domenica, gennaio 24, 2016

10011








Prologo.

Tutti qua, in città, potrebbero ancora dirvi, dopo tutto quello che è successo, che era un tempo pieno di ragione e che ognuno faceva quello che doveva fare e che se ne stava al suo posto. Storie raccontate per gli stranieri, per la gente che passa o per fare stare tranquillo tutto l’establishment, e per establishment intendo le istituzioni, le famiglie che hanno in mano questo paese, la criminalità e tutto il resto. La città ha retto su questa intera faccenda per almeno quarant’anni, diciamo dai primi anni Settanta in poi. Tutto poteva e doveva andare avanti così, continuando. Non riesco ancora a delineare secondo una linea cronologica tutti i fatti. Sono stati, accaduti. Più che altro vedo una linea logica, come a dire tutto quello che luccica, come in quella pubblicità. Prima di essere licenziato, lavoravo coi treni e sui treni. E ne ho passata di vita sui treni. Mi dia ascolto. Mi stia ad ascoltare. Dica ai suoi colleghi, a quelli del giornale e a tutta la stampa, di stare lontano dalla stazione, dalla ferrovia e da tutto quello che ci gira attorno. I bambini fino a qualche anno fa giocavano per le strade con le madri che stavano a sorvegliare fino a che non fosse sera. Padri assenti, cosa vuole. Un'altra cosa di questa città: le strade non scendono mai, tranne quando vanno al fiume e muoiono lì, inghiottite dalla volgarità del fango, sprofondando nella sua brutale eternità. Ditelo a tutti. Le vostre finte inchieste, le indagini governative mosse ad arte per il solo piacere del procuratore di turno pieno di debiti e che deve fare carriera in questo Stato, la polizia che alza il tiro perquisendo, corpo a corpo. Siete tutti fuori strada. Non vorrei parlare del gallo che canta tre volte, ma di quello che si mette a cantare quattro, cinque volte e così per tutto il giorno e la notte. Sapete, vi ricordate cosa avevano scritto del sottoscritto, metà degli anni Ottanta: il cantore di questa città. I sentieri alberati, la ghiaia dei cimiteri, le strade lastricate d’oro per i casinò. Parliamo di quello che ha avuto la città: soldi, turismo, infrastrutture, grandi titoli per mostre d’arte ed un carico di droga difficilmente visibile da altre parti. Un tasso di natalità invidiabile, di certo. Aumento esponenziale delle morti di giovani per overdose, infarti, sangue al cervello, sparatorie. Inondazioni, allagamenti, uragani, elezioni politiche, eppure siamo andati avanti. Ogni anno le celebrazioni per fare soldi: san valentino, pasqua, il giorno dei lavoratori, natale e la vigilia di capodanno. Non un granché, mi direte. A proposito, se siete stati sulla collina, prima del promontorio, prima del parco, ditemi, ditemi allora. Non voglio parlare di prostituzione, spaccio, di vendita di armi illegali, di contrabbando dell’ultima ora. Avete visto questa città prima dell’alba. Brucia. Qui chiudiamo i conti tra le quattro e le cinque di notte. Riprendere a vivere, camminare, bruciare. E' solo una questione di rinascere ogni giorno e fare la propria vita. Parafrasando: un vecchio tempo, pieno di rischi. I titoli dei giornali, quello che vi stanno facendo credere. Potrò sembrarvi ripetitivo, ma questo vi servirà, tra qualche giorno, per schiarirvi le idee e per iniziare a capire questa città. Smettere di manipolare la realtà e raccontatela per quello che è. Vi costerà il posto di lavoro, lo stipendio, la famiglia e questo non ve lo auguro, la pelle. So di cosa di cosa sto parlando, precisamente: un salto nel buio della vostra arroganza, della vostra sicurezza di vita. Le vostre certezze svilite e derubate al largo della costa. Imperi conquistati e perduti, la ricerca del sacro. Le Lamentazioni dicono: come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo, divenuta vedova fra le nazioni, ora sottoposta a tributo. Non le rimane che piangere nella notte, amara. Nessun conforto, nessun amante. Tutti l’hanno tradita per la sozzura dei lembi della veste e non avrebbe mai pensato alla sua fine. E’ qui che siamo arrivati. A furia di parlare, confrontarci, di vivere in questo modo. Ma dimenticate l’angelo della morte, il mio tono post-apocalittico, i miei trucchi guardandovi in faccia. Parliamo del treno. Di quello di cui ci accusano e le menzogne su questa città. Potrei scomodare grandi nomi, ma non lo farò. Troppe situazioni viste. So tenere la bocca chiusa quando si parla del Sunset Limited. Un vecchio tempo pieno di rischi. Iniziamo da dove si prendono le mosse di solito - dal punto di partenza. E per essere chiari: questo treno non arriverà mai in Canada.

