’uscita stradale che a sua volta porta a campi coltivati e quindi a boschi selvaggi. Si attraversano anche distese abbandonate di granturco e caffè e si intravedono spuntare dalla natura incontrollata fattorie decadenti e vecchie abitazioni ed è meglio starsene lontani prima di essere aggrediti da animali di vario genere, cani rabbiosi ipso facto o rettili con mascelle e fauci e potenti succhi gastrici e forti dentature parti di un retaggio tipico di una lenta e molle palude. Si può anche chiamare il trascorrere delle ore della notte quando si ondeggia adagio verso il fondo limaccioso e altre parole potrebbero sprecarsi, parole minacciose, rimedio prima dell’assunzione di un veleno fatale dopo un lungo decorso. In nessun contesto in particolare, nessuna flessibilità della mente e nella membra, sopra le nostre teste un cielo di torazina dionisiaca e danzante.

V.
Delle Ultime Cose. Non si dice così in filosofia, in letteratura, in qualche religione od in un’altra qualsiasi disciplina contemplativa. Vedere il mondo che scivola lungo il percorso circolare dei miei occhi. Un cielo così invernale, limpido, solcato da screziature arancioni e dorature rosastre. In mente ho le panchine di Villa Borghese a Roma, del Central Park a Manhattan - NYC, USA, e dei giardini pubblici di Via Palestro, a Milano, o qualsiasi altro posto, ove si voglia. Cara Letteratura, torna. Vecchia Prudenza, vieni fuori di nuovo a giocare con me. Queste cose le ho dette al Dr. H.V.H. Le ho dovute memorizzare, dato che non riesco più a scrivere manualmente (sembra da anni) e dato che mi tengono legata, parte del Tempo. Un Orizzonte incastonato in un Destino Ineludibile. Mi ricordo le Scrittore. Cristo prese il pane e lo spezzò. Tutto per finire inchiodato su una croce e risorgere per l’intero mondo cattolico ed i suoi accoliti. La città di K. A volte immagino solo quanto sia duro il cosiddetto “mestiere di scrivere”. Parlo di quello vero, non di quello da classifica di quei quotidiani che devono bruciare la concorrenza editoriale e far rullare le rotatorie oliate fino ad uno stato nietzschiano d’incandescenza delle macchine e dei loro ingranaggi inchiostrati e stampatori. Penso a quanto deve essere difficile mettersi lì, da soli, davanti ad un taccuino, ad un foglio, ad pezzo di carta preso da qualche al parte, davanti al niente assoluto da cui a volte non si fa ritorno perché il mondo ti rigetta e non riconosce. Descrivere, parlare degli altri, notare ed introiettare tutto quanto attorno, ascoltare i discorsi delle persone attorno, intercettarne le inflessioni di toni ed analizzarne il loro vocabolario e la loro capacità d’espressione e valutarne la loro estrazione sociale, le loro esperienza di vita e il loro status culturale. Quanto può essere profonda e radicata una cultura e quanto può incidere il genio, il diverso, l’emarginato, l’escluso. Uno scrittore, per sua conformazione genetica e per un’inconscia volontà strisciante, alla fine, nelle ultime cose, a scrivere sempre lo stesso libro, racconta la stessa storia, cambiandola, capovolgendola, mettendoci mano, raffinandola, riducendo o dilatando, estremizzando o sdrammatizzando, a s seconda del momento, di quello che ha visto, quello che ha mangiato o bevuto, a seconda delle occasioni, per pura opportunità, semplici contingenze o situazioni inaspettate. Devo tenere nella testa tutte queste considerazioni, perché non mi danno carta e penna, neanche un mozzicone di matita ed uno straccio di foglio, quindi fingo di essere in una sala da ballo e mi muovo sfrenata, incontrollata, dionisiaca. Non sono Patricia, non mi chiamo Patricia. Sono Celia.

