domenica, gennaio 12, 2014

La scuola dei ritagli




Si svegliava alle quattro ogni mattina, i tram sarebbero girati per le strade solo due ore dopo.
Si riteneva una vittima della televisione e di altri mezzi di comunicazione e di informazione nelle molteplici forme ed usi che il mondo moderno offriva.
Davanti ai suoi occhi erano passati innumerevoli fatti accaduti nel mondo lungo un trentennio.
Riteneva che quei fatti potessero in buona parte ricondursi alla dimensione drammatica; riteneva, con una certa risolutezza mentale, che quei fatti si dividessero in due ambiti sostanziali e temporali: prima e dopo l’undici settembre duemila e uno (11/09/2001).
Ante e post, sempre quella data.
Era uno di quegli eventi - 7 novembre 1917, 1° settembre 1939, 22 novembre 1963, che più che da il contenuto dell’evento stesso, sono rappresentati nella nostra psiche dall’atto dell’enunciazione di quella data, dello scandire quelle parole che la compongono, dal parlare di quella data.
Laureata in storia moderna e contemporanea era costantemente con la testa dentro a quella che le piaceva chiamare la Grande Storia, locuzione a cui faceva sempre seguire l’idea della Forza della Grande Storia, che era quella cosa che poteva gettare un’ombra inesorabile sul presente e quindi sul futuro.
Questa suggestiva visione proveniva da una sua ferma convinzione filosofica e storica, concettuale e di sistema: il corso della storia è ciclico, il suo incedere non è un moto rettilineo che parte da un ipotetico e sconosciuto punto A e che procede all’infinto verso una fine (punto B), se si può, ancora più oscura. No, no, no.
Pur dovendo ammettere che la Storia fosse partita da qualche parte, che avesse avuto un inizio - questo era una concessione nel suo ragionamento, una lacuna speculativa che lei mascherava con l’elaborato nome di postulato appercettivo - essa poi si era sviluppata lungo una grande curva, curva dalle proporzioni enormi, non riproducibile graficamente, che sarebbe poi tornata più e più volte sopra il suo punto di partenza, cambiando nella sua forza, nel suo dinamismo, modificando così il corso della storia, corso inteso come unità di eventi.
Faceva di continuo questi ragionamenti mentre si trovava a battere i testi della scuola di scrittura creativa o mentre, e lì le venivano ancora meglio, era a spasso e quando qualcuno le chiedeva che cosa avesse fatto in quel pomeriggio della domenica, o del lunedì o del martedì, lei rispondeva: “ero a spasso!” o alternava con un “sono andata a spasso!” e questa alternanza delle risposte, ben conscia della differenza di senso tra le due, la divertiva.
Dopo la laurea era rimasta a spasso per due anni.
Poi un giorno trovò un lavoro part-time, sottopagato ed irregolare in una scuola di scrittura creativa.
Convinta che fossero luoghi di cultura, luoghi di confronto, di apertura mentale, si dovette ben presto ricredere perché era solo un luogo di lavoro come un altro, ed anziché commerciare in bottoni o scarpe, lì si vendevano parole. Un po’ di parole, un po’ di soldi.
Il suo lavoro era costituito unicamente dalla battitura e dalla stampa dei testi delle lezioni.
Ogni tanto prestava attenzione a quello che stava battendo: migliaia di parole senza senso, sprecate, inutili, vuote, parole scritte male.
E si sentiva in colpa, perché le sembrava che stesse partecipando a qualcosa di fatto male, di poco chiaro. Poco dopo, dopo aver preso in considerazione che la loro scuola, in quel settore, era una delle più economiche della città, si risollevava e riprendeva uno dei suoi ragionamenti sulla storia.
Ebbe una storiella con uno dei docenti della scuola: era un uomo possente, dal fare esagitato, dalle idee sconsiderate e squinternate e che dava l’impressione di credersi il nuovo Bukowski o giù di lì.
Abusava degli alunni in classe, psicologicamente.
Si presentava in aula con la stessa camicia per almeno dieci giorni e la stessa giacca per un mese - per non parlare dei pantaloni che gli duravano addosso intere stagioni, anche quando le stagioni cambiavano.
