domenica, febbraio 17, 2013

13 racconti








FRANK BARAMI




E’ un controsenso … prendere un aereo della linea di bandiera portoghese fare scalo a Lisbona e arrivare al JFK per poi andare a Brooklyn per intervistare lui, l’uomo, Frank Barami in questa situazione con il mio registratore portatile, la macchina fotografica e diciassette rullini di pellicola in bianco e nero, nove moleskine formato piccolo e intermedio, un centinaio di cd, i miei libri sulla nuova poesia americana, un volume critico su Dylan, non posso far altro che pensare a quell’impostore con la barba, convinto di essere la reincarnazione di Dostoeveskij, il Rasputin dell’editoria del XXI secolo che mi disse “[…] l’avrei voluto pubblicare io l’Isaia Blues, un libro straordinario, denso, innovatore, pieno di vita, immaginifico, forse il libro che non sarò mai capace di scrivere … ah” e ci credo brutto vecchio bastardo, ma non gli voglio male al mio editore, è solo un altro oppositore … andare da un uomo che ha passato gran parte della sua vita tra Roma e Milano, ma ora si trova a Brooklyn, lui quando deve stare a New York può solo essere a Brooklyn, devo atterrare nella terra americana sotto i migliori auspici del caso si spera, sfuggire alla solita routine della mia vita, il giornale, le matite, le macchine da scrivere da comprare dal rigattiere di piazza Schumann, i bar, il Nidaba, le domeniche nei teatri, i sabati a riprendere i Karamazov, ma quell’impostore sempre buono a prendere i soldi, uno dei massimi esponenti dell’editoria a pagamento che si finge un mecenate, un santone … è arrivata la telefonata per andare a sentire cos’ha da dire Frank Barami che a differenza di Rothko non si è ucciso tagliandosi le vene in cucina.
F. Barami, uomo sulla cinquantina, oltremodo grassoccio, barba, occhi grandi e nascosti ma non più del naso piccolo e schiacciato come una prugna della California, questo il profilo di F. Barami, il pittore tanto celebre negli anni Ottanta, quando ancora appariva magro, scarno, elegante, con strabordanti basette portate fino alla spigolosa mascella e capelli sulle spalle, adesso, in questa foto tra le mie mani che risale al 1987 ai tempi della sua prima ed ultima personale al Whitney, F. Barami sta in piedi guardando un’immensa tela rosso sangue di Marcus Rothkowitz, conosciuto al secolo come Mark Rothko, colui che ha dato un senso alla sua vita.
F. Barami è diventato famoso, o meglio, è passato alla storia, ha attraversato diversi paesi non senza lasciare traccia, facendo rimbalzare il suo volto, il suo nome e le sue opere sulle pagine di cronaca pittorico-artistica dei giornali di mezzo  mondo, prima del 1987, annus horribilis, se leggevi Warhol, Basquiat, dovevi per forza trovare sotto o di seguito una effe maiuscola puntata e poi le tre sillabe BA-RA-MI, e allora lo ricollegavi a quell’uomo spuntato dal nulla e che a malapena aveva frequentato in modo saltuario e discontinuo un numero imprecisato di accademie di belle arti, che nell’ottantaquattro, anno orwelliano, fece scoppiare una querelle diplomatica tra l’ambasciata italiana e quella statunitense a causa di una delle sue opere esposte alla Biennale di Venezia dove F. Barami con la sua solita disinvoltura dichiarava l’Italia schiava degli Stati Uniti d’America.
Nel suo nome e cognome, nella sua identità portava la verità della sua famiglia – origine iraniana, emigrati nel nord d’Italia sul finire dell’Ottocento, cambiatosi il cognome da Bharami in Barami, via quell’acca iraniana diceva il nonno, di nuovo emigrati in un nuovo Paese, l’America, a seguito delle leggi razziali del ’38, leggi italiane e fasciste a tutela e a difesa dell’italica razza, costretti ad emigrare a causa del nomi e dei tratti somatici e del colore della carnagione, che nella violenta ignoranza dei funzionari del fascio costituivano elementi di comunanza con la fatidica stirpe europea.
Quando guardavi la corporatura, il portamento e il naso vago in mezzo a quei due occhi monumentali, persianamente monumentali, e lo guardavi anche in una foto di anni addietro, come sto facendo io adesso, visto che tra poco dovrei incontrarlo dopo anni che non rilascia un’intervista, capisci che Frank Barami ha vissuto la sua vita e che è passato per le difficoltà comuni del mondo.
F. Barami il pittore, lo scultore, lo sceneggiatore, compagno di cella di Charles Bukowski, amico di George Harrison e nemico giurato di Andy Warhol che lui volutamente, l’arrogante F. Barami, storpiava in Handy Whore-Hole, varie laure honoris causa, architettura, filosofia, lettere, scienze politiche, quel F. Barami fotografato con David Bowie, Mick Jagger e Grace Jones, sua amante, Nelson Mandela, eticchettato di essere comunista, anarchico insurrezionali sta, idolo dell’elettorato della sinistra italiana dopo la sua esternazione a Venezia, F. Barami l’uomo che divide, suonatore di strumenti a corde, a fiato, improvvisatore di painoforte, amante delle percussioni, esperto di musica ai massimi livelli.
Arrivato a Brooklyn trovo il mio albergo sulla Quinta Avenue e Brooklyn mi sembra il negativo europeo di Manhattan, ma tutte le impressioni non contano dato che sto ancora pensando al mio nemico, il Grande Inquisitore dell’editoria e a quel monumento decaduto che è Frank Barami. Certo questo non posso dirglielo in faccia.
L’appuntamento è al Quarter, bel bar tra la Quinta Ave e la Ventesima, e un ingombrante giaccone di velluto copre la schiena del mio uomo (è lui, l’ho visto già da fuori).
“Immagino che lei sia qui per la famosa intervista. Gliela rilascio con piacere. Mi sembra un tipo gentile, colto. Cosa le interessa di più, il taccuino o il bicchiere? Le ho ordinato una Miller Lite e uno shot di bourbon. Gradisce? Cosa ne dice se parlo solo io per un’ora intera? Ma non risponda. Ora parlo io. Ci faccia quello che vuole delle mie parole, ci sguazzi.”
F. Barami nella barba avvolgente, nel suo ripetitivo modo di toccarsela, da tutto si capiva che di donne ne aveva avute , ma che per lui, la “sua primavera”, la “sua sonata”, la “sua completa e stabile sinfonia” non era mai arrivata o forse c’era stata ma non c’era più niente da fare e mi diceva parlando di esserci stato nei migliori decenni del Novecento, forse i migliori decenni che la stessa umanità avesse mai sognato di poter avere.
“La fine della guerra, la cortina di ferro sull’Europa, la potenza americana, la protesta studentesca, il rock, il mio amico Gregory Corso, tutta quella letteratura, quella pittura, il cinema, la fotografia, tutte cose che orami sembrano svanite” … “Cosa mai significano questi anni Novanta! Niente di niente, un benemerito e assoluto niente! Mi creda!” diceva intingendo i denti, la bocca, la lingua nel bagno del Laphroaig doppio … “Lei dovrebbe farmi la sua intervista” squadrandomi prima il naso e poi le mani che tenevano la bottiglia di birra sorretta a metà del mio petto.
“Senta un po’, Signor Durlov, mi perdoni il nome inventato, così al momento” ecco F. Barami il demiurgo della cartapesta, Durlov, ma che nome era mai, Durlov, mi avesse almeno chiamato Bloom.
“Mi sono sempre divertito ad affibbiare nomi, nomi esilaranti, a chi mi capita sottotiro, credo che lei conosca la storia di quello dato a Andy, Handy Whore-Hole, per non parlare di quelli che davo ai galleresti, ai critici” l’inopportuno F. Barami ossessionato dall’ironia sempre e comunque “Comunque, caro signor Durlov” adesso ero diventato anche caro oltre che Durlov.
Mentre procedeva nel suo dispiegamento di parole ed in un certo senso sembrava stesse oracolando, la maggior parte del tempo si limitava ad alcune ripetitive smorfie facciali che non vale la pena descrivere, poi senza motivazione alcuna, nel mezzo di un verbo scattava con movimenti di braccia che piegavano lo spazio davanti a lui, tirava pugni sul tavolo facendo ribaltare la vaschetta delle noccioline o delle olive, intervenendo immediatamente se queste ruzzolavano sul pavimento.
“Di questo voglio parlare, signor Barami, delle sue donne”
“Potrei non essere disponibile al momento su questo preciso argomento”
“Pochi scherzi, vuole che dica ad alta voce all’intero bar quanto si prende per l’intervista? Lo sa che la sua retrospettiva dipende anche da quello che scriverò nel mio articolo. Fai il bravo, campione.”
“Lei è insidioso, ma determinato. Cosa vuole sapere, il nostro Mailer?”
“Voglio sapere perché negli ultimi anni non si hanno più notizie di lei e perché non si vede più una sua opera in giro, tranne quelle che ogni morte di papa vengono battute all’asta, perché un uomo riesca a passare da essere uno dei nomi dell’arte mondiale …”
Barami fece gesto di interrompermi.
“Finisca di bere. Dopo la ospito a casa mia”.




 ERICA MAARSHA




All’inevitabile notizia della morte del padre, una morte improvvisa quanto mai liberatoria, Erica Maarsha, fresca trentenne con una zazzera rossa coltivata con capelli scalati, diede un’occhiata fuori dalla finestra della cucina e continuò da dove si era interrotta prima che il telefono prendesse a squillare nervosamente, affondando le labbra nel bordo del bicchiere, ingollando un sorso sostenuto di Bushmills, lasciando il bicchiere vuoto tranne un misero alone giallastro sul fondo.
Non avrebbe dovuto dirlo a nessuno. La madre giaceva nel cimitero di Feenda da un decennio. Nessun altro parente da avvisare, con cui condividere un pianto straziante per il dipartito. Tuo padre è morto, Erica.
L’esperienza da quel momento in poi di essere orfana, sola al mondo, l’affascinava. Un ultimo sorso per non lasciare indietro niente, bicchiere finito Erica, stavolta.
E’ facile, devo sbrigare le faccende pratiche, andare all’ospedale, riconoscerlo, parlare con un’agenzia di pompe funebri, comprargli una bara, organizzare il funerale, seppellirlo nella fossa già pronta accanto a mamma e dire addio papà, così sia.
Disposto sommariamente il piano di azioni da compiere senza tralasciare qualche eventuale variabile, Erica Maarsha si trovava seduta al tavolo della cucina con un bicchiere di whiskey irlandese vuoto, trent’anni appena passati, molte recriminazioni sul suo vissuto ed un rapporto con suo padre definitivamente fallito. Il padre se ne era andato (tuo padre è morto, Erica).
Chiamò la sua amica Dana. Non so se essere in colpa, provo indifferenza, anzi non provo niente.
L’amica le fece il quadro della situazione. Con la morte di tuo padre potrai dipingere a tempo pieno per via dell’eredità.
Non credo che lascerò il lavoro. Almeno per adesso. Mi piace lavorare con i ragazzi. Il futuro non lo si sa mai.
E’ inutile che continui a ripetermi che non mi capisci, fidati che è sufficiente che mi capisca io, vuoi che venga da te? Ah c’è Dmitrij. Non mi scolo due bottiglie, promesso. E poi comunque sono cazzi miei, è morto mio padre, che cazzo di promesse mi fai fare.
Dieci anni prima Dmitrij era stato il grande mancato amore di Erica. Lui voleva fare lo scrittore lei la pittrice. Entrambi impazzivano per la musica, qualsiasi tipo di musica e famose sono rimaste le loro apparizioni nei locali di musica dal vivo di Feenda. Lei si arrangiava sul piano e lui con la chitarra, e spesso si invertivano gli strumenti. La sua amica Dana tutte le volte le diceva non so come fai a stare con un soggetto del genere poi quando è in odore di bevute pesanti sarebbe da ricoverare ma hai visto come si riduce come fai a stare con un uomo del genere non lo capisco. Erica le rispondeva di trovarsi un uomo. Dana aggiungeva una cosa è sicura con uno così mai piuttosto zitella per tutta la vita.
Dopo due anni di convivenza due fatti piombarono nella loro vita: la morte della madre di Erica e il successo di Dmitrij ed entrambe le cose capitarono nello stesso momento.
Erica cadde in una terribile depressione come Dmitrij raggiunse un costante stato di esaltazione e qualche mese dopo si lasciarono.
Seduta al bancone del Frida Lounge pensava a questo e a come la sua vita fosse iniziata nel 1979 quando accadimenti di vario genere si avvicendavano sulla scena globale, dal sequestro dell’ambasciata USA in Iran al pieno corso della guerra fredda con le immagini di Breznev che passeggia sulla Piazza Rossa con alle spalle missili a testata nucleare, dagli svariati festival commemorativi di Woodstock alle trasmissioni televisive per i dieci anni dell’uomo sulla luna.
Fino alle tre di notte del sei dicembre del ’79 Bruno Maarsha era stato un uomo risoluto, granitico, riuscito nel proprio intento di guadagnare denaro e la posizione di esponente dell’alta borghesia di Feenda.
Il matrimonio con Linda Gustavi e la nascita della primogenita – che poi rimase l’unica e sola figlia – corredarono le sue aspirazioni di successo.
Era uno di quegli uomini che scambiano il senso del dovere con la propria personale visione del mondo … quel maledetto senso del dovere voleva impiantarlo a me, solo negli ultimi anni ha capito qualcosa della vita, povero vecchio con tutti i suoi milioni e solo.. quanto mi hanno fatto male le sue parole … ti aiuto solo perché sei mia figlia. Dio è morto e si è portato nella tomba vicino a mamma il senso del dovere.
Il padre stava due metri, forse tre, sottoterra, per sempre e per sempre significava oltre la durata dell’esistenza di Erica e oltre ancora.
Passando davanti al colorificio guardò le tempere esposte in vetrina e alitandoci contro scrisse non voglio dipingere più.




