FRANK BARAMI
E’
un controsenso … prendere un aereo della linea di bandiera portoghese fare
scalo a Lisbona e arrivare al JFK per poi andare a Brooklyn per intervistare
lui, l’uomo, Frank Barami in questa situazione con il mio registratore
portatile, la macchina fotografica e diciassette rullini di pellicola in bianco
e nero, nove moleskine formato piccolo e intermedio, un centinaio di cd, i miei
libri sulla nuova poesia americana, un volume critico su Dylan, non posso far
altro che pensare a quell’impostore con la barba, convinto di essere la
reincarnazione di Dostoeveskij, il Rasputin dell’editoria del XXI secolo che mi
disse “[…] l’avrei voluto pubblicare io l’Isaia Blues, un libro straordinario,
denso, innovatore, pieno di vita, immaginifico, forse il libro che non sarò mai
capace di scrivere … ah” e ci credo brutto vecchio bastardo, ma non gli voglio
male al mio editore, è solo un altro oppositore … andare da un uomo che ha
passato gran parte della sua vita tra Roma e Milano, ma ora si trova a
Brooklyn, lui quando deve stare a New York può solo essere a Brooklyn, devo
atterrare nella terra americana sotto i migliori auspici del caso si spera,
sfuggire alla solita routine della mia vita, il giornale, le matite, le
macchine da scrivere da comprare dal rigattiere di piazza Schumann, i bar, il
Nidaba, le domeniche nei teatri, i sabati a riprendere i Karamazov, ma
quell’impostore sempre buono a prendere i soldi, uno dei massimi esponenti
dell’editoria a pagamento che si finge un mecenate, un santone … è arrivata la
telefonata per andare a sentire cos’ha da dire Frank Barami che a differenza di
Rothko non si è ucciso tagliandosi le vene in cucina.
F.
Barami, uomo sulla cinquantina, oltremodo grassoccio, barba, occhi grandi e
nascosti ma non più del naso piccolo e schiacciato come una prugna della
California, questo il profilo di F. Barami, il pittore tanto celebre negli anni
Ottanta, quando ancora appariva magro, scarno, elegante, con strabordanti
basette portate fino alla spigolosa mascella e capelli sulle spalle, adesso, in
questa foto tra le mie mani che risale al 1987 ai tempi della sua prima ed
ultima personale al Whitney, F. Barami sta in piedi guardando un’immensa tela
rosso sangue di Marcus Rothkowitz, conosciuto al secolo come Mark Rothko, colui
che ha dato un senso alla sua vita.
F.
Barami è diventato famoso, o meglio, è passato alla storia, ha attraversato
diversi paesi non senza lasciare traccia, facendo rimbalzare il suo volto, il
suo nome e le sue opere sulle pagine di cronaca pittorico-artistica dei
giornali di mezzo mondo, prima del 1987,
annus horribilis, se leggevi Warhol, Basquiat, dovevi per forza trovare sotto o
di seguito una effe maiuscola puntata e poi le tre sillabe BA-RA-MI, e allora
lo ricollegavi a quell’uomo spuntato dal nulla e che a malapena aveva frequentato
in modo saltuario e discontinuo un numero imprecisato di accademie di belle
arti, che nell’ottantaquattro, anno orwelliano, fece scoppiare una querelle
diplomatica tra l’ambasciata italiana e quella statunitense a causa di una
delle sue opere esposte alla Biennale di Venezia dove F. Barami con la sua
solita disinvoltura dichiarava l’Italia schiava degli Stati Uniti d’America.
Nel
suo nome e cognome, nella sua identità portava la verità della sua famiglia –
origine iraniana, emigrati nel nord d’Italia sul finire dell’Ottocento,
cambiatosi il cognome da Bharami in Barami, via quell’acca iraniana diceva il
nonno, di nuovo emigrati in un nuovo Paese, l’America, a seguito delle leggi
razziali del ’38, leggi italiane e fasciste a tutela e a difesa dell’italica
razza, costretti ad emigrare a causa del nomi e dei tratti somatici e del
colore della carnagione, che nella violenta ignoranza dei funzionari del fascio
costituivano elementi di comunanza con la fatidica stirpe europea.