Corpus.

In origine si chiamava Sunset Express, 1894. Univa New Orleans a San Francisco, passando per Los Angeles, 2275 miglia. Poi dal 71 ha cambiato nome: Sunset Limited e non so quando abbia smesso di arrivare fino alla baia di Frisco. La prima cosa che ho sentito in quella carrozza sono state le parole di Dwayne, questo il suo nome, che saprò solo ore ed ore dopo. E’ libero? Posso sedermi? Davanti a lui un uomo di colore, un nero, con un berretto da marinaio e che poi mi diranno essere quello tipico dei frenatori di una volta. Non so come sia stato possibile, ma avevo davanti la scena della pièce di Cormac McCarthy: due uomini, un bianco e un nero sul Sunset Limited. Nella lunghezza di quel percorso, costretti a parlare, in una domenica mattina nella carrozza n. 10011. Vagoni su due piani, grandi involucri di lamiera argentata che strisciano ed ondeggiano sulla soglia del deserto del New Mexico, prima della colossale curva a ridosso del confine USA-Mexico. Un vecchio cartello dice: chi cerca una patria è benvenuto. Subito dopo, uno più recente: confine US-Mexico tra 15 miglia. Non passare. Gli illegali saranno perseguiti e condannati secondo la legge federale degli Stati Uniti d’America. Gli agenti sono autorizzati all’uso della forza. Il che significa pattuglie, elicotteri ed agenti equipaggiati con armi d’assalto. Pallottole vaganti nello sconfinato. Dwayne è un uomo di media altezza, magro, ricurvo in qualche parte del suo corpo a tal punto che definirlo dinoccolato sarebbe un’inesattezza; su di lui sono passati eventi che hanno procurato disfunzioni articolari croniche, vere frenesie, che comunque paiono essere governate da una non scritta legge organica. Conosco questi volti - vedo i suoi occhi rapsodici iniettati di sangue che pulsano ancora qua è là di un azzurro temprato, un blu polvere legato con i capelli, oramai radi e bianchi, come del resto lo è la barba, che porta malinconicamente in ricordo di qualche vecchia disgrazia. Di sicuro, posso dire, qui ed ora, qui sui miei due piedi, che è un uomo gentile, lo è nei modi e lo sarà nelle parole e lo sarà quando mi saluterà nel buio concio e gonfio della Union Station di Los Angeles Downtown, quando scenderemo alle 4.50 di mattina Costa Ovest, all’ombra degli aranceti arroccati miglia e miglia ad Est, creature arboree spinte nell'impensabile. Allunati, abbacinati, mormoranti dopo quindici ore di discorsi, confronti, di racconti, di verità paradossali, io, lui, Herman il nero, Tad l’editore anarchico e John il gestore giullare del bar della carrozza 10011. Ancora Dwayne. Originario del Midwest, lì per andare a trovare la figlia che vive a Santa Barbara, lì, in quello che lui distratto battezza uno degli ultimi viaggi aggiungendo che poi forse troverà un accordo con il sindacato e sceglierà la via del ritiro a vita nel deserto, nessun luogo in preciso, il deserto di un non meglio precisato Stato. Herman o come vuole essere chiamato - Quick Kid, è un tipico nero del Sud degli Stati Uniti. E’ stato un gran lavoratore, attraverso il Paese, attraverso e lungo le decadi che hanno formato e stravolto questa nazione nel secolo passato o addirittura dalla notte dei tempi. La schiena è possente ed ingrassata e sta a stento nella sua camicia jeans di quarto scarto. Ci son pieghe appena accennate, tutto il resto tira, dilatandosi giusto prima di un inevitabile strappo. Dio mi è testimone ed è stato sulla mia bocca in vicende alterne. Finalmente ho incontrato un civile che cita più di me la bibbia più e più di un prete cattolico o di un pastore protestante, più di quanto questi possano mai pensare di fare. Li chiamano protestanti. Avrei riserve consistenti su questo, ma passiamo oltre. Nato e vissuto per tredici anni ad Hope Hull, sobborgo di Montgomery, Alabama. Niente di meno che, signore & signori. Si lancia in frasi come noi tutti siamo figli di un