 IL CASO BANGLI




Quando la giuria si è avviata in modo scomposto verso casa, all’occhio del cronista di giudiziaria Christian Chrosof è balzata la giurata n° 9, bassa, minuta, sempre abbottonata nel suo tailleur marrone impreziosito da improbabili decorazioni madreperla intorno alle asole.
Per il caso del quadruplo omicidio Bangli Christian Chrosof, la penna di punta del Vert Point, un quindicinale di irregolare distribuzione e di scarso pubblico, era l’uomo adatto: quarantenne, oramai lontano dalle illusioni che si hanno ad inizio carriera e dotato di fiuto per le persone e le loro storie.
Il voto della giurata n° 9 era stato miracolosamente determinante per il verdetto di colpevolezza: cinque a quattro e la pena di morte come premio.
Era l’ennesimo caso dubbio a Naledo. Stavolta era più dubbio del solito.
Matubo – per tutti era solo Matubo, intanto veniva portato nel carcere di Duban per l’esecuzione e quando aveva sentito il responso della giuria era crollato a terra assieme alla zia presente in aula e morta di crepacuore poco dopo per la notizia e per l’incontrollabile dolore della perdita di Matubo, che aveva cresciuto sin dall’infanzia dopo la morte della sorella Lisa per AIDS. Morì sul colpo la non più giovane Haieda, perché Matubo non poteva averle detto che la verità del Signore (Matubo era pieno d’amore per la sua zia). Per questo morendo lui, Haieda si lasciò morire, non avendo nient’altro al mondo e non potendo reggere una seconda morte in famiglia per di più in quel modo (impiccagione).
Il giornalista del Vert Point Christian Chrosof si era ripassato tutti i bar di Naledo. Non è che qualcosa nell’intero caso Bangli non gli tornasse, fosse stato solo quello. Venne travolto dalla morte della zia di Matubo avvenuta alla sola pronuncia della sentenza capitale. Ne uscì intossicato dal dolore, dal male e da tutto il resto.
Mica si era laureato in legge per finire in quel modo, pieno di dubbi, tradito dal sistema, totalmente bevuto ed a fare il mestiere di cronista giudiziario di una piccola e squinternata rivista.
Che ci fosse segregazione, persecuzione, razzismo e ingiustizia nei confronti della popolazione di colore di Naledo era come respirare l’aria, ma il fiuto di Christian Chrosof stavolta si era abbattuto su quella casalinga dai capelli corvini tirati indietro sulla nuca, completamente foderata in quel tailleur marrone chiuso con quei grossolani bottoni; il ritratto che si era fatto della signora Rustic, vedova cinquantenne, era preciso.
In un caso come quello Bangli il ragionevole dubbio doveva avere per forza il sopravvento, almeno non doveva essere calpestato, soprasseduto per l’ennesima volta.
L’accusa non aveva nessuna prova certa, inconfutabile: solo incongruenti, inconsistenti testimonianze indirette, che individuavano un’ ombra di un ventunenne di pelle sicuramente scura, di media statura e corporatura. Questo e tanti altri fatti processuali di contorno stavano conducendo il collo di Matubo al cappio.
Chrosof si svegliò il giorno dopo assuefatto, con un leggero tremore alla mano sinistra e con un cono di cartone contenente cibo cinese, cacciando un mezzo urlo tra il lamento e la voglia di riscatto compose il numero di telefono del Vert Point.
Francois ascolta, stavolta ce l’ho, lo sento. Lo so che qualche volta posso essermi sbagliato e anche in modo imbarazzante per me, la mia carriera e per la rivista. No. No. Solo qualche bicchiere per rischiararmi la gola e farmi vedere le cose sotto un’altra angolazione, quella della verità. E l’ho vista. La giurata n°9, quella del cinque a quattro, del vivi o muore, la carnefice, è corrotta. Non ho ancora prove del suo coinvolgimento. E’ ovvio che vi sia implicata la polizia. Lo so che ci ascoltano! Però gli ha fatto piacere quando gli ho fatto quello straordinario articolo sulla nuova scintillante sezione della biblioteca dell’accademia di polizia! Gli piacciono quelle cose, eh! E gli piace anche metterlo nel culo ai neri! Stavolta li mandiamo a casa tutti! Grazie Francois. Sì mi calmo. Va bene. Capisco. Grazie per il tuo consueto mancato appoggio. Un vero direttore di giornale. Farai carriera. Andrai al Post, di sicuro e in fretta. Sei un fottuto reazionario! Sai cosa faccio? Telefono ai cari cugini del Philosophes dimanche e gli propongo l’inchiesta, cagasotto. Ci vediamo.
Prima di chiamare la rivista da dove solo qualche mese addietro se ne era andato per divergenze editoriali, pensò di fare una pausa meditativa, di guardarsi allo specchio e di provare a bere del caffè nero.
Il suo aspetto riflesso nello specchio del bagno era quasi tollerabile, a parte lo strano colorito che guarniva le occhiaie. Decise di non bere il caffè. Solo un succo d’arancia. Neanche quello. Meglio acqua e ghiaccio e limone. Si mise il suo abito verdone ed uscì con le sue matite, il quaderno per note, il registratore portatile ed un berretto dei Boston Red Sox in testa.
Poteva andare meglio nella vita, e invece no. Vediamo l’oggi cosa ci riserva.
Guardò un orologio di una farmacia per strada, erano le 15.28: l’ora della verità sul caso Bangli, quella verità che tutto il mondo aspetta. Entrò in un bar e richiamò il Vert Point.
Pronto sono Chrosof, allora ci sono novità? Passami comunque Francois Darla, grazie. Lo sapevo. No non era il tipo di novità che mi aspettavo. Quindi ha confessato… L’avranno costretto! In effetti la zia è morta e non ha nessun altro al mondo. Sì non avrebbe avuto molto senso. Il contenuto della confessione?
Dopo aver agganciato molto lentamente la cornetta del telefono, chiese al barista del Frank’s una Miller ed un Paddy triplo, liscio.
Matubo – perché tutti lo chiamavano così e basta, aveva ucciso a colpi di fucile l’intera famiglia Bangli, nella notte mentre dormivano. Nessuno di loro fece tempo a difendersi. Madre, padre e le due figlie.
Il motivo: non volevano rientrare dal prestito concesso dalla zia Haieda, che non era altro che una delle più spietate usuraie della zona.
Matubo quella notte avrebbe voluto solo spaventarli, ma l’assunzione di metanfetamine, crack e parecchio alcool, lo portarono a commettere gli omicidi.
Le sei del pomeriggio di Naledo sono fatte per non passare mai e sopra le spalle di Christian Chrosof il tempo non era più veloce. Ordinò il suo terzo giro, ancora un’altra corsa, ed iniziò a pensare al prossimo articolo sulla nuova esibizione di Mark Bradford. Per un po’ avrebbe lasciato stare la giudiziaria.