Quando
guardavi la corporatura, il portamento e il naso vago in mezzo a quei due occhi
monumentali, persianamente monumentali, e lo guardavi anche in una foto di anni
addietro, come sto facendo io adesso, visto che tra poco dovrei incontrarlo
dopo anni che non rilascia un’intervista, capisci che Frank Barami ha vissuto
la sua vita e che è passato per le difficoltà comuni del mondo.
F.
Barami il pittore, lo scultore, lo sceneggiatore, compagno di cella di Charles
Bukowski, amico di George Harrison e nemico giurato di Andy Warhol che lui
volutamente, l’arrogante F. Barami, storpiava in Handy Whore-Hole, varie laure
honoris causa, architettura, filosofia, lettere, scienze politiche, quel F.
Barami fotografato con David Bowie, Mick Jagger e Grace Jones, sua amante,
Nelson Mandela, eticchettato di essere comunista, anarchico insurrezionali sta,
idolo dell’elettorato della sinistra italiana dopo la sua esternazione a
Venezia, F. Barami l’uomo che divide, suonatore di strumenti a corde, a fiato,
improvvisatore di painoforte, amante delle percussioni, esperto di musica ai
massimi livelli.
Arrivato
a Brooklyn trovo il mio albergo sulla Quinta Avenue e Brooklyn mi sembra il
negativo europeo di Manhattan, ma tutte le impressioni non contano dato che sto
ancora pensando al mio nemico, il Grande Inquisitore dell’editoria e a quel
monumento decaduto che è Frank Barami. Certo questo non posso dirglielo in
faccia.
L’appuntamento
è al Quarter, bel bar tra la Quinta Ave e la Ventesima, e un ingombrante
giaccone di velluto copre la schiena del mio uomo (è lui, l’ho visto già da
fuori).
“Immagino
che lei sia qui per la famosa intervista. Gliela rilascio con piacere. Mi
sembra un tipo gentile, colto. Cosa le interessa di più, il taccuino o il
bicchiere? Le ho ordinato una Miller Lite e uno shot di bourbon. Gradisce? Cosa
ne dice se parlo solo io per un’ora intera? Ma non risponda. Ora parlo io. Ci
faccia quello che vuole delle mie parole, ci sguazzi.”
F.
Barami nella barba avvolgente, nel suo ripetitivo modo di toccarsela, da tutto
si capiva che di donne ne aveva avute , ma che per lui, la “sua primavera”, la
“sua sonata”, la “sua completa e stabile sinfonia” non era mai arrivata o forse
c’era stata ma non c’era più niente da fare e mi diceva parlando di esserci
stato nei migliori decenni del Novecento, forse i migliori decenni che la
stessa umanità avesse mai sognato di poter avere.
“La
fine della guerra, la cortina di ferro sull’Europa, la potenza americana, la
protesta studentesca, il rock, il mio amico Gregory Corso, tutta quella
letteratura, quella pittura, il cinema, la fotografia, tutte cose che orami
sembrano svanite” … “Cosa mai significano questi anni Novanta! Niente di
niente, un benemerito e assoluto niente! Mi creda!” diceva intingendo i denti,
la bocca, la lingua nel bagno del Laphroaig doppio … “Lei dovrebbe farmi la sua
intervista” squadrandomi prima il naso e poi le mani che tenevano la bottiglia
di birra sorretta a metà del mio petto.
“Senta
un po’, Signor Durlov, mi perdoni il nome inventato, così al momento” ecco F.
Barami il demiurgo della cartapesta, Durlov, ma che nome era mai, Durlov, mi
avesse almeno chiamato Bloom.
“Mi
sono sempre divertito ad affibbiare nomi, nomi esilaranti, a chi mi capita
sottotiro, credo che lei conosca la storia di quello dato a Andy, Handy
Whore-Hole, per non parlare di quelli che davo ai galleresti, ai critici”
l’inopportuno F. Barami ossessionato dall’ironia sempre e comunque “Comunque,
caro signor Durlov” adesso ero diventato anche caro oltre che Durlov.
Mentre
procedeva nel suo dispiegamento di parole ed in un certo senso sembrava stesse
oracolando, la maggior parte del tempo si limitava ad alcune ripetitive smorfie
facciali che non vale la pena descrivere, poi senza motivazione alcuna, nel
mezzo di un verbo scattava con movimenti di braccia che piegavano lo spazio
davanti a lui, tirava pugni sul tavolo facendo ribaltare la vaschetta delle
noccioline o delle olive, intervenendo immediatamente se queste ruzzolavano sul
pavimento.
