Si
svegliava alle quattro ogni mattina, i tram sarebbero girati per le strade solo
due ore dopo.
Si
riteneva una vittima della televisione e di altri mezzi di comunicazione e di
informazione nelle molteplici forme ed usi che il mondo moderno offriva.
Davanti
ai suoi occhi erano passati innumerevoli fatti accaduti nel mondo lungo un
trentennio.
Riteneva
che quei fatti potessero in buona parte ricondursi alla dimensione drammatica;
riteneva, con una certa risolutezza mentale, che quei fatti si dividessero in
due ambiti sostanziali e temporali: prima e dopo l’undici settembre duemila e uno
(11/09/2001).
Ante
e post, sempre quella data.
Era
uno di quegli eventi - 7 novembre 1917, 1° settembre 1939, 22 novembre 1963,
che più che da il contenuto dell’evento stesso, sono rappresentati nella nostra
psiche dall’atto dell’enunciazione di quella data, dello scandire quelle parole
che la compongono, dal parlare di quella data.
Laureata
in storia moderna e contemporanea era costantemente con la testa dentro a
quella che le piaceva chiamare la Grande Storia, locuzione a cui faceva sempre seguire
l’idea della Forza della Grande Storia, che era quella cosa che poteva gettare
un’ombra inesorabile sul presente e quindi sul futuro.
Questa
suggestiva visione proveniva da una sua ferma convinzione filosofica e storica,
concettuale e di sistema: il corso della storia è ciclico, il suo incedere non
è un moto rettilineo che parte da un ipotetico e sconosciuto punto A e che
procede all’infinto verso una fine (punto B), se si può, ancora più oscura. No,
no, no.
Pur
dovendo ammettere che la Storia fosse partita da qualche parte, che avesse
avuto un inizio - questo era una concessione nel suo ragionamento, una lacuna speculativa
che lei mascherava con l’elaborato nome di postulato appercettivo - essa poi si
era sviluppata lungo una grande curva, curva dalle proporzioni enormi, non
riproducibile graficamente, che sarebbe poi tornata più e più volte sopra il
suo punto di partenza, cambiando nella sua forza, nel suo dinamismo,
modificando così il corso della storia, corso inteso come unità di eventi.
Faceva
di continuo questi ragionamenti mentre si trovava a battere i testi della
scuola di scrittura creativa o mentre, e lì le venivano ancora meglio, era a
spasso e quando qualcuno le chiedeva che cosa avesse fatto in quel pomeriggio
della domenica, o del lunedì o del martedì, lei rispondeva: “ero a spasso!” o
alternava con un “sono andata a spasso!” e questa alternanza delle risposte,
ben conscia della differenza di senso tra le due, la divertiva.
Dopo
la laurea era rimasta a spasso per due anni.
Poi
un giorno trovò un lavoro part-time, sottopagato ed irregolare in una scuola di
scrittura creativa.
Convinta
che fossero luoghi di cultura, luoghi di confronto, di apertura mentale, si
dovette ben presto ricredere perché era solo un luogo di lavoro come un altro,
ed anziché commerciare in bottoni o scarpe, lì si vendevano parole. Un po’ di
parole, un po’ di soldi.
Il
suo lavoro era costituito unicamente dalla battitura e dalla stampa dei testi
delle lezioni.
Ogni
tanto prestava attenzione a quello che stava battendo: migliaia di parole senza
senso, sprecate, inutili, vuote, parole scritte male.
E
si sentiva in colpa, perché le sembrava che stesse partecipando a qualcosa di
fatto male, di poco chiaro. Poco dopo, dopo aver preso in considerazione che la
loro scuola, in quel settore, era una delle più economiche della città, si
risollevava e riprendeva uno dei suoi ragionamenti sulla storia.
Ebbe
una storiella con uno dei docenti della scuola: era un uomo possente, dal fare
esagitato, dalle idee sconsiderate e squinternate e che dava l’impressione di
credersi il nuovo Bukowski o giù di lì.
Abusava
degli alunni in classe, psicologicamente.
Si
presentava in aula con la stessa camicia per almeno dieci giorni e la stessa
giacca per un mese - per non parlare dei pantaloni che gli duravano addosso
intere stagioni, anche quando le stagioni cambiavano.
