domenica, febbraio 17, 2013

Sandra Poulange









Ho scritto poche parole nel telegramma di cordoglio per la famiglia Poulange.
Poche parole, spero significative, anche se sono un po’ false.
Quando la gente muore tutti si apprestano a far sembrare straordinarie vite mediocri o perfino misere, a parlare del morto o della morta, come in questo caso, come di un individuo dal vissuto irripetibile, eccezionale.
Ciò è frutto di ignoranza, ipocrisia e di un certo timore che la morte suscita negli esseri la cui sola preoccupazione sia stata vivere in un modo più arrogante, prepotente o quanto meno approssimativo. Fino a qualche decennio fa si utilizzava il termine superficiale per raffigurare tali situazioni.
Rimane il fatto che questa è una caratteristica si ritrova in coloro che dipanano quotidianamente, un ossessivo senso di appartenenza, di egoistico attaccamento alla vita,
siano esse persone cosiddette di successo o  perfetti derelitti.
E’ un atteggiamento irrimediabile dei nostri tempi. E’ un’etichetta ben visibile, sempre a patto che si guardi.
Vostra figlia, Signora e Signor Poulange, per me ha significato molto di più di quello che i fatti hanno testimoniato, molto più di quello che c’è stato tra me e Sandra. Vi sono vicino nel dolore e se Voleste sapere altro su Vostra figlia sarò contento di esaudirVi, nel limite delle mie capacità e della verità. Firmato, N.
Raccontare la verità su Sandra è qualcosa di più di quello che, i cattolici e non solo, chiamano atto di fede. E’ un ritornare indietro di qualche anno, è un tuffo quantomeno disperato in quello che sono stato, quello che ho fatto, quello che ho amato e in quello che ho scritto fino a qui.
Sandra era una delle ultime della classe. Io mi stavo appena dietro ai primi, ma questa non aveva mai avuta nessuna importanza poiché essere primo o secondo della classe nelle scuole medie equivale molte volte ad essere un perfetto imbecille nella vita e perché il mio, era in sostanza, solo un atteggiamento.
Mi sono sempre piaciute le persone sveglie, dirette, di quelle che quando c’è da parlare parlano, quando c’è da andare vanno e da fare, fanno. Magari nel loro modo – spesso la gente li chiama diversi, strani, imprevedibili, bisogna vedere in quale grado di intensità si analizza lo spettro della vita.
Per me e per Sandra o c’eri o non c’eri o si era o non si era – lo definivamo “vivere francamente” - di questo sono sicuro, sicuro come lo sono che sia morta a 37 anni, in una camera di un motel in Messico al confine con gli Stati Uniti.
Sono sicuro perché il suo corpo è stato trovato e l’autopsia ha detto che è andata così.
Il motel si chiama El Heroico, stando ai dati che ho ottenuto ed ai giornali che ne parlavano l’altro giorno.
Sandra acquistò la mia definitiva e completa ammirazione quando per scelta del nostro insegnante di lettere, uomo insulso deturpato attenzioni pedofili, le fu assegnato il ruolo di riserva della parte di Caterina nella Bisbetica Domata e il caso la trascinò in palcoscenico la sera dell’ultima replica, quando l’altra mia compagna di classe cadde in preda ad un improbabile malore.
Tra il pubblico della scuole ci sarebbe stato un regista ed un critico, entrambi attirati dal passa voce che si era fatto sulla commedia e che veniva definita discreta dalla cronaca cittadina di uno dei maggior quotidiani del Paese.
L’attrice ebbe un attacco di panico, punto e basta.
Sandra era in camera ad ascoltare, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, Janis Joplin, il suo mito per eccellenza. Una telefonata dalla scuola articolata dalla voce del pedofilo di cui parlavo (ora sta scontando 27 anni di carcere), la reclamava: Sandra vestiti e vieni di corsa.
Lei venne con tutta calma. Salì sul palco. Due mesi dopo era alla scuola di arte drammatica Paolo Grassi.
Il mio ruolo della recita era quello di far ripetere le battute agli attori, far da supervisore del suono e delle luci e di far, in buona parte, il buffone.
Sandra Poulange al tavolino del bar del molo in libertà, con cinque dischi nuovi di pacca dei Floyd, Ummagumma, Atom Heart Mother, Meddle, Obscured by Clouds e The dark side of the moon, Sandra con le sue borse di tela piene di foglietti sparsi dove appunta freneticamente le sue idee, le cose che ha letto – ogni tanto scivola fuori qualche mia frase, Sandra la santa mistica impenitente e atea come la sua carne lattiginosa, densa, gli zigomi segnati da un acne furente, pelle lucida lì ed imbottita da trucchi pesanti, delle paste che la coprivano dalla luce del mondo, di mattina si sveglia e si rimane a letto a leggere fino alle quattro del pomeriggio, magari una sceneggiatura, qualche testo sperimentale o forse solo le sue voglie matte, una volta definitivamente alzata e retta inizia il rito del suo abbellimento davanti al tavolino dei suoi misteri, della sua chiaroveggenza autoreferenziale, guardando le bottiglie a terra finite la sera prima, spingendo gli occhi fuori dalla finestra mentre ha di sicuro appena messo su Janis Joplin, Me & Bobby Mc Gee, sinceramente sola e svuotata, in cerca di nuovi stimoli per il suo corpo, si butta fuori per la discesa fuori dalla porta di casa con i capelli raccolti in una treccia o in una coda di cavallo oppure impagliati sopra la nuca e davanti, sopra il naso, neri grossi oscuranti ed avvolgenti occhiali di sole, preferiti quando piove, Sandra imbevuta di piccole ideologie che durano il momento di una sua espressione, il suo modo di sedersi e di mettere le mani sul ventre, il suo modo di starti sopra come una madre di un’altra civiltà e il suo sospirare, stare zitta, godere e raramente abbandonarsi quando sente che sta per venire e dà forti strattoni di bacino per venire ancora più forte, più piena, lungi da lei l’idea di sistemarsi, di ammogliarsi, di trovare una spalla o il conforto della vita in un marito che si prenda cura di lei – io basto e avanzo, da sola - riservata, timida, pungente, trasognata, dolcemente dissacrante quando stufa od annoiata dal suo interlocutore di turno inizia a ruotare le dita e a sghignazzare senza motivo, per lei è oltre che odiosa, impensabile ogni idea vicina al mercanteggiare, detesta scendere a patti e a quanto mi risulta mai lo ha fatto, tranne che negli ultimi giorni della sua vita.
Nella sua stanza, con la testa mischiata in una gonfia scia di fumo, imperterrita ed in una posa reclinata, malinconica e a tratti stralunata per i troppi bicchieri di sherry che dalle nove del mattino sono stati versati con profonda disinvoltura e bevuti con gusto e brama, ora che sono appena le due del pomeriggio ed una sceneggiatura di un teatro off sta per terra accanto al cestino, ora prende forma la sua idolatria per il cinema indipendente con questa pellicola, vista e rivista, proiettata sulla parete alla sua sinistra.
Tragici suoni gutturali emessi schizzano da una laringe distorta, cali istantanei di estensione vocale seguono il volume rimbalzante dello stereo, alzato e abbassato solo a causa delle lamentele dei vicini, con buona pace di un’anziana signora decaduta che abita al piano inferiore, un’insegnante di piano vecchia scuola patita di Schubert e dell’idealismo romantico tedesco, con una passione non dichiarata per Karl Marx … Sandra su un testo di Ibsen, Tutto il Teatro 2εŧ 3, un’edizione del 1973, libri comprati anni addietro ad una bancarella di usato, sfoglia Un nemico del Popolo, a voce alta, declamante, PETRA: “Allora avevi ragione tu”, per poi ammettere, con una breve conclusione da lì a poco, sempre a voce alta, che il suo favore va per Strindberg perché “più crudele e per i suoi legami nietzschiani”.
Sandra aveva una considerazione ondivaga e autodistruttiva di se stessa, nociva per l’immagine che proiettava all’esterno, soprattutto verso quel complesso di individui che componevano e rappresentavano la culla sociale, in cui era nata e coltivata nei suoi primi anni di vita, una tronfia e mai doma borghesia che faceva di regole non scritte ma sussurrate nei pettegolezzi dei caffè e dei confessionali delle chiese di quartiere, tramandate con un insulso refrain – questo è così, quell’altro no, questo deve essere, il proprio modo di perpetuarsi.
Lei definiva tutto ciò come “un’estenuante macchinazione risalente nel tempo, un’ostinata coazione a ripetere inaccettabile, inutile e di marcata impronta fascista”, amava chiosare.