unico padre eterno o che dio è con te ed osserva ogni minuto quello che fai e verrà a giudicare i bianchi per quello che hanno fatto alla sua famiglia. Il soprannome di Quick Kid deriva dalla sua abilità a sgozzare pollame, glielo aveva insegnato sua nonna (Momma Viola Lee). Non ha mai avuto una famiglia tranne quella della comunità dei neri sparsa tra Baltimora, Chicago, Detroit, Birmingham, molte altre città del Sud e San Francisco. Il suo collo rattrappito dal termine del collo dalla camicia da operaio è una medusa piena di sudore e su fino alla nuca disseminata di corti, ossuti, riccioli di capelli, che gli stanno incollati alla pelle, finché si sale all’inizio del berretto da frenatore illuminato da due malandate bacchette dorate di occhiali da vista che deve mettere per mettere un piede avanti all'altro. In questo momento i finestrini della carrozza 10011 sono macchiati da una scia nerastra. Un avvoltoio, uno stormo di avvoltoi o olio schizzato dai freni andati della locomotiva, petrolio che arriva da una trivellazione andata a buon fine. Ci avranno colto con le mani nel sangue. Separati da noi stessi. Camminiamo verso qualcosa programmato - le nostre vite, ma non ci arriveremo mai. Alzato male quel mattino. Un carico da 90 in testa. Aspettiamo, vediamo le cose passare. Da un treno, da una stazione, dal finestrino di una macchina che viaggia per la moglie e le miglia mancate. Almeno 1.780. Poi riandiamo a casa e ci ritiriamo tardi, di notte. La maggior parte delle volte abbiamo ragione, parliamo con le persone, ma non ci sarà mai nessuno disposto ad ascoltarti finché non accetteranno la verità sulla loro vita. Uomini o donne. Cenere. Gente che non è disposta a niente. Genere di essere umani. In questa intera storia devo dire qualcosa di vero, quando posso, quando me lo permettete. Vi guardo. Vi guardo uscire di casa & andare al lavoro, vi vedo fare le valige & salire sul sunset limited. Vi ho sempre visti, tutta la vita. Siete voi. Un paesaggio senza una parola concreta, comune, una comunità che non può aprire bocca.Sogni andati morti, illusioni di una vita nel crogiolo nel primo mattino. Carne pestata prima del mezzogiorno. Sangue prima dell’incubo di turno, io prima di loro, prima della chiusura. Uno snodo ferroviario nella luce di una notte d’ottobre. Scorie, ruggine, forse dell’uranio nel regno scriteriato della dissoluzione. Domani mattina torno da mia moglie e dalle nostre tre figlie. Ti scrivo il mio nome su un tovagliolo: Tad Kepley. Chiamami Tad, e il suo inseparabile berretto baseball slabbrato di un rosso sporco, la sua massa corporea inconfondibile, le bottigliette di Jim Beam di plastica che continuano ad uscire dalle tasche del giaccone cachi cerato da caccia - cosa dovrei pensarne se non mettermi a scrivere, la parlata che termina in una risata sporca, totemica, strappata sul finire, per essere ripresa in un’altra frase, strampalati racconti di vita da antagonista. Le nostre considerazioni hanno fatto scappare un ameno e pacioso professore di collage che si era unito alla nostra tavolata, un sedicente professore di storia  mentre un gruppetto di viaggiatori si stava accoccolando alle nostre spalle per buttare un occhio sulle mie stampe di Detroit, New Orleans & compagnia bella, come si diceva ai vecchi e buoni tempi. I ragionamenti sui sistemi economici possibili, le utopie crollate alle prime distorsioni dell'alba. Come ci si sente se non puoi tornare a casa (Elton John nel suo vinile d’epoca che esibisce, Madman across the Water). Tad che parla. Tad con la sue storie su WS Burroughs. Uno dei suoi più intimi amici, prima che morisse. Poi tutti, in un colpo, moriamo. Vienna, Berlino, Parigi, Roma, Milano, un sobborgo della Louisiana, West Monroe, Detroit, il Maine, Baltimore, Lisbona, il New Jersey, la nuova camicia appena macchiata, Genova, LA, Frisco, Baltimore, New Orleans: solo