 DIOTI




Bertha
Vedo Berta dopo due libri pubblicati poco venduti e dopo che mi sono messo alle spalle anni di lavoro, di studio, di lettura,  di poca salute e di abituale aritmie cardiache, vedo Berta e adesso ho addosso altri quindici chili. Berta è una di quelle persone che puoi chiamare “una testa”. Fa la ricercatrice in campo scientifico, chimica farmaceutica, una cosa che ho sempre ritenuto inutile, dannosa, priva di alcun interesse per una persona che abbia la mia personale visione del mondo.
Ma questo non contraddice il fatto che sia stata l’unica donna che ha sempre saputo tenere alto il livello del discorso, tenermi testa, rispondermi, insultarmi, fare recriminazioni, ammonirmi e dirmi che forse non ero così intelligente come si credeva e che quando era troppo era troppo e che diventavo intollerabile, persino osceno.
La signorina Lukas non è una bella donna ed oltretutto si potrebbe dire di preciso che la sera sfortunata in cui sbaglia il trucco o la mise, possa risultare non piacevole alla vista.
Berta Lukas è una di quelle donne represse, rabbiose, che portano l’antico grido femminile di quella non grazia, di quel dono mancato da parte di madre natura, che lamentano di essere rimaste a mani vuote nel giorno del redde rationem. Credo che per quanto questa donna abbia sofferto per la mancata compiutezza estetica, non si sia mai uccisa consapevole della contropartita divina o casuale rappresentata dal brillante funzionamento del cervello.
Lei che si vestiva con calze a rate e le spaccava dopo i primi passi sopra traballanti tacchi neri e lucidi ma oramai era lontana da casa e non poteva cambiarsi, forse anche perché non ne aveva altre, avrebbe dovuto prendere quelle della sorellastra irrimediabilmente slanciata, magra di fianchi, con gambe da indossatrice, Diotina Lukas, più giovane, più bella, più vincente di lei, forse perché non aveva i soldi per comprarsi un altro paio di calze avendo speso tutto per le prime per uscire con me di nascosto da Diotina, perché avevo chiuso con Dioti e le sue enormi idiote bugie … spaccate le calze, Berta arrivava da me in lacrime, con un vistoso sbrego sulla coscia sinistra, muscolosa, robusta tanto diversa da quella setosa di Dioti.
Parlo di cose accadute dodici anni fa. Una malconcia sera per strada urlai a Berta di starmi lontano a vita, Berta stammi lontano a vita, minacciandola, disprezzandola, glielo dissi in un tempo di inutile avventure.
Era convinta, e non a torto, che volessi mettere la testa tra le gambe e non solo mettere la testa tra la gambe della sorella di Diotina, l’altra sorellastra di Berta, tanto per restare in famiglia tanto per proseguire nel solco dinastico.
La risposta di Berta fu rifarsi su Diotina, deridendola a modo suo, con scatti isterici di risa isteriche, dicendole che le avevo dimostrato in qualsiasi modo il mio amore, prendendola più volte al giorno, in qualsiasi parte di casa mia e persino di casa loro, di Berta, Diotina e Marta, alle volte sul letto di Berta altre su quello di Diotina e persino su quello minore delle tre, Marta, che le dicevo che era la mia puttana, che lei poteva prendere il mio affare nei vicoli di notte, che l’avevamo fatto nei bagni dei bar, nei musei, nelle stazioni, negli aeroporti, in piedi, di traverso, nella più fitta boscaglia …
Berta le aveva detto la sua verità, che come ogni verità personale è parzialmente vera, e per Diotina questo fu orribile, ma non quanto il venire a sapere che le mie mire oramai si riversavano su sua sorella Marta e che non mi sarei fermato, che avrei fatto peggio, avrei stravolto definitivamente, deturpato la finta aurea puritana della famiglia, di quella figliolanza femminile … fatto provato dai diari di Marta, allora sedicenne, la vera perla delle tre sorelle, la piccola e sorprendente Marta.
Berta aveva detto la verità e per entrambe questo fu orribile, non quanto mai il giorno in cui ricevettero la telefonata di Crista, la loro cugina, ragazza dagli intenti rivoluzionari, di tanto in tanto estremamente trasandata, con cui avevo costruito, nonostante la sua opposizione, una sincera e forte intesa intellettuale prima che fisica.
E’ stato il mio unico periodo della mia vita in cui ero veramente innamorato di quattro donne contemporaneamente e che contemporaneamente frequentavo più o meno segretamente, più o meno alla luce del sole.
Ciò poteva resistere grazie ai miei gusti eterogenei, alla loro diretta ed inesauribile soddisfazione, alla trasfigurazione ideale di queste quattro donne in altrettanti ideali di vita, alle volte ero padre, confidente, confessore, amico leale, compagno di passeggiate, svago prediletto, amante letterario, erotomane da collezione, alcune volte l’una e l’altra cosa insieme.
Nei fatti tutto era facilitato dal lavoro svolto dal padre delle tre sorelle e da quello dello zio: diplomatici. A casa non c’erano mai. La nonna era la precettrice delle quattro figliole e aveva grande rispetto per me, ammirazione anche se aveva capito che c’ero io di mezzo con le abitudini mutate di Marta e che ora Marta, la perla, non ricalcava più la parte della piccola ed ultima pietra sacrificale per le altre due ed eventualmente per la cugina.
Nella ottusa mentalità di mancata aristocratica questo fattore di cambiamento, questo moto, un progredire che poi significava solo vita, andava stroncato a favore del ripristino di quello che per un ventennio era stato il caro status quo. Purtroppo nell’incredulità generale, persino la mia, l’anziana signora venne colpita da un ictus cerebrale e chiuse i suoi giorni in una suntuosa casa di cura.

Crista
Crista Lukas, ventiquattrenne, donna ombrosa, dura, consolatrice, atea, rivoluzionaria, violenta, antidemocratica, accentratrice, studiosa di lingue antiche.
Crista è minuta, un metro e sessantaquattro e senza occhiali Crista non vive perché non vede ed inciampa e perde la sua verve autoritaria, il suo piglio guerresco esaltato dalla nobiltà della sua fronte sempre sgombra da capelli. Frequentava ancora la facoltà di lettere, era già entrata a far parte del corpo accademico, quando mi mando gambe all’aria.
Io ero al quarto anno di giurisprudenza e vivevo l’università solo come un posto di utilità, come una fabbrica. Andavo alla statale per sostenere gli esami, passarli e giungere verso una per niente agognata laurea, ma quando vidi per la seconda volta Crista Lukas dall’altra parte della coorte del chiostro, con abiti neri, i capelli tirati indietro alla perfezione, figurarsi che lo notavo da lontano, sapevo che avrebbe fatto parte della mia vita. In qualsiasi posto si trovasse gesticolava minutamente come a voler sottendere a grandi concetti, modo tipico di Crista, con concentrate movenze dei gomiti morbidi, creandosi una propria bolla di declamazione, diceva sempre “lasciami il mio spazio per declamare” allora Crista partiva a parlare delle varie rivoluzioni studentesche nel corso dei secoli e del rilievo dell’apporto di queste nell’ambito della storia dell’Occidente, suo grande cruccio, l’Occidente, suo dilemma, suo personale naufragio, perché l’Occidente era “l’innesto migliore che la storia fosse stata in grado di fare, la fusione della cultura giudaico-ellenica-romana-germanica, quale àncora, poi abbiamo partorito l’America guardandola con disprezzo” citando un chansonnier italiano, Crista con i capelli biondi tinti, alcune volte con il cerchietto nero, si truccava poco Crista Lukas che in questi anni ha avuto un bambino che è morto poco dopo il parto e che è rimasta incinta una seconda volta, abortendo tragicamente in un bagno di un’area di sosta sull’autostrada, poi salvata da un camionista, altrimenti ne sarebbe uscita dissanguata, esanime nel vero senso della parola, travolta da un aborto volontario in quarta corsia.



Marta
“Che ore sono?”
“ […]”
“Lo guardo io. Le due e quaranta. A che ora siamo andati a letto?”
“Cambia molto? Non ne ho idea.”
“Il sabato non riusciamo mai a dormire.”
“Puttana di quella troia. Chissà come stanno.”
“Chi?”
“L’umanità in genere, senza alcun tipo di specificazione.”
“Adesso manca solo che spieghi la tua idea di letteratura alle tre di notte. Perfetto. Anzi parlami del tuo manifesto d’ottobre, dei tuoi testi per un teatro della parola, il tutto per sei, sette ore e dopo di che mi salti addosso. Tu o mi derubi o ti addormenti.”
“Che bel quadretto. Grazie brutta stronza. Potrei ammazzarti per aver detto la verità. Lo sai vero quanti innocenti sono morti per aver detto la verità.”
“Ci alziamo. Mangiamo? Sono le tre e dieci.”
“Ora eccezionale per confidare le nostre voglie.”
“Sì, quelle più segrete, inconfessabili, torbide, nascoste etc. etc. … Basta che non mi dici che domani dobbiamo andare a mangiare dai tuoi.”
“Dirò che sei stata male. La solita vecchia e cara crisi respiratoria di Marta Lukas. Dove vai?”
“In bagno cristo. Dove vuoi che vada.”
“Promettimi che non ti perderai.”
“No. Ti amo.”
“Anch’io ti amo, Marta.”

Diotina
Dico subito che a Diotina ho dedicato i miei due poco fortunati libri. Dico subito che l’ho fatto più che per una forma di rispetto, direi per una di amore espressivo. E voglio chiarire che Diotina ha fatto la sola cosa giusta andando a vivere all’estero lasciando poche tracce di sé. L’ho portata io alla frontiera ed è per questo che lo so ed è uno dei motivi per cui Berta Lukas ha tentato di accoltellarmi in una notte di dicembre a Berlino, l’anno scorso, atto per cui sta scontato un periodo tra le mura.
Non so dire dove Dioti sia adesso, tanto meno con chi, cosa stia facendo. So che quando mi viene in mente, ogni volta che vedo e parlo con sua sorella, mia moglie, vedo lei, lei con la nostra bambina, mia e di Diotina. Un fotografo di origini libanesi ha chiamato a casa mia forse per ringraziarmi dei miei libri che gli ho inviato per contraccambiare alle sue pubblicazioni fotografiche  sul Medio Oriente che da sette anni a questa parte mi spedisce di continuo. Purtroppo ha risposto Marta e lui ha riattaccato.
Poi ha richiamato e ci ho parlato e mi ha detto che mia figlia sta bene, Rubina sta bene. Mi ha chiesto perché non raggiungo Diotina e Rubina, mia figlia e sua madre, ma gli ho ricordato il patto tra me e Dioti.
E lui ha continuato. Dai vieni con Marta. Non possono stare separate a vita. Tu devi farlo e lo sai.
Gli ho intimato di parlare d’altro e lui mi ha chiesto come andasse la ferita della pazza, Berta.
Mi ha anche raccontato di aver incontrato Crista in un a conferenza a Vienna sulla rivitalizzazione dell’esperanto e che era piuttosto andata dopo aver bevuto mezza bottiglia di vodka.
Tipico di Crista Joe, ho commentato.
Ci siamo salutati.
Marta stava lì a squadrarmi con uno sguardo di furore e di condanna.
Portami da loro, domani. Fatti dire dove sono dal tuo amico fotografo. Richiamalo subito. Portami da loro, domani.
L’ho richiamato.
Joe sono ancora io, facciamolo.