“Di
questo voglio parlare, signor Barami, delle sue donne”
“Potrei
non essere disponibile al momento su questo preciso argomento”
“Pochi
scherzi, vuole che dica ad alta voce all’intero bar quanto si prende per
l’intervista? Lo sa che la sua retrospettiva dipende anche da quello che
scriverò nel mio articolo. Fai il bravo, campione.”
“Lei
è insidioso, ma determinato. Cosa vuole sapere, il nostro Mailer?”
“Voglio
sapere perché negli ultimi anni non si hanno più notizie di lei e perché non si
vede più una sua opera in giro, tranne quelle che ogni morte di papa vengono
battute all’asta, perché un uomo riesca a passare da essere uno dei nomi
dell’arte mondiale …”
Barami
fece gesto di interrompermi.
“Finisca
di bere. Dopo la ospito a casa mia”.
ERICA MAARSHA
All’inevitabile
notizia della morte del padre, una morte improvvisa quanto mai liberatoria,
Erica Maarsha, fresca trentenne con una zazzera rossa coltivata con capelli
scalati, diede un’occhiata fuori dalla finestra della cucina e continuò da dove
si era interrotta prima che il telefono prendesse a squillare nervosamente,
affondando le labbra nel bordo del bicchiere, ingollando un sorso sostenuto di
Bushmills, lasciando il bicchiere vuoto tranne un misero alone giallastro sul
fondo.
Non
avrebbe dovuto dirlo a nessuno. La madre giaceva nel cimitero di Feenda da un
decennio. Nessun altro parente da avvisare, con cui condividere un pianto
straziante per il dipartito. Tuo padre è morto, Erica.
L’esperienza
da quel momento in poi di essere orfana, sola al mondo, l’affascinava. Un
ultimo sorso per non lasciare indietro niente, bicchiere finito Erica,
stavolta.
E’
facile, devo sbrigare le faccende pratiche, andare all’ospedale, riconoscerlo,
parlare con un’agenzia di pompe funebri, comprargli una bara, organizzare il
funerale, seppellirlo nella fossa già pronta accanto a mamma e dire addio papà,
così sia.
Disposto
sommariamente il piano di azioni da compiere senza tralasciare qualche
eventuale variabile, Erica Maarsha si trovava seduta al tavolo della cucina con
un bicchiere di whiskey irlandese vuoto, trent’anni appena passati, molte
recriminazioni sul suo vissuto ed un rapporto con suo padre definitivamente
fallito. Il padre se ne era andato (tuo padre è morto, Erica).
Chiamò
la sua amica Dana. Non so se essere in colpa, provo indifferenza, anzi non
provo niente.
L’amica
le fece il quadro della situazione. Con la morte di tuo padre potrai dipingere
a tempo pieno per via dell’eredità.
Non
credo che lascerò il lavoro. Almeno per adesso. Mi piace lavorare con i
ragazzi. Il futuro non lo si sa mai.
E’
inutile che continui a ripetermi che non mi capisci, fidati che è sufficiente
che mi capisca io, vuoi che venga da te? Ah c’è Dmitrij. Non mi scolo due
bottiglie, promesso. E poi comunque sono cazzi miei, è morto mio padre, che
cazzo di promesse mi fai fare.
Dieci
anni prima Dmitrij era stato il grande mancato amore di Erica. Lui voleva fare
lo scrittore lei la pittrice. Entrambi impazzivano per la musica, qualsiasi
tipo di musica e famose sono rimaste le loro apparizioni nei locali di musica
dal vivo di Feenda. Lei si arrangiava sul piano e lui con la chitarra, e spesso
si invertivano gli strumenti. La sua amica Dana tutte le volte le diceva non so
come fai a stare con un soggetto del genere poi quando è in odore di bevute
pesanti sarebbe da ricoverare ma hai visto come si riduce come fai a stare con
un uomo del genere non lo capisco. Erica le rispondeva di trovarsi un uomo.
Dana aggiungeva una cosa è sicura con uno così mai piuttosto zitella per tutta
la vita.
Dopo
due anni di convivenza due fatti piombarono nella loro vita: la morte della
madre di Erica e il successo di Dmitrij ed entrambe le cose capitarono nello
stesso momento.
Erica
cadde in una terribile depressione come Dmitrij raggiunse un costante stato di
esaltazione e qualche mese dopo si lasciarono.