immagini che ci trasciniamo. Chi siamo per l’inevitabile serata di chiusura. Un’altra serata alla TV con tutto il silenzio, e tutto quello che questo comporta. Scommesse con Tad sulle partite, prime di scendere dal Sunset Limited. Non abbiamo amici in città & dobbiamo andare veloci prima di una sistemazione stabile. John al suo John’s Bar. Qua è John che vi parla dal posto cacciato quaggiù. John, tutto sommato, è un uomo vile, un uomo di nessun conto. Vede il mondo dal suo buco infossato e sostanzialmente si limita a quello. Non arriva neanche ad essere Hamn di Finale di Partita. Vive la sua vita sul fondo del bidone e cerca di farne un lavoro. Una vera low life come dicono qui. Grandi sentimenti sprecati oltrepassando i confini degli Stati. Un buffone senza spina dorsale, un giullare senza né arte né parte, ora che la gente vuole spendere di meno per i funerali. Posso continuare coi luoghi comuni: sei vile John, Joe o come ti fai chiamare a fine turno. Le tue barzellette sulla radio del treno fanno pena. Non c’è niente a questo mondo per te Joe, e questo te lo sei meritato. Starai qui a vita, con il tuo inutile lavoro, attraversando le paludi, i deserti, le montagne e le false facce che ti trovi davanti, settimana dopo settimana ed anno dopo anno, anche se non saresti minimamente degno di essere proiettato negli anni. Due Matrimoni. Ti sei voluto fare la donna più giovane. Il matrimonio con piscina e lo stipendio pagato dalla linea ferroviaria. Ti ho detto che sei un miracolato John-Hamn, nessuno può capire perché tu possa guadagnare uno stipendio facendo la parte dell’uomo inutile di tutto questo racconto. Tu sei solo John che parli dal John’s Bar, quello del piano di sotto. Scadenti cheeseburgers che alle 8.00 di mattina non fanno passare la sbornia, caffè lunghi e morenti in una toilette libera, sandwich al tacchino che possono uccidere il palato di un bambino obeso della Georgia. Vuoi che prosegua John, o Joe, John del John’s Bar. A San Antonio, Texas, sei stato preso di peso e hai chiesto indulgenza. A dicembre torno a prenderti, sappilo: gli uomini inutili servono sempre.
Il Caos che divampa. Non avevo mai respirato un’aria con grasso di motore che frigge, l’acciaio dilatato dei binari, sangue bruciato, carne ammalorata, ossa frantumate, schegge di cortecce cerebrali, fumo denso di insetti onnivori, micro brandelli di pelle fluttuanti saturano l’ambiente nero come nei classici racconti epici, le carte affumicate dei manifesti pubblicitari incollate sui pavimenti, sulle pareti, i soffitti, le scale, e luci, tutta la parte colpita della stazione in uno stato tumescente. Sirene che girano senza sosta, rumori di barelle inceppate, sacchi mortuari che vengono aperti e chiusi, lamenti di corpi feriti, di cervelli che hanno abbandonato questo mondo, luminescenze incorporee che vagano verso i pali dell’elettricità, che schizzano nella crisi irrisolta di questa mattina, vite dei santi liofilizzate in ossari mai esistiti, inizia dall’inizio e vai fino ad una fine, quindi fermati. Le case e le paure delle persone abituate a vivere con poco, così calme alle due del pomeriggio di una domenica d’inverno, gennaio. Il tuo compleanno può anche passare come la tua passione per la bibliotecaria o chi ti ha allestito la mostra o chi ti serve il tuo rancio alle 2.45. Appena si esce dai nostri posti, scantinati, appartamenti, luoghi buii al neon di qualche ente parastatale, parchi pubblici gestiti da multinazionali di farmaci o petrolio o autovetture o, appena ci rimettiamo tutti in fila davanti al fiume, ai binari che attraversano il Paese, dicendoci che questo non è un posto facile, gli incendi, le esplosioni, le stazioni, le caserme, le scuole, gli stadi, i teatri, i cinema, le strade che non danno mai abbastanza, poi puoi pure pensare che hai passato troppo tempo su quello o quell’altro libro, senza orari, i nomi