VI.
Sotto i pertugiai del cielo, le palpebre per la perturbazione scrosciante, che si abbatte sui muri della struttura e mette in serio pericolo la tenuta delle finestre. Hanno chiuso le persiane e so che hanno anche inchiodato dei pannelli di truciolato all’esterno. Siamo in una gabbia. Siamo in un bunker impenetrabile e la cosa mi diverte e mi eccita fino a toccarmi, in silenzio e con movimenti e mosse inavvertibili. Si mette male, santiddio, si mette male. Credo che la sera in cui il Cristo era raccolto nel Getsemani, il santo frantoio, ultimo passo da una vita terrena ad una sovraceleste acconto al trono di Dio e la presenza del fuoco purificatore dello Spirito Santo. Aquae et ignis. Mi hanno interdetto. E’ come se mi avessero tolto la cittadinanza nell’Antica Roma. Provo vergogna. Sudo. Attacchi di panico e scarsa stabilità motoria, equilibrio inesistente. Ecco gli stadi sul cammino delll’esistenza. Credo quia absurdum. Qui c’è poco in cui credere, altro che fidarsi dell’assurdo. Sono nata nella prigione della mia mente e sono incarcerata in un pozzo e quando sarò fuori da qui la luce sarà accecante, abbacinante precisamente. Portano i pasti ad orari precisi, ma non così puntuali. Il Dr. H.V.H. si vanta con il suo codazzo - un vero sciame appiccicoso, degli esami tenuti alla facoltà di medicina. Trasuda euforia ed orgoglio. Ma io me lo vedo come uno studente incerto, agitato, in preda ad uno stato di esaltazione mentre sciorinava ed ostentava il suo sapere e la sua maestria. Che Dio lo stramaledica. Lui e le sue terapie mi stanno uccidendo. E se ne va tra le corsie tronfio delle sue sperimentazioni da laboratorio sulle cavie che si chiamano pazienti. E su se stesso. Racconta aneddoti su come abbia assunto ogni tipo di sostanza chimica psicotropa. Grande sostenitore della causa dell’ LSD, un Timothy Leary nostrano. Acido Lisergico. Che lurido e sporco animale. Che prevaricatore dell’inconscio o subconscio che sia. Si professa Junghiano, ma non è uno Junghiano di ferro. La sua è una maschera per convincere i genitori a far internare i propri figli tra una partita di golf ed una di bridge, tra una scopata con puttane e transessuali e frequentazioni di gay club. L’ho visto. E poi fa il grande padre di famiglia, si atteggia a custode dei mores maiorum. PUUHHH. Come uomo mi fai schifo. Riprovevole, viscido e senza pudore. Si nasconde ma è un vizioso torturatore. Gli piace seviziare, sottomettere ed essere sottomesso contemporaneamente. Vuole dominare ma gli piace essere dominato. Vorrei uscire da qui, in un giorno distante e buio, e parlarne con un giornalista e denunciarlo per quello che mi ha fatto, mi sta facendo e mi farà. Ma con lui faccio la scena. Gli dico che mi sento meglio. Mi rimprovera la mia condotta sessuale del passato e l’assunzione di droghe ultrastimolanti. Così me ne sto buona. Se no lui aumenta i dosaggi delle pere che mi inietta ed io vado completamente fuori di testa.

VII.
Ho chiesto di poter leggere un libro. Antichi Maestri di Thomas Bernhard, ma mi è stato vietato. Ne abbiamo già parlato signorina Hansen - Kentner, il mio cognome è Kentner, Celia Kentner non Patricia Hansen, il nostro è solo un caso di omonimia, ne abbiamo già parlato Patricia, per il tuo bene certe letture non sono ammissibili, nello stato attuali dei fatti e soprattutto nel tuo stato psico-fisico. Minerebbe i piccolissimi, i quasi impercettibili, che io comunque colgo, che hai fatto negli ultimi sei mesi, e te lo dico non solo da tuo terapeuta curante, ma anche come tuo zio, il fratello di tuo padre. Siamo una famiglia. Porco. Porco schifoso. Prima di tutto tu non sei mio zio, il fratello di mio padre. Sei un misero impostore con tanto di camice bianco e con quell’obbrobrio di colonia che ti cospargi tutte le mattine sul collo, sulle guance e sui polsi. Poi sono solo cento ottantotto pagine. Figurati se chiedessi di leggere la Bachmann o la Kristof. Ti possiamo procurare delle riviste, che ne so, di moda, di abbigliamento, di gossip o dei quotidiani, diciamo, leggeri. Mi vuoi rifilare spazzatura, mi vuoi soggiogare drogandomi di puttanate di primissima qualità e livello. Che tu sia dannato, caro zietto. Ma arriverà il momento, eccome se arriverà. Arriverà quel giorno. Magari mi fingo addormentata e poi ti piazzo le mani intorno al collo fino a non farti più fiatare ed a farti ingoiare tutte le tue parole inutili ed offensive ed eliminare per sempre le tue teorie repressive, i tuoi principi incrollabili e ogni tuo più recondito pensiero. Sarai vittima della tua vittima. D’ora in poi sei la mia preda. Vedrai la mia capacità di manipolazione espressa nei modi e nei metodi più inusuali ed impensabili. Ti entro io nella testa. Sarà un veleno lento, che poi ti farà colare il sangue dalle narici ed assorbirà i succhi gastrici, corrodendoti gli organi, il cuore e la mente, polverizzando ogni cosa di te, così che la tua esistenza non verrà ricordata e se dovesse essere mai ricordata risulterà vana, fasulla ed inutile, oltreché dannosa. Mostro.