Seduta
al bancone del Frida Lounge pensava a questo e a come la sua vita fosse
iniziata nel 1979 quando accadimenti di vario genere si avvicendavano sulla
scena globale, dal sequestro dell’ambasciata USA in Iran al pieno corso della
guerra fredda con le immagini di Breznev che passeggia sulla Piazza Rossa con
alle spalle missili a testata nucleare, dagli svariati festival commemorativi
di Woodstock alle trasmissioni televisive per i dieci anni dell’uomo sulla
luna.
Fino
alle tre di notte del sei dicembre del ’79 Bruno Maarsha era stato un uomo
risoluto, granitico, riuscito nel proprio intento di guadagnare denaro e la
posizione di esponente dell’alta borghesia di Feenda.
Il
matrimonio con Linda Gustavi e la nascita della primogenita – che poi rimase
l’unica e sola figlia – corredarono le sue aspirazioni di successo.
Era
uno di quegli uomini che scambiano il senso del dovere con la propria personale
visione del mondo … quel maledetto senso del dovere voleva impiantarlo a me,
solo negli ultimi anni ha capito qualcosa della vita, povero vecchio con tutti
i suoi milioni e solo.. quanto mi hanno fatto male le sue parole … ti aiuto
solo perché sei mia figlia. Dio è morto e si è portato nella tomba vicino a
mamma il senso del dovere.
Il
padre stava due metri, forse tre, sottoterra, per sempre e per sempre
significava oltre la durata dell’esistenza di Erica e oltre ancora.
Passando
davanti al colorificio guardò le tempere esposte in vetrina e alitandoci contro
scrisse non voglio dipingere più.
IL CASO BANGLI
Quando
la giuria si è avviata in modo scomposto verso casa, all’occhio del cronista di
giudiziaria Christian Chrosof è balzata la giurata n° 9, bassa, minuta, sempre
abbottonata nel suo tailleur marrone impreziosito da improbabili decorazioni
madreperla intorno alle asole.
Per
il caso del quadruplo omicidio Bangli Christian Chrosof, la penna di punta del
Vert Point, un quindicinale di irregolare distribuzione e di scarso pubblico,
era l’uomo adatto: quarantenne, oramai lontano dalle illusioni che si hanno ad
inizio carriera e dotato di fiuto per le persone e le loro storie.
Il
voto della giurata n° 9 era stato miracolosamente determinante per il verdetto
di colpevolezza: cinque a quattro e la pena di morte come premio.
Era
l’ennesimo caso dubbio a Naledo. Stavolta era più dubbio del solito.
Matubo
– per tutti era solo Matubo, intanto veniva portato nel carcere di Duban per
l’esecuzione e quando aveva sentito il responso della giuria era crollato a
terra assieme alla zia presente in aula e morta di crepacuore poco dopo per la
notizia e per l’incontrollabile dolore della perdita di Matubo, che aveva
cresciuto sin dall’infanzia dopo la morte della sorella Lisa per AIDS. Morì sul
colpo la non più giovane Haieda, perché Matubo non poteva averle detto che la
verità del Signore (Matubo era pieno d’amore per la sua zia). Per questo
morendo lui, Haieda si lasciò morire, non avendo nient’altro al mondo e non
potendo reggere una seconda morte in famiglia per di più in quel modo
(impiccagione).
Il
giornalista del Vert Point Christian Chrosof si era ripassato tutti i bar di
Naledo. Non è che qualcosa nell’intero caso Bangli non gli tornasse, fosse
stato solo quello. Venne travolto dalla morte della zia di Matubo avvenuta alla
sola pronuncia della sentenza capitale. Ne uscì intossicato dal dolore, dal
male e da tutto il resto.
Mica
si era laureato in legge per finire in quel modo, pieno di dubbi, tradito dal
sistema, totalmente bevuto ed a fare il mestiere di cronista giudiziario di una
piccola e squinternata rivista.
Che
ci fosse segregazione, persecuzione, razzismo e ingiustizia nei confronti della
popolazione di colore di Naledo era come respirare l’aria, ma il fiuto di
Christian Chrosof stavolta si era abbattuto su quella casalinga dai capelli
corvini tirati indietro sulla nuca, completamente foderata in quel tailleur
marrone chiuso con quei grossolani bottoni; il ritratto che si era fatto della
signora Rustic, vedova cinquantenne, era preciso.