“Silenzi mossi nell’infatuazioni” era un brano da lei composto ed eseguito al flauto traverso. Inciso su una cassetta a nastro di 60 minuti, era fondamentalmente un esperimento sensorio che poggiava su i suoi studi di classica, oramai stravolti ed annacquati, e su certe declinazioni sonore della Plastic Ono Band.
Riuscì a farselo pubblicare da un’etichetta minore, la Massive Sound Records.
Uscì su un 45 giri. Mi ricordo il suo stato di esaltazione quando lo vide in un paio di piccoli negozi di dischi, messo tra le novità del mese.
Come si può ben immaginare le vendite non furono clamorose e per questo decise di abbandonare la via della musica per concentrarsi sulla recitazione.

Fuori faceva freddo e le notti non erano neanche più stellate. Quella volta ebbe un principio di assideramento. La presi in braccio da quella panchina e la portai al pronto soccorso. Il risultato di quella sua sbandata avventura fu una lunga e debilitante polmonite, che stentava a passare a causa della reiterata assunzione di sostanze psicotrope e alcool. Fu quindi ricoverata d’urgenza. Passarono quasi tre mesi prima che potesse uscire dal reparto di pneumologia.
C’ero solo io, fuori dall’ospedale. La caricai in macchina e mi disse che l’unica cosa che voleva fare era un lungo ed interminabile viaggio e aggiunse “forse l’ultimo”.
Nei mesi a seguire mi arrivarono cartoline e lunghe lettere a firma S. (Sandra, ovviamente) spedite da New Orleans.
Affermava con parole eccitate e sovraccariche, di aver trovato il posto dove stabilirsi, vivere e prosperare.
Da quello che so, si mosse anche da lì e partì per l’ovest.
L’ultima cartolina riportava uno scorcio di Corpus Christi, Texas.
Il suo corpo senza vita fu ritrovato qualche giorno dopo, in un letto di una camera di un motel di Matamoros, in Messico.

Nessun commento:

Posta un commento