Organizzava
delle lezioni dal contenuto indecifrabile, incapibile.
Lei
gli avrebbe detto più tardi, inintellegibile.
Una
lezione, a cui lei aveva assistito in qualità di uditrice speciale autorizzata
espressamente dalla direzione della scuola, iniziò con lo spegnimento delle
luci ed un forte rumore di esplosione. Seguì un crescente odore di bruciato, di
plastica bruciata. Una parete prese fuoco e poi entrò di corsa lui, il docente,
con un estintore e iniziò a spruzzarne il contenuto qua e là. Alcune alunne si
erano messe a gridare.
Riaccese
la luce.
Urlò
in un megafono: benvenuti alla prima lezione del mio corso! benvenuti, signori
e signore, a cut-up e altre tecniche letterarie! Il corso madre di questa
scuola! Uscirete di qui oggi e butterete subito giù un racconto breve, ve lo
assicuro!
Alcuni
alunni risero, entusiasti, altri perché avevano capiti che erano finalmente
capitati nel posto giusto al momento giusto.
Il
docente di cut-up e altre tecniche letterarie, di fatto, era un ex-scrittore. Non
scriveva da quasi dieci anni e non pubblicava da quindici.
Aveva
pubblicato un solo libro, un romanzo breve o racconto lungo che lo si chiami.
Voleva
essere uno scrittore prolifico, uno scrittore a tempo pieno, e vivere di libri,
tra i libri e coi libri.
Si
accorse ben presto che tutto questo era solo nella sua testa e non fuori e non
nella realtà, quando le vendite del suo libro di esordio si fermarono a 379
copie. Sapeva che il suo libro non sarebbe mai andato più in ristampa e che nel
giro di uno o due mesi sarebbe scomparso delle librerie.
Se
la prese con i titolari delle librerie. Li chiamava gli impostori delle
librerie.
Forse
lo erano anche, anzi ammettiamo che lo fossero: ma era lui che non ce l’aveva
fatta, era lui che a soli vent’otto anni non riusciva più a scrivere mezza
pagina che non fosse la riscrittura smorta del suo primo libro, “La svolta
dietro l’angolo”.
Era
lui che si prostrava in stati di ubriachezza totale per tentare di scrivere
cose nuove, autentiche, genuine; le rileggeva il giorno dopo e sapeva che
quelle erano solo parole che scimmiottavano qualche suo autore di riferimento.
Non
aveva neanche letto più di tanto, nella sua vita.
Qualche
racconto di Bukowski, qualcosa di Carver, un po’ di Burroughs e spezzoni dei
grandi classici.
C’erano
milioni di libri in giro per il mondo, ma tra quelli neanche uno portava il suo
nome in coopertina. Cristo.
Senza
un soldo, con una salute compromessa, gli venne un’idea.
Mettere
su una scuola di scrittura creativa e sfruttarne i potenziali.
I
potenziali erano costituiti dal danaro degli alunni. Gli alunni erano
potenziali scrittori.
Ottenne
un piccolo finanziamento con un tasso del diciotto per cento, intanto li
avrebbe restituiti in fretta. La retta per accedere alla Cut-up School era
altissima.
Con
la cifra richiesta, migliaia di euro, voleva far passare l’idea che era una
scuola seria.
Iniziò
a buttar giù una bozza del manifesto, lo statuto, organigramma, programmi,
materiali.
Era
tornato a scrivere. E bene. Forse il suo futuro non era quello di fare lo
scrittore in senso letterario, ma in senso meta-letterario. Io sono, oramai, si
diceva, al di là della scrittura. Io scrivo sulla scrittura. Io insegno la
scrittura. A chi? A voi, voi che pagate.
In
breve tempo, personaggi più o meno nella sua stessa condizione si unirono a lui
e costituirono il corpo docente.
Gli
alunni arrivavano. La rata andava pagata integralmente, in un’unica soluzione,
trenta giorni prima dell’inizio dei corsi.
Alla
fine di quella prima lezione a cui lei aveva assistito e che l’aveva fatta
desiderare quell' uomo così stravagante, venne lanciato un messaggio dagli
altoparlanti: ricordatevi che nessuno può o potrà mai insegnarvi a scrivere.
In
aula, nessuno rideva più.
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