THOMAS IL MAESTRO




La mattina era iniziata con l’inno alla tromba, uno stiracchiato soffio marziale degno dei periodi di guerra più assurdi ed inutili che un soldato può permettersi di incontrare quando è chiamato a compiere il proprio dovere.
Annaspavo mentre la signorina Levar mi pungeva con un ago caldo, la signorina Levar, una delle infermiere più disilluse del nostro essenziale ospedale da campo … dicevo di annaspare mentre bucandomi la signorina Helena Levar non mostrava compassione, né rimorso alcuno per aver compromesso ripetutamente la salute ed il retto andamento delle mie facoltà cognitive con le sue pomeridiane medicazioni.
Sentivo i passi della capo reparto, la madre Durkeim, come va generale, la vinciamo questa guerra?
Oh il nostro istrione, come sta caro? La trattano bene? Procede bene il suo Musil? Helena, il dottor Egres ha autorizzato il calmante, glielo dia, glielo dia. Mio caro la faremo dormire bene ora.
Chiaro madre Durkeim.
Signorina Levar Helena! L’ho già ripresa più e più volte in merito! Ad un mio comando lei deve rispondere con le esatte parole sì, signora madre. Glielo ripeto. Sì, si-gno-ra madre. Ha capito adesso? Ma si ricomponga, eviti queste inutili scenette da pianto! Si asciughi immediatamente quelle lacrime dalle guance! Se le levi! E’ patetica!
Dopo questa scenetta, come la chiamava la signora madre Durkeim, Helena Lavar mi conficcò l’ennesimo ago ed iniziai subito a chiudere gli occhi e mi vedevo di ritorno in città, finalmente lontano dalla guerra, di nuovo tra i tavoli della biblioteca centrale dell’università tra i miei libri pronto per un concerto sinfonico o una rappresentazione teatrale e dopo sarei andato alla taverna Gavrash con amici o a starmene appartato a riflettere e quando nelle strade i desideri degli uomini incappano in vicende sentimentali o assassine, io avrei imboccato la tetra e pensosa scorciatoia per in ponte Ginsbergen, attraversandolo di corsa sotto una falce di luna, senza che nessuno fosse capace di emettere suoni tranne un’oscura civetta di passaggio e a qualche decina di metri di distanza dal ponte Ginsbergen stava la casa dove abita Domitilla Piranesi.
Come si può dire ad un uomo che quanto ha fatto per quattro anni interi è finito, che è stato demolito nelle macerie e che con esse è deceduto, che è stato bombardato, vittimizzato, che ha cessato la sua implicazione con il mondo reale, ovvero quello che sta fuori dalle mie pupille iniettate di farmaci che non mi fanno sentire il dolore, non mi fanno ragionare, leggere, figurarsi scrivere … risento le parole di quello che mi vendeva l’inchiostro, quel becero di un vecchio idiota di provincia, lei pretende troppo …
Se c’è una cosa che ho fatto nella mia vita è stato pretendere, ma certamente non nel senso che intendeva lui, un venditore di articoli di cartoleria porta a porta, povero diavolo, gli ero affezionato, mi ero sempre riproposto di offrirgli un bicchiere di vino alla taverna Gavrash.
Una mattina dovevo andare in università per assistere ad una delle ultime lezioni di estetica ed un mio compagno di corso, una delle bestie più rare che io abbia mai conosciuto con l’unica qualità umana di saper stare sempre zitto, mi stava venendo in contro con fare da indemoniato, con andature scomposta, forsennata, è chiusa, è chiusa fino a novembre, è crollata una trave!
Conoscendo Thomas e la sua spavalderia nell’affrontare colossali bevute, volli verificare di persona che il crollo della trave non fosse frutto della sua ebbra immaginazione.
Per me fu un trauma: l’intero corpo accademico riunito in assemblea fu travolto.
Va bene Thomas andiamo a bere qualcosa. Vai alla taverna che ti raggiungo più tardi.
Alla parola bere Thomas stava già saltellando in direzione della taverna Gavrash ed io stavo andando in libreria.
Giunto a metà del vicolo Idonoff vidi una donna seduta sul ciglio del marciapiede che si lamentava gemendo.
Signorina tutto bene?
Io non ho più nessuno al mondo, da oggi. E lei mio gentile giova.. la stavo chiamando giovanotto ma vedo che lei è un signore distinto, educato e di buon animo per soccorrere una donna disperata. Oggi ho perso il mio promesso sposo e il mio amato padre. E lo sa che l’Europa sta per farsi guerra di nuovo, o forse è già scoppiata e non me ne rendo conto.
Signorina se permette l’aiuto a rialzarsi. Si aggrappi al mio braccio, alla mia spalla. Ecco, tenga pure il mio fazzoletto.
Può accompagnarmi fino alla porta di casa? Lì può lasciarmi.
Come vuole.
Dopo aver salutato quella donna, decisi di non andare in libreria e di dirigermi direttamente alla taverna.
Thomas rubicondo, euforico era al solito tavolo e mi attendeva con una bottiglia vuota ed una appena iniziata, urlandomi Johannes, Johannes Maria! Sono qui, la fortuna ci ha colpito! Stanno arrivando anche gli altri! Lo sai che sono morti anche quel figlio di una cagna di Piranesi con il suo futuro genero? Proprio quella coppia di omuncoli  che aspirava alla cattedra di Ulyakov!
Lo stavo soffocando. Cercò di colpirmi, ma io gli feci sbattere la testa contro un pilastro di legno e Thomas capì che se voleva essere ammazzato come un cane ero pronto.
Hai detto una cosa molto grave. Non si sputa sui morti. Ora offri da bere.
Alla quarta bottiglia dopo un silenzio di un’ora e mezza, gli dissi che a causa di quelle morti una donna era rimasta sola al mondo e stava disperandosi.
Scusa Johannes ma sai come siamo noi gente di campagna, animi semplici, alle volte un po’ rozzi.
Thomas voleva fare il maestro nella piccola scuola del suo paese e qualche giorno fa per lui la tromba è suonata per l’ultima volta e non è riuscito nemmeno a dirmi una parola perché una raffica l’ha ucciso all’istante, mentre marciava verso la trincea sud-est.
Ora devo scrivere questo a sua madre




TRA GLI ARANCETI DI KOSMOSKOYA




Tra gli aranceti di Kosmoskoya si avverte la distrazione dell’oceano e ci si arresta anche se si è in movimento e ci si annienta per qualche istante … mi hanno raccontato che molte persone di questa terra hanno preso e se ne sono andate … da quel poco che sono qui credo che una buona e sostanziale ragione stia nello stato dolce, depressivo, riparato delle foglie degli aranci di Kosmoskoya mentre insospettabile la scogliera rimane lontana in attesa di uno scossone dal vento proveniente dall’Atlantico o di un cedere delle terre mai dome di queste zone.
In agguato Juan sta nel suo locale con le mani pesanti, gonfie, ingrossate, sfaldate in alcuni punti, le nocche salde, i palmi raggrinziti, segnati,  palmi idioti delle mani dice Juan, che le usa per il suo lavoro quando prende posizione dietro il bancone e ti confida di come si consideri un prodotto dell’Atlantico e che Kosmoskoya con i suoi aranceti sta nel sonno atlantico indisturbata come una potente dea ormai doma, Juan che non si sofferma mai sui suoi amori, i matrimoni, le scapestrate sorelle disperse nel continente e che anche se sta zitto è come se continuasse a parlare della sua famiglia, della sua laurea in antropologia, di questa terra immutata nonostante i secoli e gli uomini.
Juan mi ha detto che il mio modo di parlare, di comportarmi, il mio essere prevedibile, monotono come il mio essere imprevedibile, discontinuo, magari può annoiare, stufare ma rimane qualcosa su cui riflettere visto che non ne capisce il perché e visto che io non sia ancora totalmente convinto che la mia presenza a Kosmoskoya sia definitiva, fissa, necessaria, ineluttabile senza bisogno di ulteriori ripensamenti.
Così Juan con i nervi a fior di pelle, il viso e la camicia sudati, prende ordinazioni e appena scritte sul taccuino verde le ripete a mo’ di recita di un salmo come quando si reca in chiesa due volte al giorno per starsene lontano dalla gente e ha sempre da ridere su ogni cliente sia che paghi o no, mettendosi le mani nei capelli  per metterli a posto, frugandosi nelle tasca dei pantaloni sempre in cerca di qualcosa e quando l’ha trovata magari va sul retro della cucina ed osserva Cecilia preparare da mangiare per gli ultimi avventori del momento, la guarda e si fa un goccio con una smorfia sospettosa mentre lei sta facendo friggere la pancetta e gli dice Juan mi serve il maiale, vai a comprare il maiale! e lui annuisce grugnendo, avvitando il tappo della fiaschetta, dopo che sei stato in chiesa vai prendere il maiale! gli ordina Cecilia e Juan si vede già appoggiato alla colonna della selvaggia chiesa di Kosmoskoya immerso nei suoi dubbi e nel buio, con la lista della spesa appuntata su un foglietto appallottolato e sudicio nella mano destra, quell’angolo esistenziale che lui aveva battezzato “il mio angolo” e che i suoi concittadini chiamavano l’angolo di Juan, dove borbotta inveendo contro quel dio imparziale e castigatore che gli ha tolto sua figlia e l’ha gettata tra le braccia di un uomo da lui ritenuto non all’altezza della sua bambina e quando gli è scappato qualcosa su questa storia è perché era al quarto o quinto bicchiere, almeno uno come te mi diceva, grazie per la stima Juan rispondevo, dovevi conoscerla tu Briseide, non quell’anziano manigoldo, vecchio mezzo delinquente rincoglionito, dovevi conoscerla tu, sai è una ragazza molto graziosa, per bene, non doveva farmi questo, ma se lo incontro quel bastardo …
Briseide aveva scelto il suo uomo, con trenta anni più di lei e per lui se ne era andata da Kosmoskoya, lasciando l’Atlantico, gli aranceti e Juan, che però aveva commesso l’errore di essere testardo e violento non accettando l’amore tra sua figlia e il suo migliore amico, quello stesso amico che pochi anni prima faceva giocare la sua bambina al parco giochi e che da piccola Briseide chiamava zio, e io gli ho detto vedi Juan, prendila così, prima lo chiamava zio ora marito, è solo un nome che si dà alle cose, sono termini per qualificare un rapporto famigliare o coniugale, da zio a marito … e quella volta Juan mi ha tirato dietro un bicchiere, per fortuna mancandomi, e mi ha cacciato dal suo locale urlando che mi avrebbe sparato se solo avesse avuto un fucile.
Da quel giorno non vado più alla tavola calda ma so che ogni giorno Juan con la sua bici raggiunge la chiesa di Kosmoskoya, va dritto alla colonna vicino all’altare dedicato alla Vergine dei Naviganti inginocchiandosi e scagliandosi contro il destino che gli ha rubato l’unica sua figlia, lasciandolo solo e sbalordito.
Ma so anche che uscendo dalla chiesa dalla chiesa si piega in un piccolo e sofferto inchino e mentre si rialza fa una promessa.