VIII.
Continua a cadermi dalle mani questo piccolo taccuino a righe azzurro. Le infermiere lo raccolgono, a volte sì a volte no, e lo infilano sotto il cuscino. Lo sfoglio al contrario, risalendo la corrente che arriva fin qui dall’Alaska. Mi sarebbe piaciuto chiamarmi Alaska. Un orso bianco e candido, inattaccabile. Una predatrice deliberata. Non lo capisco sempre, non ho piena coscienza del contenuto. Me l’ha lasciato un mio amico quando è venuto a trovarmi, quando ancora potevo ricevere visite ed avere contatti tattili e visivi con l’umanità che è sparsa, sconvolta e poco convinta fuori da qua. Guardo ipnotizzata o quando mi ipnotizzano la Luna Crescente. La vedo distintamente. L’uomo, gli Americani, dovrebbero tornarci entro il duemilaeventiinque, a metterci i piedi, saltellando ed installando strumentazioni per rilevazioni e studi scientifici per proiettarci verso un futuro più avanzato, oscuro ed impredicibile, non predicabile. Tute bianche e caschi con visiere bronzate per poter provare il brivido dell’Assenza di Gravità. Le persone si lamentano di tutto. Assenza. Non c’è proprio un bel niente che è assente, è solo diverso. Forse è sul pianeta terra che c’è qualcosa di diverso, qualcosa di realmente assente. Ed è in questi casi, per nulla residui, che si cade nel parlare di diverso, nella riprovevole tentazione di defilo diverso. Assenza di tutto, in tutte le sue declinazioni. E se la diversità fosse la presenza, la presenza di gravità. Una forza onnipresente, orribile, terrificante, che ci schiaccia tremendamente, affliggendoci. Ci tiene con i corpi incollati ed i piedi inchiodati al terreno.

IX.
Muoversi. Dal punto A al punto B. Come faccio a muovermi, a mettermi in moto, nelle mie condizioni, dato che passo la maggior parte del tempo, delle giornate, allettata e legata come se fossi un maiale in attesa di venire affumicato, od imbalsamato, od addirittura squartato come un quarto di manzo. Qui finisce che qua dentro ci muoio. il Dr. H.V.H. mi vuole morta, dalla pelle alle ossa. Mi vuole esporre appesa, aperta come nei macelli o nei quadri di Bacon. Allora. Da A a B. Per esserne certi e poterlo fare, in fin dei conti direi, per dimostrarlo, prenderemo innanzi tutto la misura della distanza da A a B. Il modus procedendi più facile e logico è quello geometrico. Diciamo quindi che la distanza tra A et B è sì una variabile, ma è una x che conosciamo. Sessanta metri lineari. Sessanta che dividono il mio letto dal mangione antipatico della porta d’uscita d’emergenza. Mettere le mani sull’alluminio freddo di quella pesante porta.Stabiliamo che il bordo laterale del mio letto sia A, lo identifichiamo come tale; la porta d’uscita la libertà, la immaginiamo come tale. A con uno, A con b, A con c, no. Riformulo. A con uno, A con due, A con tre ed A con quattro. Ecco ci siamo. Così va meglio, funziona. Ed A con quattro non è altro che il punto B: l’uscita, aria pura di un inverno gelido ed indifferente di un’umanità spaesata, ma ancora solida, pur avendo una fede vacillante generalizzato. La sommatoria di A con uno, più, A con due, più, A con tre, più, A con quattro è uguale a B. Solo così si raggiunge. Quindici metri, più quindici metri, più quindici metri, più quindici metri uguale sessanta, e siamo arrivati. Le somma delle parti dell’uno è uguale a B. Segmenti divisi in parti uguali portano d una soluzione certa ed inequivocabile: B, sessanta metri, fuori da qua. Per sempre, forse. A e B sono una vera e tangibile distanza, un’identità unica ben precisa. X= A1+A2+A3+A4=B. X uguale a sessanta metri lineari. Sessanta metri sono uguali alla libertà di esistere. Non ho la minima idea di come fare. Mi legano. Mi sorvegliano. Mi sedano, seviziandomi. Le parole si accalcano, accaldando il mio cervello, le connessioni neurali, l’intreccio delle sinapsi. Perdo la speranza, come se fosse un modo di essere. Dopo questi ragionamenti mi abbandono all’oblio chimico di quello che scende dalla sacca della flebo, rendendomi conto che non posso realizzare e volere. Non posso farcela, in qualsiasi modo alcuno. A più B uguale a X che è uguale alla fuori uscita da qui. Tutta questa dimostrazione, tutta questa operazione, rimane non valida ed inefficace, perché il sistema in cui gravita il mio corpo fisso, rigetta la mia ipotesi e la presenza stessa della mia ipotesi. Sono chiusa in questa struttura per la salute mentale che non ammette assenza di gravità. E’ proprio per questo che esistono posti come questo. Rinchiudere il diverso. Non posso percorrere la distanza dal punto A al punto B. Sono senza speranza. Sono Ypsilon. Sono la Sposa di Corinto. Per me niente da fare con percorrere la strada da Atena a Corinto. Sessanta metri. Sono solo sessanta metri.









































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