che mitizzavano la tua esistenza, fino ad un’azione di soccorso, fino a che la tua dignità uscisse dall’orbita di questo mondo per non rientrare per anni prima di mettersi ancora all’uso e al servizio della vita comune, prima che ogni pagina vista ti desse il via libera per un’altra esistenza celebrata sotto un altro alfabeto, dai greci si passò ai romani ed ora siamo tornati nei tempi moderni fino al punto che questa modernità di cui ci siamo riempiti il cervello, il sistema nervoso, l’apparato digerente e ancor prima la spina dorsale non ci dica altro chi siamo, noi che parliamo attraverso i nostri trascorsi non credibili agli occhi degli altri. Kerouac che pensava di essere Wolfe & Beckett Joyce o Artaud Van Gogh. Siamo noi tormentati nella nostra gioventù, da questi uomini che ci hanno preso quando in casa e durante il giorno non c’era niente da fare che mettersi a leggere, perché avevi perso tuo padre o tuo nonno e quando per il gusto della vita ti piaceva andare a scuola solo per vedere la ragazza coi i capelli biondi tinti e non sapevi niente della mezzanotte e non sapevi niente di quello che sarebbe stato dopo vent’anni dall’altra parte del mondo. La volta che ti chiesero di scrivere un romanzo di formazione. Sei andato un po’ oltre. Ma il mondo non è altro che questo. Prima dell’esplosione, ho pensato alle lettere che componevano il nome I.A. Brodskij. Non so perché lui. Stavo banchettando con una coppia di Orange County, con una figlia. Ho visto la sua firma su un sole cadente del Texas, prima di un fronte di una banca commerciale. 

Epilogo

Registrazioni perse, il click-click dei nastri bloccati delle microcassette MC-60, lato A, lato B, raccontano di storie fallite con l’approssimarsi di quello che fu l’avvento del nuovo millennio, un'epoca pronta per l’onta di un nuovo sole, freddo, basso, tecnologico, sorto per programmare i cuori e le menti dell’Occidente. Oramai l'inverno del nostro scontento non diventerà mai più un sole bruciante, rimane solo un altoparlante che da qualche parte della stazione annuncia in termini sommessi l’arrivo in anticipo di un treno proveniente dall’altra parte del Paese - binario 011 B. Le rotative di stampa hanno già compiuto il loro dovere macinando tonnellate di carta con impressi caratteri neri che compongono titoli sensazionalistici di giornali dalle scarse tirature che finiranno prima di mezzogiorno tra le mani di commessi viaggiatori in abiti sciatti e sformati o su un bancone di un salone di bellezza frequentato da casalinghe che optano per le ultime mode da grido nel campo della coiffure e manicure. Tra qualche minuto la prigione di massima sicurezza concederà l’ora d’aria ai propri ospiti e qualcuno in questo Stato sarà libero di dedicarsi alla vendetta mentre consigli di amministrazione di multinazionali collegati in videoconferenza fissano il prezzo delle materie prime per i prossimi quaranta anni e tecno-burocrati impiallacciati emettono comunicati per tranquillizzare i mercati e legislatori dal volto gonfio approvano l’ennesimo emendamento alla legge finanziaria e autisti in divisa estraggono dal vano del cruscotto della limousine una fiaschetta colma di Bulleit Bourbon. A migliaia di chilometri da qua, armamenti nucleari riposano lungo un sonno viziato in bunker di località disumanizzate. In giro la gente discute ancora di genitorialità in vitro, di uteri in affitto, di adozioni trasversali, di confessioni religiose che nascono e muoiono nell’arco di una dissennata esistenza quotidiana. Infine, il progresso, ideato, governato e vissuto sull’intero pianeta nel segno di una parola globale: Desiderio. Qualcuno doveva pur sapere cosa trasportavano, carrozza 0013, sedile 8, certo. Ma non potete incolpare questa città, me, i passeggeri del Sunset Limited di quello che è successo. Nei Salmi è scritto: nella colpa sono stato generato, nel peccato mia