 LA DIGNITA’ DI UN UOMO




La dignità di un uomo, la sua compostezza o il suo stare al mondo possono essere talmente radicati che singole e solitarie situazioni possono confermarli o demolirli … basta una parola che viene dall’esterno e che voglia rimanere parte di noi per affiancarci come compagna mentre queste mezze pastiglie, umide, rotte, screpolate, aggrottate, fredde sulla mia fronte, mi sono perso l’anima l’ultimo venerdì la voce dalla radio dice, queste pastiglie che sono dei dolci sfatti per la festa per quelle cerimonie allestite in onore della prostrazione di un destino comune sui cui non si riesce a porre il dominio.
Di nuovo queste pastiglie di cerone con la loro immancabile pellicola che riflette tra la polvere, vedremo cosa si può ben fare, anche stavolta, ah mia cara consolazione, prenderti in disparte, miseramente davanti agli altri, nei momenti in cui ci incontriamo e ci diciamo ‘che sia lungo il canale o lungo la costa o solamente lungo la via’, devi andare bene a me per le pazze gioie, ma poi viene la preparazione delle battute e prima ancora la meditazione ancestrale quindi la scrittura,  e poi con la volontà della strada si compongono, tra soddisfazioni, accenti strabilianti ed espressioni che diano un nuovo corso alla storia.
A fine spettacolo, quando ho solo voglia di bere, risento le mancate domande del pubblico.
Da quanti anni fa questo lavoro. Allora. Ha una famiglia. Come si sta in un camerino di un circo. Che rapporto ha con le bestie. E’ pacifista. Si guadagna bene. E’ un a vita d’agio. Quanti numeri ha fatto nella sua carriera. Sa suonare qualche strumento. A che età ha iniziato. Pensa che la pensione sia il prossimo passo. Quante ore prova al giorno. E alla settimana. Ma lei è sicuro di quanto fa. Come chiude la serata uno come lei.
Domande intelligenti, di spirito direi, a voler dir bene, ben accettate dalla mia vocazione, vista la mia inclinazione ad inscenare, tanto più che mi viene normale pensare adesso a quella bolla chiamata passato, per quell’uno o quell’altro fatto, distinguere le cose buone o quelle andate bene da quelle cattive, andate male. La mia condizione è quella di un uomo seduto, fermo, pensante che beve il suo bicchiere di roba e con le ultime tre dita della mano sinistra affondo la mia riconoscenza, la mia perplessità verso il livore dei contorni del mio volto sporcati da questo specchio.
Quello che più avverto negli ultimi anni sono le colorazioni della notte quando costringe un vento incatenato che viene dalla ferrovia a sbattere sulle persiane dei condomini popolari, mi sono inoltrato nelle colorazioni imbronciate delle notte, nel suo assente e dubbioso sapere, inghiottita dalle cadenti paludi delle palpebre, dagli zigomi fiaccati, guance mal rasate persistono sul mio profilo come tracce di un incendio inopportuno.
In alcune ore di buio di un cielo che si vorrebbe vedere, si addensano riflessi dell’attività umana di questo mondo illuminati dalla corrente elettrica deviata nelle strade e divampata in attimi nei caseggiati tumulati di mattoni, il quieto vivere nei retrobottega perfino nei sottoscala in affitto, la vita allegra nei gabinetti pubblici perfino nei confessionali disabitati.
E’ da tempo che la mia malmenata percezione visiva e così il mio fisico e il mio stato mentale sono interessati a quell’impasto di pigmento accasciato sul fondo della tinozza notturna.
Ma veniamo a noi, quella parte di noi raccontabile, quella parte che un conoscente qualsiasi accetterebbe e non esaminerebbe con esagerata recrudescenza, con alterato sospetto, con un ingrato ed inaspettato senso etico del dovere verso gli altri, i morbosi, gli afflitti, gli umiliati, i vincenti puri ed indifendibili quando si attardano in un posto qualsiasi  per estraniarsi ed accettare loro stessi.
La mia infanzia è stata la più felice fioritura della critica della ragione, la più seminata e continuativa divulgazione di volumi storici, filosofici, letterari, antropologici, filologici, sociologici, la mia infanzia a quarantasei anni di distanza, ora che posso qualificare quella distanza e quantificarla tra le mie delusioni apparse sulla mia pelle.
La danza dei cavalieri a cui mia moglie ha sacrificato l’esistenza e la sua immatura maternità, il movimento continuo del suo concepimento quanto mi ricordava mia madre con la sua irripercorribile femminilità con quella compagnia di compositori, pianisti, pittori e dio mio, scrittori russi che aveva in bocca, aveva sempre in testa … sulle cui parole mio padre morì con il cappotto del nonno ed il cappello della nonna, morendo, terminando fatalmente.
Al mio primo maestro di pianoforte dissi se ne vada non studierò mai le sue righe parallele, tantomeno quelle staffe, quegl’abortiti tentativi di dieresi, quelle ciglia frantumate su un foglio, quella letteratura a servizio di una spietata algebra del sentore, dell’ispirazione al dramma, vada via con le sue incontestabili partiture sul vivere e non cada nel solito caso del cattivo allievo.
Per prime le ballate di Chopin, odiavo la parola romanticismo, avevo nove anni, ma faceva sognare ripetere mazurca e mi ridussi ad un invalido del mondo della musica, un ritardato della partitura, un convalescente da quel tipo di isterismo che conduce all’incapacità dei migliori talenti, frequentando senza alcun senso la scuola e degli altri volevo farne un a polpa, mi dicevo domina i dominabili, gente già segnata, già finita appena adolescente … sempre il mondo diviso tra dormienti e saggi, un quid di materia cerebrale in più, o diversa. Non era tanto che mi ero dato a quell’espressione sul viso, elaborata o causata che fosse, cadente od accettata, tirannica o democratica, capitata e studiata, davanti al nome di mia madre su una lastra di pietra incasellata al cimitero comunale della città.
Un essere umano una luce interrogatrice, mamma voleva che fosse scolpito nella pietra, ma pensavo la stessa cosa quando veniva giù per le scale con i capelli ricci papà sta scrivendo, andiamo mamma, andiamo giù, nascondevo il bicchiere e l’aspettavo, sputando nel lavandino, risciacquandomi la bocca con quello che capitava, lurido e mentitore, lurido e simulatore fino alla fine, papà! scendeva e chiedeva, chiedeva che le raccontassi una storia.
Da quelle scale al parlare della morte, sentirsi gli unici interpreti e sacerdoti del corso della giornata, era lo stare sulla terra, prima che con quello sbuffo precipitasse e chiamarla Rose, Rosie o addirittura la Nostra Nona Rosa, non poteva salvarla, uno sbuffo di dio la sollevò e la fece crollare e non si può stare in piedi per un dio del genere, un mauvais démiurge.
Quando Rosie veniva ad aprirci la porta, dopo le nostre discussioni, il nostro stare insieme, ci saltava addosso e tutto si poteva ridurre a quello, con l’aria piena, e poi mettevamo su Fat City di Huston e sul divano mi dicevi hai i vestiti sporchi, mettili a lavare.
Spregiudicato, cattivo, idiota, dopo Rose ti sei ridotto così, ma non vedi che tremi tutto, un insetto acculturato, uno spiantato di un clown, un emerito coglione e già sono delicata se proprio vuoi saperlo, ma prima di quello leggevamo la cronaca nera nella notte negra e nuda ed allora mettevamo giù fantasie sulle vite degli assassinati – dei trovati morti in poche parole dicevi o come viene più comunemente detto da più secoli, di sicuro in svariate regioni del mondo - e sugli assassini, e finiva a letto con la testa tra le tue gambe e mi sentivo uomo fino in fondo, mi dicevi di abbassare Lay lady lay, ma ne avevo bisogno e tacevo tra le tue gambe, e dopo ancora le canzoni d’amore ed odio di Cohen, ti piegavi su quel mastodontico volume comprato per radio, mentre io dormivo vicino alla piccola Rosie con Masqualero, quella summa dell’opera shakespeariana, quell’immenso truffatore, io considero il mondo per quello che è un palcoscenico dove ognuno deve recitare la propria parte, palle bastardo, nella bibbia va scritto il ladro dovrà pagare l’indennizzo; se non avrà di che pagare sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato, ecco una sacrosanta verità, sarò venduto a causa del mio talento inesistente altro che il mondo un palcoscenico, non hai fatto altro che alimentare la mia disperazione molesto ingannatore, ma quando uno crede nei testi teatrali è difficile da fermare, da mettere al torchio.
Ci pregava di considerarla un estranea, una di passaggio, perché la sua vita era fuori da quella casa e oltre noi, lontano dai nostri rovinati ed abusati oggetti e aggeggi, un’aria sconsolata, muta con la bocca, seduta al tavolo della cucina e tu le davi addosso, basta farti del male, basta prendere quel veleno, riversavi su di lei, già fragile, la tua bava mentale e mi tiravi dietro quello che ti capitava sotto tiro quando la chiamavo la mia piccola Cosette, per te i personaggi dei libri devono essere il nostro riferimento esistenziale eh pazzoide mi urlavi, smettila con le tue idee blateranti, con le tue assurde costruzioni letterarie, vedi dove ci hai trascinato, e mi prendevi a pugni sul petto chiedendo perché perché dio mio che cosa possiamo fare dio mio ci sta morendo tra le braccia e io ti dicevo lo so, vedrai che capirà, parlale parlale continuavi, se ascolta qualcuno, anche in minima parte, quello sei tu.
Mi ero ripromesso di parlarle la sera stessa, prima che arrivasse il terzo canto del gallo, prima dell’inizio di un’agonia incontrastabile e definitiva. Non feci a tempo.
In questa stagione gli animali offesi non andranno a nascondersi in qualche rifugio della foresta urbana.
Stasera farò uno dei miei ultimi numeri e poi tornerò dalla madre di Rosie, Alva.



IN ATTESA




Ecco, la mia faccia si è allargata in un sorriso, si è smagliata in uno squarcio, si è ridotta a rappresentare “quello che si è” …  ho preso tutto quello che dovevo prendere e il comunque non manca mai.
Ai cari tempi, ai tempi, l’ho fatta franca, con quel gesto ho dato un impulso irrefrenabile.
Oggi va di moda il 1977, anno impagliato, domani è grano da prendere a piene mani, ma la parola per me, la parola a cui aspira uno come me, a cui elevo il mio oltraggio, oltre cui non intendo azzardarmi, la parola è lo spazio di ogni uomo, il proprio abomino messo in strada, in scena, un sordido mal di testa mal recitato.
Poteva ben finire così e ce ne erano i presupposti.
Oh, il casellario della posta. Quel grandissimo minorato, quell’eminente nullità che si occuperà della distribuzione della posta lungo gli inverni, lungo il viale. Non arriva mai la domenica in certe situazioni e quando mi hanno abbandonato, sbattendomi su questo letto di ferro, non è niente rispetto a come ho ridotto i vestiti e la stanza di quella povera crista. Ah, gli anni … combattere, difendersi, attaccarsi, ritirarsi, abbattere, estirpare quando se ne ha l’opportunità. Ho compilato questa lurida traduzione, questa incompleta trascrizione, un difficile traslitterazione da capo a piedi e dal fondo del piede alla cima della testa per intravedere e vedere cosa ha funzionato, cosa è stato rivelato, accertato e si è addentrato fino in fondo alla terra. Sono un credente fervido di fervente fervore, si direbbe dopo una non  accurata prima impressione.
Ora, devo essermi perso, quando faceva freddo, con molto liquore alle more sullo stomaco, ma non una quantità tale da giustificare l’accatastarsi di quella serie di azioni, di quelle concrete omissioni, del fatto e non fatto, in poche parole. Quella terrificante serie di notizie, indiscrezioni, sull’aspetto del possibile attentatore o meglio sull’indagato, il prospettato assassino.
Uno qualunque, si va avanti a dire nei cortili, nelle piazze, nelle automobili che occupano i parcheggi degli ospedali, nei tragitti infami che portano migliaia di persone sul posto di lavoro, negli specchi dei camerini dove donne fanno un pensiero languido e lussurioso. L’essere umano è una bruttura sconfinata e sconfinare nella bruttura dell’essere umano è un vantaggio sconfinato.
Si crede, si punta come quel troglodita di Pascal sull’aldilà, psicopazzo che uccide, titoli che corrono in prima pagina, ma questo non vuol dire che si uccida, che qualcuno abbia ucciso, o che qualcuno abbia deciso di uccidere in quel modo.
Tutte quelle fandonie, quelle fantasticherie sugli assassini che corrono via …
Un individuo non è che preda e depreda la preda delle sue stesse     parole finali, delle sue ultime occasioni di vita.
La penitenziaria, l’addetta di turno, mi chiede doveva fare quella telefonata.
Immagino che, ai limiti della mia personale convinzione, in questo genere di cose arriva il momento in cui arrivano a prenderti, non so per portarti dove, ma a prenderti certo che vengono.
Mi chiedo: come si presenteranno, dichiareranno la loro appartenenza ad un corpo, la militanza ad una corrente di pensiero piuttosto che ad un’altra, il loro stare in società …
“ […] donna uccisa nel proprio appartamento. Dopo lunga m..., il marito le ha inferto il colpo di grazia.”
A questo punto si dovrebbe dire “si attende la sua piena e spontanea confessione.”
Morire in un modo così silenzioso che i vicini non hanno avuto di accorgersene. Per quattro ore sei andata avanti senza neanche respirare e gli occhi ripiegati all’indentro come due fiori chiusi. Non è vero che i morti emanino fragranze nauseabonde, ferine, rivoltanti. Neanche lì si può dire che sia veramente finita, come ti piaceva quella frase rubata che torturavi dal mattino alla sera, dal giorno che ti ho conosciuta, carnalmente conosciuta.
Ottanta canne scure lungo il perimetro del nostro cortile, ottanta canne ingioiellata dalla tua cura per le cose
che abitano il mondo esterno e lo ingombrano, talvolta deliziandolo, talvolta smembrandolo, ottanta canne scure nel nostro destino scrivevi prima della malattia e quando te lo chiederò, per me, la farai finita.
Dolores con le orecchia a cipolla e giù a ridere quando te lo dicevo, Dolores andante per il guado con il corpo miracolosamente inodore, marciando verso ottanta canne prima di un lembo di terra da cui spunterà solo una ciocca di capelli.
Come ti piaceva Henry Lee. L’abbiamo ascoltata per tanto tempo. Ma adesso non ti seguo subito, non ancora. Lì per lì mi ero aperto una bottiglia, ero sceso in strada verso il commissariato di zona o la questura, quello che è.
Io, Alberto Maria Cartazor, marito di Dolores Yoanni in Cartazor, io la ho ammazzata, in modo determinato, cosciente, libero, intenzionale. Sono qui per costituirmi. Fate quello che dovete.
Ti ho lasciato un paio d’ore sole. Poi sono venuti a prenderti per portarti via nelle loro stanze di stato.
Mi hanno permesso di assistere a quando ti hanno messa nel forno.
Eri in casa ma in strada c’era un odore pesante, mi sono dovuto mettere il fazzoletto sul naso e sulla bocca ed ho dovuto premere.
Prima di lasciare la libertà sono entrato in un bar dove non mi conoscevano e mi sono fatto l’ultimo paio di bicchieri. Forse mi avevano visti solo passare, probabilmente con te, mentre mi spalleggiavi ed adesso mi vedevano solo, ubriaco, con la faccia di uno che ha appena visto la morte.
Dolores, in bagno sono crollato aggrappandomi alla tazza e ho detto mio dio adesso che cosa faccio, ma dopo che sono uscito dal bar ero di nuovo in strada e mi sentivo bene ed ho sentito quello tranquillità che avevamo seguito per dieci anni, qualcosa di decisamente sbagliato nel nostro vissuto, nelle nostre scelte di vita si dice, a te è arrivata la malattia e ti ha ridotta a trenta chili, anche la bara sarà più piccola, forse su misura, scherzo Dolor maior et ubi minor lo sappiamo, una delle nostre preferite, una delle mie porche invenzioni di parole, una delle mie esaltazioni.
Tu hai sempre creduto in Dio e negli ultimi mesi hai confessato ho creduto talmente tanto che ho raggiunto il livello del sospetto, ho visto, intuito qualcosa.
Con il passare del tempo mi perdonerà, come io ho perdonerò lui per averci portato via  nostra figlia per i suoi secondi fini, ma quello che ha fatto con te è stato troppo.
Suicidi e assassini quando passeranno la linea verranno con in mano il sapore dell’oleandro, per gli altri rimarrà il dimesso canto.
Dirò queste tue parole al giudice.