Organizzava delle lezioni dal contenuto indecifrabile, incapibile.
Lei gli avrebbe detto più tardi, inintellegibile.
Una lezione, a cui lei aveva assistito in qualità di uditrice speciale autorizzata espressamente dalla direzione della scuola, iniziò con lo spegnimento delle luci ed un forte rumore di esplosione. Seguì un crescente odore di bruciato, di plastica bruciata. Una parete prese fuoco e poi entrò di corsa lui, il docente, con un estintore e iniziò a spruzzarne il contenuto qua e là. Alcune alunne si erano messe a gridare.
Riaccese la luce.
Urlò in un megafono: benvenuti alla prima lezione del mio corso! benvenuti, signori e signore, a cut-up e altre tecniche letterarie! Il corso madre di questa scuola! Uscirete di qui oggi e butterete subito giù un racconto breve, ve lo assicuro!
Alcuni alunni risero, entusiasti, altri perché avevano capiti che erano finalmente capitati nel posto giusto al momento giusto.
Il docente di cut-up e altre tecniche letterarie, di fatto, era un ex-scrittore. Non scriveva da quasi dieci anni e non pubblicava da quindici.
Aveva pubblicato un solo libro, un romanzo breve o racconto lungo che lo si chiami.
Voleva essere uno scrittore prolifico, uno scrittore a tempo pieno, e vivere di libri, tra i libri e coi libri.
Si accorse ben presto che tutto questo era solo nella sua testa e non fuori e non nella realtà, quando le vendite del suo libro di esordio si fermarono a 379 copie. Sapeva che il suo libro non sarebbe mai andato più in ristampa e che nel giro di uno o due mesi sarebbe scomparso delle librerie.
Se la prese con i titolari delle librerie. Li chiamava gli impostori delle librerie.
Forse lo erano anche, anzi ammettiamo che lo fossero: ma era lui che non ce l’aveva fatta, era lui che a soli vent’otto anni non riusciva più a scrivere mezza pagina che non fosse la riscrittura smorta del suo primo libro, “La svolta dietro l’angolo”.
Era lui che si prostrava in stati di ubriachezza totale per tentare di scrivere cose nuove, autentiche, genuine; le rileggeva il giorno dopo e sapeva che quelle erano solo parole che scimmiottavano qualche suo autore di riferimento.
Non aveva neanche letto più di tanto, nella sua vita.
Qualche racconto di Bukowski, qualcosa di Carver, un po’ di Burroughs e spezzoni dei grandi classici.
C’erano milioni di libri in giro per il mondo, ma tra quelli neanche uno portava il suo nome in coopertina. Cristo.
Senza un soldo, con una salute compromessa, gli venne un’idea.
Mettere su una scuola di scrittura creativa e sfruttarne i potenziali.
I potenziali erano costituiti dal danaro degli alunni. Gli alunni erano potenziali scrittori.
Ottenne un piccolo finanziamento con un tasso del diciotto per cento, intanto li avrebbe restituiti in fretta. La retta per accedere alla Cut-up School era altissima.
Con la cifra richiesta, migliaia di euro, voleva far passare l’idea che era una scuola seria.
Iniziò a buttar giù una bozza del manifesto, lo statuto, organigramma, programmi, materiali.
Era tornato a scrivere. E bene. Forse il suo futuro non era quello di fare lo scrittore in senso letterario, ma in senso meta-letterario. Io sono, oramai, si diceva, al di là della scrittura. Io scrivo sulla scrittura. Io insegno la scrittura. A chi? A voi, voi che pagate.
In breve tempo, personaggi più o meno nella sua stessa condizione si unirono a lui e costituirono il corpo docente.
Gli alunni arrivavano. La rata andava pagata integralmente, in un’unica soluzione, trenta giorni prima dell’inizio dei corsi.
Alla fine di quella prima lezione a cui lei aveva assistito e che l’aveva fatta desiderare quell' uomo così stravagante, venne lanciato un messaggio dagli altoparlanti: ricordatevi che nessuno può o potrà mai insegnarvi a scrivere.
In aula, nessuno rideva più.








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