domenica, marzo 11, 2012

Rosario de Matera, Parte I


L’epidemia di colera scoppiò quando ero ancora iscritto al primo anno della Facoltà di Antropologia e la guerra non si era fatta ancora vedere dalle nostre parti ed i morti a causa dei bombardamenti a tappeto sui civili inermi erano solo racconti di gente che veniva dalla capitale o da altre città duramente messe alla prova dal pugno fascista del generale Mendoza e delle forze invasori; tutti noi sapevamo che sarebbe stata una questione di giorni, settimane, al massimo, un paio di mesi.
Dalla torre di intonaco rosa del Municipio, sede del Partito, la Bandiera Rossa della Rivoluzione sventolava e tra le strade ci si dava del tu ed ogni persona si rivolgeva ad un’altra con il semplice e diretto epiteto di “compagno” e allora sentivi dire compagno operaio, compagno soldato, compagno studente, compagna infermiera, compagno professore, compagno musicista e così via.
Un mio vanto, e non solo mio, era quello di abitare in una città dove, nonostante la Rivoluzione avvenuta qualche anno prima, si fosse mantenuta un’Università sostanzialmente libera ed indipendente che tra i suoi gioielli aveva di sicuro l’Orchestra Sinfonica diretta dal compagno Daniel de Castilla.
Fanatico della Critica della Ragion Pura che non terminava mai di citare nelle più svariate occasioni pubbliche, era un uomo imponente, dall’aria tetra ed autoritaria che si rifletteva nella sua barba gonfia e cadente; quando dirigeva, i suoi movimenti erano statuari, diretti e gli astanti erano raccolti e fermi come in una laica preghiera di pubblica partecipazione.
Parlo di lui poiché egli fu tra le prime vittime illustri del colera.
Le cause del suo contagio credo che fossero da rinvenire in certe sue frequentazioni a cui si abbandonava dopo la fine di ogni concerto, che fosse stato quanto meno, trionfale.
Sceso dal palco, dopo aver raccolto scrosci di applausi, strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci fraterni ed interminabili congratulazioni, chiamava un compagno autista che subito lo raggiungeva con una vettura del Partito sul retro dell’Auditorium Unidad, dove De Castilla a stento sbucava attraverso una porticina di servizio.
Eccitato da qualche bicchierino di liquore bevuto in camerino, chiedeva di essere portato a Rosario de Matera, uno dei sobborghi più malfamati dell’intera città, dove i dettami della Rivoluzione erano penetrati solo parzialmente e ciò si sostanziava in una situazione, si potrebbe dire, di zona franca.
La prostituzione non avveniva più nelle case di tolleranza abolite da un’Ordinanza del Partito, ma in appartamenti privati  e ciò con la tacita approvazione dei funzionari del Partito stesso, di cui De Castilla era di sicuro uomo di spicco.
Quell’uomo che aveva diviso la sua vita tra musica e filosofia, entrambe coltivate ad altissimi livelli, trovò, il 14 ottobre 1947, in uno di quei luoghi del piacere, una morte bruciante.
Aveva diretto orchestre di mezzo mondo - Parigi, Vienna, Berlino, Londra, Milano, New York, Chicago, Mosca ed altre ancora - andando in Paesi Capitalisti ed Imperialisti che disprezzava apertamente per la loro politica e la loro struttura economica, ma di cui ammirava la tradizione musicale e culturale.
Chiedeva cachèt altissimi, spesso li otteneva a scapito di qualche suo collega ben titolato e al suo rientro nella Repubblica versava quasi integralmente il suo compenso nelle Casse del Partito, che poteva provvedere così ai bisogni impellenti dello Stato Rivoluzionario.
Aveva solennemente dichiarato che l’Europa caduta sotto il giogo del fascismo e del nazionalsocialismo era il più grande dolore e l'ineguagliabile disgrazia della sua vita; non poter più dirigere le orchestre nelle terre dei suoi compositori e dei suoi filosofi come Bach, Mozart, Beethoven, Brahms, Kant, Hegel, Rossini, Verdi,  lo tormentava, lo “dilaniava spiritualmente”, sue testuali parole.
In Italia o in Germania o in qualche altro territorio occupato dalla Forze dell’Asse, forse non l’avrebbero neanche fatto entrare e se caso mai fosse entrato clandestinamente attraverso l’aiuto di qualche compagno partigiano, al primo posto di blocco l’avrebbero fermato, catturato e fucilato all’istante.
Ben note erano le sue interviste rilasciate al Times, a Le Monde, al New York Times, in cui egli aveva reso ancor più forte e netta la sua immagine di Internazionalista Rivoluzionario, in cui spronava le popolazioni e le classi operaie di quegli Stati, dove solo poche ore prima aveva diretto un’orchestra ed incassato fior di quattrini, a sollevarsi ed ad unirsi in un Fronte Internazionale di Rivoluzione Permanente.

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