 CARLOS



Quando sono arrivato in città ero il primo dopo la rapina che aveva coinvolto guardie a contratto a sparare controvoglia contro quelli che hanno chiamato delinquenti, ladri, malfattori, violenti. Essendo stati attaccati, raggiunti da pallottole, colpiti alle spalle, feriti ed alcuni tra loro abbattuti, in tal caso Joaquin Louan, novello truffatore, classica faccia squadrata, padre di sette figli, sposato davanti ad un ministro di dio e risposato davanti ad un funzionario delegato dal municipio non si sa quante volte con precisione, Luan, il solo morto tra i 'cattivi', coloro che hanno scatenato l'orrore o secondo le voci più isolate e contraddittorie di questo scarno consesso urbano immerso nel livore rosso degli aranceti della cittadina di Tebe, non quella contro cui si scagliarono alcuni antichi, non quella di Eschilo e neanche un posto che Truman Capote possa permettersi di considerare con autorevolezza, con i gradi sul petto, e di dargli l'epiteto di 'laggiù', visto che siamo in un posto che sembra non confinare con altro da sé e che non viene chiamato dagli abitanti del posto 'laggiù'.
'Stupido stupido Luan carlos Joaquin ... stupido e povero con la colla sul collo, la cera e le ceneri in un  cassetto [...]'.
Questa è solo una frazione, un'anfratto lessico della dichiarazione spontanea chiamata tale dagli ufficiali di polizia più simile ad un'esternazione in puncto mortis della vittima e non smentita dal difensore d'ufficio di Carmen Luan, sorella del crivellato defunto Joaquin Carlos, a cui fu riscontrata una notevole necrosi del tessuto epatico durante l'esecuzione dell'autopsia condotta sotto la direzione del medico legale di turno, Dottor Meckerben, autopsia detta di rito, di legge e quindi obbligatoria e a cui in nessun caso l'ingessata equipe del Dottor Meckerben si sarebbe potuta sottrarre e non si può dire che cosa provasse questa troupe medica nei confronti del loro oggetto-soggetto balzato all'onore discutibile delle cronache della cittadina di Tebe, non quella degli antichi e di come questa parte della faccenda, dell'accaduto fosse considerato criminale e se avesse un qualche diritto di essere riportato, un diritto di esistenza nel mondo della cronaca, per l'appunto.Prima di cedere all'inevitabile, Joaquin Carlos Luan parlò di buona ed ottima musica e di sua sorella e di sua madre, Donna Isabella Trista.
La mascella squadrata da toro, dice la sorella Felicia, con i gomiti appoggiati su un tavolo del commissariato di Luaca, riproducendo con il pollice e l'indice la forma di un ferro di cavallo per rendere l'idea della sagoma della mascella di Carlos, che dalla polizia è stato ritrovato con la schiena curva, ricoperta di sangue tiepido e con un ghigno fisso, di chi incontra l’inevitabile.
Aveva imparato dai piccoli criminali, aggiunge la sorella della vittima, e giurava ogni santo giorno che mai nessuno l'avrebbe messo tra le mani del buon creatore in quel modo, con dei colpi di pistoleros a pagamento, dei colpi piazzati a tradimento, dietro alle spalle, non si sarebbe fatto mettere fuori gioco così, mi creda.
Deponendo all'appuntato Ignazio Nagra, Carmen Felicia Nuntia Luan, donna dalla forma filante, ossea, evita di piangere il fratello.
Apprese le prime lezioni dalla zio, nel negozio di ferramenta di famiglia, proprio in centro nella nostra cittadina, ma cosa facesse nel retro, per ore ed ore dopo la chiusura ... Si esercitava!
Il nottambulo della città di Tebe, quella dove è vissuto ed è morto, vede, la concomitanza di elementi è così forte che porta a suggestioni quasi di sogno direi, mio fratello era curvo in apparenza, andava guardato meglio, andava seguito, la sua postura china era simulata, voleva creare di sé un'immagine che lo potesse rendere ben distinguibile negli schedari della polizia e riconoscibile nel più esteso e mutabile mondo del crimine.
La maggior parte del tempo la passava fantasticando su colpi milionari, i colpi della vita, millantando esperienze delinquenziali e conoscenze ed il suo raccontare lo esponeva ad evidenti esagerazioni, come quando tentava di darsi delle arie da uomo dotto con parole altisonanti, ma in realtà prigioniero di una cultura alquanto approssimata, infarcita di nomi vuoti che a malapena ricordava e che pronunciava con impaccio ed oserei dire, imbarazzo.
Tragico ed inutile Carlos Luan, tragico e inutile dormire, con la faccia sepolta, un'espressione elementare, la rabbia, la fronte per dove andare,  da dove un rigagnolo di sangue si dipana verso una merda di gatto, il mio Joaquin era troppo pensieroso, riprende Carmen, correre via dalle guardie con le spalle lanciate nella notte di questa pletora di pistoleros contro uno solo, un solo scassinatore, un conoscitore di serrature completamente stravolto a terra, avrà pensato a Donna Isabella Trista Luan, Carlos steso sul pavimento che cantava litanie del popolo, pensando di vivere in una costante tormenta di fantasmi sulla casa... avanzi di giorni prima J.C.L. ,C.J.L. , L.C.J. incideva prima di andarsene, morto nel 1973, stordito dalle brame di successo nel mondo del crimine esteso e mutevole e da tutta quella musica, dedizione culminata in acque fangose, come ebbe a dire l’inimitabile profeta.
Carlos preferiva vedere il suo cuore famoso, messo a segno, e se era triste Joaquin si versava della tequila non senza essersi bevuto un paio di cervezas.




LA PECCATRICE & IL SANTO SCURO




Su un tavolo di modeste dimensioni, uno sgangherato cimelio da robivecchi, in discesa dalle pareti della sala, le uniche dell'appartamento, è piazzata una testa di donna appena quarantenne; lo si direbbe dai vestiti e dalle mani che tiene ben vicine al corpo.
Un odore di presentimento si concentra dopo una delle molte sere di lettura finite con Mrs Dalloway e alcune epistole solamente adocchiate della Woolf.
La donna è decisamente nervosa e tra poco l'uomo di casa, suo fratello.
Il perché di questa visione, si chiede davanti al suo elegante tè con foglie vive e pesanti sul fondo della tazza e davanti al suo bicchiere di vino bianco rinvigorito almeno ogni venti minuti, il perché di Virginia Woolf nella sua giornata ed in quel periodo di sassi di fiume nelle tasche.
I morti, la depressione che la invoglia ad intonare una stridula strofa de il "Ballo dei Bisonti", che prendono ad manifestarsi tra le tende pesanti della stanza e avanzano nel soggiorno per poi sfumare con una scia ferina quando si fa concreto quel presentimento che si tramuta in una probabile certezza - tornerà l'uomo di casa, la promessa, con un sacchetto di carta della libreria Gustava ed uno zaino a mano. Ora fa vacillare il bicchiere di vino tra le labbra e le braccia, lo fa dondolare critica, ripete "quando l'ora tarda, s'attarda e ci fa sembrare consumati".
‘Quel sacchetto che sicuramente nasconde qualcosa’, la donna, che nel mentre allunga le gambe, dilunga i piedi, disincancrenendoli, fingendosi partecipe di una sequenza filmica, la donna di questa casa alla Mrs. Dolloway satura delle di colpi di Charles Mingus, guarda la continuazione di piccole pareti spezzate da spigoli irregolari, mal calcolati, e quelle poche pareti sono imbottite di quadri, fatta eccezione per quella  del crocefisso, un opposto fuori posto, sistemato nell'entrata, come fosse più di un avvertimento.
Incrociata una matita tra le dita della mano sinistra, il cui palmo è segnato da una striscia di tempera magenta chiaro, traccia delle linee cuneiformi, dei circhi concentrici, delle spirali ad infinitum, e la grafite, a mano a mano che la donna si lascia andare, scende più profondamente nel foglio sottile del blocchetto per appunti fino a bucare una, due, poi tre pagine e quindi finendo con il ridurle a brandelli di carta disegnata e maciullata.
Questo procedimento liberatorio, messo a punto da lei stessa anni addietro nei tempi della sua prima maternità, le permetteva una sorta di abbandono fisico verso uno stato di piacere controllato in cui si imponeva di ripensare solo ai momenti che definiva ‘quantomeno decenti’ della sua vita ‘che non erano poi molti’.
Non che l’auto-somministrazione di vino fosse d’impedimento al dinamismo di tal processo psichico, ma sovente poteva accadere che se, come in questo frangente, non fosse stata in giornata, la donna, questo tipo di donna, potesse pervenire a spiacevoli conclusioni, come una radicale distorsione in chiave nichilista del suo vissuto ed in particolare degli ultimi tre anni di vita.
E se questo accadeva, si alzava dal tavolo, si metteva in doccia, gridava un paio di non tanto celate bestemmie, si asciugava di fretta e furia, provava a chiamare qualche amica per uscire e se non ne avesse trovato alcuna, sarebbe andata comunque fuori, non prima di un sorso di Fundador direttamente dalla bottiglia.
Una volta uscita faceva quella cosa che le piaceva chiamare ‘stare per le strade’, camminando prima di tutto, per poi acquattarsi in un tavolino di uno dei suoi bar, prediligendo i tavolini lungo il parapetto che dava sul fiume così da poterci appoggiare il gomito destro, dando così le spalle all’inizio del canale, dove l’area pedonale che costeggiava su due lati il corso dell’acqua faceva un’accentuata discesa e così lì la gente convogliava i propri passi ammassandosi.
Dopo avere sbuffato parecchie volte, la donna decideva di tirare fuori da una borsa di pelle nera dai lunghi manici, un quaderno degli schizzi di medie dimensioni, assai squinternato, dalle pagine gonfie e talvolta macchiate all’estremità; tutto chiedendo un doppio od un triplo giro di quello che stava bevendo prima.
Iniziava a tratteggiare abbozzi di ritratti delle persone che le stavano di fronte, o che in un qualche modo rielaborava nella sua testa, o che forse immaginava, totalmente, e poi nel foglio a destra – iniziava sempre un lavoro nella pagina di sinistra – appuntava parole per non più di uno o due minuti. Chiudeva il blocco e ritornava a casa; diversamente poteva riaprirlo e ripetere ciò che aveva fatto per quasi una mezz’ora; altrimenti si rimetteva a ‘stare per le strade’ verso un altro bar che l’accogliesse.
‘Gli uomini non cambiano mai’ era una delle cose che scriveva spesso nel foglio di destra, ma questo tipo di donna adesso è di nuovo nel soggiorno di casa sua, l’unica stanza, e appena ha aperto la porta ha visto la schiena del fratello mezza china sul tavolo, intenta a supportare l’attività di una frenetica battuta a macchina.
Si scambiano un ‘come va’ e si rispondono un ‘tutto bene’; lui le chiede se gli fa vedere i suoi lavori, lei prende il quaderno degli schizzi, nero, e glielo lancia sul tavolo, non prima di aver strappato un angolo di un foglio con il mio numero di telefono.