madre mi ha concepito. E viene anche detto contro i giudici iniqui: spezzagli, o Dio, i denti della bocca, rompi, o Signore, le mascelle dei leoni. Di sicuro i controlli alla stazione di partenza hanno fallito. Pensare che quella bomba sia stata sotto quel sedile per oltre 48 ore, lì come un destino che doveva attenderci. Il treno è arrivato con 30 minuti di anticipo. La bomba è esplosa mentre il treno era oramai vuoto. Erano rimasti gli addetti al servizio di pulizia, qualche viaggiatore in attesa e di sicuro dei senzatetto che vagavano o che si riparavano nel sonno di una delle loro notti. Il canto libero del bardo ha cessato per qualche ora. Le vittime sarebbero state molte di più. Alle 5.00 ero ancora nei sottopassi a scattare. Sentire il boato di una deflagrazione in una stazione non è come sentirlo in una registrazione audio o alla televisione. Allo spostamento d’aria è seguita una bolla di fuoco e poi si sono mescolate insieme, facendomi balzare di una decina di metri. Lo zaino che avevo sulle spalle si è disintegrato, salvandomi. Mi sono risvegliato qualche minuto dopo. Almeno così pensavo. Erano passate oltre 4 ore. Sono morte 112 persone. Se fosse stato in orario, la bomba avrebbe potuto fare 1112 vittime. Mi sono alzato, un paramedico voleva soccorrermi. Me ne sono andato ed ho seguito le notizie alla televisione. Per diverso tempo sono stato incline a cose a cui non credo da almeno una decina anni. potrei ripetere le stesso. cose già viste, dette, stradette, i vostri piccoli segreti al termine della notte. Sai io a quel tempo fumavo, bevevo, mi facevo, avevo una donna, avevo una famiglia. ve ne siete accorti. Dolcezza, è solo un altro pomeriggio. non ce la fai a stare in piedi. Non ci sono patti da rispettare, le piccole regole sulla vita comune, le stupide ideologie del mattino dei perdenti, non c’è niente di tutto questo. Forse una supernova. Visto per decenni. Tu piccola donna attempata, pensi di andare avanti così per molto. Tu, uomo solitario con la verità in tasca, continuerai ad andare in giro con il libro delle verità e le tue parole in tasca e cercare di essere il re del mondo. si finisce in un giorno. Un sadico direbbe: si finisce, iniziando. Cose tutte vere. Oppure: fallendo si riesce. Cliché. Ci capita sempre di scivolare. Poi, di fatto ci rialziamo. Sopra di me, aveva capelli a 3/4, una frangia di capelli di un nero denso. Temi ricorrenti. Predatori che nuotano ed uccidono in pieno oceano, sotto la linea dell’abisso intercontinentale. Mia moglie mi diceva: non vedo l’ora che venga la primavera, con i suoi colori, i suoi profumi, la luce del sole alle sei del mattino, tutti freschi per una nuova giornata. Durante il mio secondo matrimonio, quando il lago sgelava, portavamo le bambine sulla riva. La cosa che mi rimane di quei viaggi è quando guardavo le bambine nello specchietto retrovisore interno. Tre facce splendide, superiori. Una notte dei primi anni Sessanta, eravamo in cucina, io e mio padre. Lui mi ha alzato e mi ha messo sul piano di granito della cucina. Guardami negli occhi, mi ha detto. ci stavamo fissando. La questione era: o te o me. Che tipo di uomo vuoi essere nella vita. E tu che tipo di uomo sei stato, tu, papà. Poi il telefono suonò e lui dovette tornare al lavoro. Mia madre se ne era andata da tanto, tanto tempo. La vita tra uomini, tra due maschi adulti, è bestiale. Si pestano giorno dopo giorno, per anni. Prima o poi uno dei due mollerà. La cosa di cui accusano la mia città. non posso permetterlo. La gente che vive felice, le nuove generazioni, la prole dei gestori del paradiso. Serie tv a profusione, le avete viste. alcool a profusione, droga da mezzanotte in poi, i contatti giusti, donne che vogliono superare il limite. Affari, gente disposta a tutto. Abbiamo finito? Bene, posso tornarmene a casa.







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