SANDRA POULANGE




Ho scritto poche parole nel telegramma di cordoglio per la famiglia Poulange.
Poche parole, spero significative, anche se sono un po’ false.
Quando la gente muore tutti si apprestano a far sembrare straordinarie vite mediocri o perfino misere, a parlare del morto o della morta, come in questo caso, come di un individuo dal vissuto irripetibile, eccezionale.
Ciò è frutto di ignoranza, ipocrisia e di un certo timore che la morte suscita negli esseri la cui sola preoccupazione sia stata vivere in un modo più arrogante, prepotente o quanto meno approssimativo. Fino a qualche decennio fa si utilizzava il termine superficiale per raffigurare tali situazioni.
Rimane il fatto che questa è una caratteristica si ritrova in coloro che dipanano quotidianamente, un ossessivo senso di appartenenza, di egoistico attaccamento alla vita,
siano esse persone cosiddette di successo o  perfetti derelitti.
E’ un atteggiamento irrimediabile dei nostri tempi. E’ un’etichetta ben visibile, sempre a patto che si guardi.
Vostra figlia, Signora e Signor Poulange, per me ha significato molto di più di quello che i fatti hanno testimoniato, molto più di quello che c’è stato tra me e Sandra. Vi sono vicino nel dolore e se Voleste sapere altro su Vostra figlia sarò contento di esaudirVi, nel limite delle mie capacità e della verità. Firmato, N.
Raccontare la verità su Sandra è qualcosa di più di quello che, i cattolici e non solo, chiamano atto di fede. E’ un ritornare indietro di qualche anno, è un tuffo quantomeno disperato in quello che sono stato, quello che ho fatto, quello che ho amato e in quello che ho scritto fino a qui.
Sandra era una delle ultime della classe. Io mi stavo appena dietro ai primi, ma questa non aveva mai avuta nessuna importanza poiché essere primo o secondo della classe nelle scuole medie equivale molte volte ad essere un perfetto imbecille nella vita e perché il mio, era in sostanza, solo un atteggiamento.
Mi sono sempre piaciute le persone sveglie, dirette, di quelle che quando c’è da parlare parlano, quando c’è da andare vanno e da fare, fanno. Magari nel loro modo – spesso la gente li chiama diversi, strani, imprevedibili, bisogna vedere in quale grado di intensità si analizza lo spettro della vita.
Per me e per Sandra o c’eri o non c’eri o si era o non si era – lo definivamo “vivere francamente” - di questo sono sicuro, sicuro come lo sono che sia morta a 37 anni, in una camera di un motel in Messico al confine con gli Stati Uniti.
Sono sicuro perché il suo corpo è stato trovato e l’autopsia ha detto che è andata così.
Il motel si chiama El Heroico, stando ai dati che ho ottenuto ed ai giornali che ne parlavano l’altro giorno.
Sandra acquistò la mia definitiva e completa ammirazione quando per scelta del nostro insegnante di lettere, uomo insulso deturpato attenzioni pedofili, le fu assegnato il ruolo di riserva della parte di Caterina nella Bisbetica Domata e il caso la trascinò in palcoscenico la sera dell’ultima replica, quando l’altra mia compagna di classe cadde in preda ad un improbabile malore.
Tra il pubblico della scuole ci sarebbe stato un regista ed un critico, entrambi attirati dal passa voce che si era fatto sulla commedia e che veniva definita discreta dalla cronaca cittadina di uno dei maggior quotidiani del Paese.
L’attrice ebbe un attacco di panico, punto e basta.
Sandra era in camera ad ascoltare, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, Janis Joplin, il suo mito per eccellenza. Una telefonata dalla scuola articolata dalla voce del pedofilo di cui parlavo (ora sta scontando 27 anni di carcere), la reclamava: Sandra vestiti e vieni di corsa.
Lei venne con tutta calma. Salì sul palco. Due mesi dopo era alla scuola di arte drammatica Paolo Grassi.
Il mio ruolo della recita era quello di far ripetere le battute agli attori, far da supervisore del suono e delle luci e di far, in buona parte, il buffone.
Sandra Poulange al tavolino del bar del molo in libertà, con cinque dischi nuovi di pacca dei Floyd, Ummagumma, Atom Heart Mother, Meddle, Obscured by Clouds e The dark side of the moon, Sandra con le sue borse di tela piene di foglietti sparsi dove appunta freneticamente le sue idee, le cose che ha letto – ogni tanto scivola fuori qualche mia frase, Sandra la santa mistica impenitente e atea come la sua carne lattiginosa, densa, gli zigomi segnati da un acne furente, pelle lucida lì ed imbottita da trucchi pesanti, delle paste che la coprivano dalla luce del mondo, di mattina si sveglia e si rimane a letto a leggere fino alle quattro del pomeriggio, magari una sceneggiatura, qualche testo sperimentale o forse solo le sue voglie matte, una volta definitivamente alzata e retta inizia il rito del suo abbellimento davanti al tavolino dei suoi misteri, della sua chiaroveggenza autoreferenziale, guardando le bottiglie a terra finite la sera prima, spingendo gli occhi fuori dalla finestra mentre ha di sicuro appena messo su Janis Joplin, Me & Bobby Mc Gee, sinceramente sola e svuotata, in cerca di nuovi stimoli per il suo corpo, si butta fuori per la discesa fuori dalla porta di casa con i capelli raccolti in una treccia o in una coda di cavallo oppure impagliati sopra la nuca e davanti, sopra il naso, neri grossi oscuranti ed avvolgenti occhiali di sole, preferiti quando piove, Sandra imbevuta di piccole ideologie che durano il momento di una sua espressione, il suo modo di sedersi e di mettere le mani sul ventre, il suo modo di starti sopra come una madre di un’altra civiltà e il suo sospirare, stare zitta, godere e raramente abbandonarsi quando sente che sta per venire e dà forti strattoni di bacino per venire ancora più forte, più piena, lungi da lei l’idea di sistemarsi, di ammogliarsi, di trovare una spalla o il conforto della vita in un marito che si prenda cura di lei – io basto e avanzo, da sola - riservata, timida, pungente, trasognata, dolcemente dissacrante quando stufa od annoiata dal suo interlocutore di turno inizia a ruotare le dita e a sghignazzare senza motivo, per lei è oltre che odiosa, impensabile ogni idea vicina al mercanteggiare, detesta scendere a patti e a quanto mi risulta mai lo ha fatto, tranne che negli ultimi giorni della sua vita.
Nella sua stanza, con la testa mischiata in una gonfia scia di fumo, imperterrita ed in una posa reclinata, malinconica e a tratti stralunata per i troppi bicchieri di sherry che dalle nove del mattino sono stati versati con profonda disinvoltura e bevuti con gusto e brama, ora che sono appena le due del pomeriggio ed una sceneggiatura di un teatro off sta per terra accanto al cestino, ora prende forma la sua idolatria per il cinema indipendente con questa pellicola, vista e rivista, proiettata sulla parete alla sua sinistra.
Tragici suoni gutturali emessi schizzano da una laringe distorta, cali istantanei di estensione vocale seguono il volume rimbalzante dello stereo, alzato e abbassato solo a causa delle lamentele dei vicini, con buona pace di un’anziana signora decaduta che abita al piano inferiore, un’insegnante di piano vecchia scuola patita di Schubert e dell’idealismo romantico tedesco, con una passione non dichiarata per Karl Marx … Sandra su un testo di Ibsen, Tutto il Teatro 2εŧ 3, un’edizione del 1973, libri comprati anni addietro ad una bancarella di usato, sfoglia Un nemico del Popolo, a voce alta, declamante, PETRA: “Allora avevi ragione tu”, per poi ammettere, con una breve conclusione da lì a poco, sempre a voce alta, che il suo favore va per Strindberg perché “più crudele e per i suoi legami nietzschiani”.
Sandra aveva una considerazione ondivaga e autodistruttiva di se stessa, nociva per l’immagine che proiettava all’esterno, soprattutto verso quel complesso di individui che componevano e rappresentavano la culla sociale, in cui era nata e coltivata nei suoi primi anni di vita, una tronfia e mai doma borghesia che faceva di regole non scritte ma sussurrate nei pettegolezzi dei caffè e dei confessionali delle chiese di quartiere, tramandate con un insulso refrain – questo è così, quell’altro no, questo deve essere, il proprio modo di perpetuarsi.
Lei definiva tutto ciò come “un’estenuante macchinazione risalente nel tempo, un’ostinata coazione a ripetere inaccettabile, inutile e di marcata impronta fascista”, amava chiosare.
“Silenzi mossi nell’infatuazioni” era un brano da lei composto ed eseguito al flauto traverso. Inciso su una cassetta a nastro di 60 minuti, era fondamentalmente un esperimento sensorio che poggiava su i suoi studi di classica, oramai stravolti ed annacquati, e su certe declinazioni sonore della Plastic Ono Band.
Riuscì a farselo pubblicare da un’etichetta minore, la Massive Sound Records.
Uscì su un 45 giri. Mi ricordo il suo stato di esaltazione quando lo vide in un paio di piccoli negozi di dischi, messo tra le novità del mese.
Come si può ben immaginare le vendite non furono clamorose e per questo decise di abbandonare la via della musica per concentrarsi sulla recitazione.
Fuori faceva freddo e le notti non erano neanche più stellate. Quella volta ebbe un principio di assideramento. La presi in braccio da quella panchina e la portai al pronto soccorso. Il risultato di quella sua sbandata avventura fu una lunga e debilitante polmonite, che stentava a passare a causa della reiterata assunzione di sostanze psicotrope e alcool. Fu quindi ricoverata d’urgenza. Passarono quasi tre mesi prima che potesse uscire dal reparto di pneumologia.
C’ero solo io, fuori dall’ospedale. La caricai in macchina e mi disse che l’unica cosa che voleva fare era un lungo ed interminabile viaggio e aggiunse “forse l’ultimo”.
Nei mesi a seguire mi arrivarono cartoline e lunghe lettere a firma S. (Sandra, ovviamente) spedite da New Orleans.
Affermava con parole eccitate e sovraccariche, di aver trovato il posto dove stabilirsi, vivere e prosperare.
Da quello che so, si mosse anche da lì e partì per l’ovest.
L’ultima cartolina riportava uno scorcio di Corpus Christi, Texas.
Il suo corpo senza vita fu ritrovato qualche giorno dopo, in un letto di una camera di un motel di Matamoros, in Messico.




PARLANDO DI JAROLD




La sua storia, il suo blocco, il suo ferma fogli ossidato, i fogli che usa e riusa negli anni, Jarold ha scelto gli uomini per il suo gusto, per il suo piacere, per la sua emozionale weltanschauung e dalla Georgia è arrivato qui a New Orleans anche se ha vissuto attraverso il Paese, New York, California, dove ha pubblicato i suoi unici due libri, ha oltrepassato il mezzo secolo di età, nel suo aspetto è molto curato, ogni sera prima di dormire deve andare al Flanagan’s, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, a bersi due scotch & soda con delle fette sottili di lime ed ha un modo tutto suo di gustarlo che è intriso nei suoi occhi grigi e quando gli chiedo avido della sua storia viene fuori un bambino un quarto cherokee e tre quarti americano ed una mappa tracciata nei suoi fogli, dove la sera prima mi ha scritto un suo brano di gentile accoglienza e di buon auspicio per il mio viaggio, la mia vita – lo stile gentile di Jarold è inimitabile – e ha disegnato tre rettangoli affiancati e ha scritto da sinistra a destra Mississippi-Alabama-Georgia e dopo su ognuno di questi rettangoli ha piazzato una grossa calcata K così formando l’acronimo del Ku Klux Klan come un grande guanto ferrato che governa e opprime i tre Stati.
Parlando di Jarold … il piccolo Jarold Cowey va nella sua scuola dove tutti sono bianchi purosangue, immacolati WASP e lui ha una mamma mezza cherokee e quegli che gli stanno attorno oltre ad incappucciarsi di bianco quando fa buio, non lo possono accettare perché a lui non piacciono le bambine e si è preso una cotta per un compagno della squadra di basketball della scuola di Bloomingdale nella contea di Chatham e Jarold desidera quel ragazzo robusto dai capelli ricci e neri che gli fa pensare alle statue di bronzo dell’antica Grecia che ha appena visto sul libro di storia ma deve fermarsi qui, a qualche desiderio inesaudibile ed a qualche erezione di nascosto e allo struggimento d’animo per quel ragazzo e quando è a cena a tavola con suo padre, i due fratelli e le due sorelle, il padre sbatte ferocemente i pugni sul tavolo e gli chiede a cosa diavolo sta pensando e che cosa deve fare con lui oltre a spezzarsi la schiena tutto il santo giorno nei campi e correre su e giù con il trattore per dare da mangiare alla sua famiglia, Jarold risponde stavo solo avendo una piccola dorata visione e lo dice in modo terribilmente dolce ed audace e il padre non può sopportarlo così si alza in piedi e gli urla di filare dritto a letto se non vuole una ripassata del suo rovescio o della sua cinta e Jarold si alza da tavola e dice al padre di non arrabbiarsi ma non riesce a schivare un colpo sul sedere che il padre gli riserva, Jarold continua a camminare e fa le scale di corsa mentre la sorellina Amy Lou piange per lui guardando nel piatto, occhi bassi, dicendo non è giusto e la madre Amy Lee dice Harold sai che è un buon ragazzo e Dio ne è testimone e il capofamiglia sta zitto, grugnendo, grattandosi, anche lui guarda dabbasso e dice che però ogni tanto il ragazzo ha bisogno di una sana raddrizzata ma non lo picchierai, non stasera s’impone Amy Lee e Harold dice no no e allora i bambini riprendono a mangiare e Amy Lou intanto con le manine sotto la tavola ha fatto una piccola polpettina di carne e pane per Jarold e se l’è messa nella tasca del suo grembiule lilla e la mamma l’ha vista e le pizzica il ginocchio e si guardano e scoppiano a ridere e allora il padre si alza, va verso un mobile della cucina, apre un’anta e prende una bottiglia di whiskey e fa un sorso lungo dalla bottiglia e bestemmia e dice al primogenito Little Frankie di andare a chiamare Jarold perché venga a finire la sua cena e che nella sua casa non si butta via il cibo sotto gli occhi e il giudizio di Nostro Signore e poi si fa un altro lungo sorso e anche Amy Lee ne chiede due dita nel bicchiere, intanto Jarold si era già messo all’opera leggendo Melville sotto le coperte con la luce fioca fantasticando di essere sotto coperta nel Pequod, sente salire le scale e per fortuna il passo non è quello del padre perché è Little Frankie che entra nella stanza e gli dice vieni a finire il pasto, esploratore e subito Jarold getta via il libro e scende e va in direzione del padre e lo abbraccia, il padre ha ancora la bottiglia di bourbon in mano ed è impietrito perché Jarold gli dice grazie papà e questi si commuove a allora a turno tutti si alzano da tavola e vanno da Jarold e Harold e si stringono in un grande tentativo di abbraccio a sette, un po’ ridendo e un po’ piangendo, sapendo che quello è solo un attimo di serena umanità e che le tempeste stanno sempre per arrivare.
Un’altra sera in casa Cowey, circa sette anni dopo.
E’ da diverso tempo che le conversazioni tra Jarold e il padre si limitano ai saluti, a frasi e a sorrisi di circostanza e ciò è successo perché oramai è evidente che il quindicenne Jarold non sia attratto dalle ragazze della sua età. A tavola il silenzio è appena intervallato dalle forchette che premono sui piatti e dai cucchiai che scavano la zuppa nelle ciotole. Negli ultimi tempi i raccolti sono magri e attorno a casa Cowey tutta la città di Bloomingdale è incendiata dalle pire del Ku Klux Klan ma stasera, a parte le notizie di pestaggi quotidiani, di ferite e mutilazioni, il fuoco è arrivato alla soglia della casa dei Cowey.
Il loro vicino, Tom Milk, un trentenne agente di commercio di convinzioni democratiche, dopo un breve viaggio di lavoro, rincasando non ha più trovato la veranda con le seggiole e il tetto rosso sopra le pareti bianche, non ha trovato niente di tutto questo.
Quando ha visto quello che ha visto è crollato sulle ginocchia e si è accasciato al suolo.
I buoni ragazzi del Klan gli avevano incendiato la casa e per essere sicuri che il messaggio fosse ancora più forte avevano sparso quintalate di sale sopra i resti carbonizzati della casa. Inoltre avevano lasciato una piccola croce ardente piantata all’inizio del vialetto che conduceva all’abitazione. Tripla K e arrivederci Tom Milk.
Al tavolo dei Cowey la tensione è insopportabile ma i due più provati sono Jarold e suo padre. Sanno entrambi che forse la prossima volta può essere il loro turno.
Non sono WASP, sangue cherokee scorre dentro ai Cowey e per di più una volta Harold ha avuto un brutto  un diverbio finito in una scazzottata con uno dei capi del Klan per via di un affare andato male. E poi c’era Jarold con la sua sessualità …
Padre e figlio sanno che se gli incappucciati prendono di mira la loro casa, Amy Lee verrà violentata, torturata e probabilmente uccisa, giusto per avere un altro trofeo, per avere un’altra tacca sui bastoni, per avere un cadavere da esporre.
Jarold ha già pronta una valigia. Sul letto il padre gli ha fatto trovare un biglietto con scritto figlio mio non ci siamo mai capiti / spero di esser stato un buon padre / buona fortuna. Entrambi sapevano che la sua partenza avrebbe diminuito il rischio di un’inevitabile tragedia e che comunque Harold Cowey avrebbe fatto di tutto per difendere la sua famiglia.
E sotto il dio minore, il dio incendiario, improvvido e ingiusto della contea di Chatham, l’animale più docile, più gentile e solitario venne sacrificato per la nuda sopravvivenza della sua famiglia.
Alla fermata dei bus di Savannah c’è un ragazzino alto, biondo, con degli occhi ghiacciati e pieni di rancore, dolore e paura che tiene nella mano destra una borsa di pelle.
Un bus argentato si ferma, il numero ottantadue con capolinea Boston.
E’ il dodici febbraio 1960 e Jarold Cowey sale a fatica su quel bus e scenderà alla fermata di New York City.




ROSARIO DE MATERA




L’epidemia di colera scoppiò quando ero ancora iscritto al primo anno della Facoltà di Antropologia e la guerra non si era fatta ancora vedere dalle nostre parti ed i morti a causa dei bombardamenti a tappeto sui civili inermi erano solo racconti di gente che veniva dalla capitale o da altre città duramente messe alla prova dal pugno fascista del generale Mendoza e delle forze invasori; tutti noi sapevamo che sarebbe stata una questione di giorni, settimane, al massimo, un paio di mesi.
Dalla torre di intonaco rosa del Municipio, sede del Partito, la Bandiera Rossa della Rivoluzione sventolava e tra le strade ci si dava del tu ed ogni persona si rivolgeva ad un’altra con il semplice e diretto epiteto di “compagno” e allora sentivi dire compagno operaio, compagno soldato, compagno studente, compagna infermiera, compagno professore, compagno musicista e così via.
Un mio vanto, e non solo mio, era quello di abitare in una città dove, nonostante la Rivoluzione avvenuta qualche anno prima, si fosse mantenuta un’Università sostanzialmente libera ed indipendente che tra i suoi gioielli aveva di sicuro l’Orchestra Sinfonica diretta dal compagno Daniel de Castilla.
Fanatico della Critica della Ragion Pura che non terminava mai di citare nelle più svariate occasioni pubbliche, era un uomo imponente, dall’aria tetra ed autoritaria che si rifletteva nella sua barba gonfia e cadente; quando dirigeva, i suoi movimenti erano statuari, diretti e gli astanti erano raccolti e fermi come in una laica preghiera di pubblica partecipazione.
Parlo di lui poiché egli fu tra le prime vittime illustri del colera.
Le cause del suo contagio credo che fossero da rinvenire in certe sue frequentazioni a cui si abbandonava dopo la fine di ogni concerto, che fosse stato quanto meno, trionfale.
Sceso dal palco, dopo aver raccolto scrosci di applausi, strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci fraterni ed interminabili congratulazioni, chiamava un compagno autista che subito lo raggiungeva con una vettura del Partito sul retro dell’Auditorium Unidad, dove De Castilla a stento sbucava attraverso una porticina di servizio.
Eccitato da qualche bicchierino di liquore bevuto in camerino, chiedeva di essere portato a Rosario de Matera, uno dei sobborghi più malfamati dell’intera città, dove i dettami della Rivoluzione erano penetrati solo parzialmente e ciò si sostanziava in una situazione, si potrebbe dire, di zona franca.
La prostituzione non avveniva più nelle case di tolleranza abolite da un’Ordinanza del Partito, ma in appartamenti privati  e ciò con la tacita approvazione dei funzionari del Partito stesso, di cui De Castilla era di sicuro uomo di spicco.
Quell’uomo che aveva diviso la sua vita tra musica e filosofia, entrambe coltivate ad altissimi livelli, trovò, il 14 ottobre 1947, in uno di quei luoghi del piacere, una morte bruciante.
Aveva diretto orchestre di mezzo mondo - Parigi, Vienna, Berlino, Londra, Milano, New York, Chicago, Mosca ed altre ancora - andando in Paesi Capitalisti ed Imperialisti che disprezzava apertamente per la loro politica e la loro struttura economica, ma di cui ammirava la tradizione musicale e culturale.
Chiedeva cachèt altissimi, spesso li otteneva a scapito di qualche suo collega ben titolato e al suo rientro nella Repubblica versava quasi integralmente il suo compenso nelle Casse del Partito, che poteva provvedere così ai bisogni impellenti dello Stato Rivoluzionario.
Aveva solennemente dichiarato che l’Europa caduta sotto il giogo del fascismo e del nazionalsocialismo era il più grande dolore e l'ineguagliabile disgrazia della sua vita; non poter più dirigere le orchestre nelle terre dei suoi compositori e dei suoi filosofi come Bach, Mozart, Beethoven, Brahms, Kant, Hegel, Rossini, Verdi,  lo tormentava, lo “dilaniava spiritualmente”, sue testuali parole.
In Italia o in Germania o in qualche altro territorio occupato dalla Forze dell’Asse, forse non l’avrebbero neanche fatto entrare e se caso mai fosse entrato clandestinamente attraverso l’aiuto di qualche compagno partigiano, al primo posto di blocco l’avrebbero fermato, catturato e fucilato all’istante.
Ben note erano le sue interviste rilasciate al Times, a Le Monde, al New York Times, in cui egli aveva reso ancor più forte e netta la sua immagine di Internazionalista Rivoluzionario, in cui spronava le popolazioni e le classi operaie di quegli Stati, dove solo poche ore prima aveva diretto un’orchestra ed incassato fior di quattrini, a sollevarsi ed ad unirsi in un Fronte Internazionale di Rivoluzione Permanente.


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