In
un caso come quello Bangli il ragionevole dubbio doveva avere per forza il
sopravvento, almeno non doveva essere calpestato, soprasseduto per l’ennesima
volta.
L’accusa
non aveva nessuna prova certa, inconfutabile: solo incongruenti, inconsistenti
testimonianze indirette, che individuavano un’ ombra di un ventunenne di pelle
sicuramente scura, di media statura e corporatura. Questo e tanti altri fatti
processuali di contorno stavano conducendo il collo di Matubo al cappio.
Chrosof
si svegliò il giorno dopo assuefatto, con un leggero tremore alla mano sinistra
e con un cono di cartone contenente cibo cinese, cacciando un mezzo urlo tra il
lamento e la voglia di riscatto compose il numero di telefono del Vert Point.
Francois
ascolta, stavolta ce l’ho, lo sento. Lo so che qualche volta posso essermi
sbagliato e anche in modo imbarazzante per me, la mia carriera e per la
rivista. No. No. Solo qualche bicchiere per rischiararmi la gola e farmi vedere
le cose sotto un’altra angolazione, quella della verità. E l’ho vista. La
giurata n°9, quella del cinque a quattro, del vivi o muore, la carnefice, è
corrotta. Non ho ancora prove del suo coinvolgimento. E’ ovvio che vi sia
implicata la polizia. Lo so che ci ascoltano! Però gli ha fatto piacere quando
gli ho fatto quello straordinario articolo sulla nuova scintillante sezione
della biblioteca dell’accademia di polizia! Gli piacciono quelle cose, eh! E
gli piace anche metterlo nel culo ai neri! Stavolta li mandiamo a casa tutti!
Grazie Francois. Sì mi calmo. Va bene. Capisco. Grazie per il tuo consueto
mancato appoggio. Un vero direttore di giornale. Farai carriera. Andrai al
Post, di sicuro e in fretta. Sei un fottuto reazionario! Sai cosa faccio?
Telefono ai cari cugini del Philosophes dimanche e gli propongo l’inchiesta,
cagasotto. Ci vediamo.
Prima
di chiamare la rivista da dove solo qualche mese addietro se ne era andato per
divergenze editoriali, pensò di fare una pausa meditativa, di guardarsi allo
specchio e di provare a bere del caffè nero.
Il
suo aspetto riflesso nello specchio del bagno era quasi tollerabile, a parte lo
strano colorito che guarniva le occhiaie. Decise di non bere il caffè. Solo un
succo d’arancia. Neanche quello. Meglio acqua e ghiaccio e limone. Si mise il suo
abito verdone ed uscì con le sue matite, il quaderno per note, il registratore
portatile ed un berretto dei Boston Red Sox in testa.
Poteva
andare meglio nella vita, e invece no. Vediamo l’oggi cosa ci riserva.
Guardò
un orologio di una farmacia per strada, erano le 15.28: l’ora della verità sul
caso Bangli, quella verità che tutto il mondo aspetta. Entrò in un bar e
richiamò il Vert Point.
Pronto
sono Chrosof, allora ci sono novità? Passami comunque Francois Darla, grazie.
Lo sapevo. No non era il tipo di novità che mi aspettavo. Quindi ha confessato…
L’avranno costretto! In effetti la zia è morta e non ha nessun altro al mondo.
Sì non avrebbe avuto molto senso. Il contenuto della confessione?
Dopo
aver agganciato molto lentamente la cornetta del telefono, chiese al barista
del Frank’s una Miller ed un Paddy triplo, liscio.
Matubo
– perché tutti lo chiamavano così e basta, aveva ucciso a colpi di fucile
l’intera famiglia Bangli, nella notte mentre dormivano. Nessuno di loro fece
tempo a difendersi. Madre, padre e le due figlie.
Il
motivo: non volevano rientrare dal prestito concesso dalla zia Haieda, che non
era altro che una delle più spietate usuraie della zona.
Matubo
quella notte avrebbe voluto solo spaventarli, ma l’assunzione di metanfetamine,
crack e parecchio alcool, lo portarono a commettere gli omicidi.
Le
sei del pomeriggio di Naledo sono fatte per non passare mai e sopra le spalle
di Christian Chrosof il tempo non era più veloce. Ordinò il suo terzo giro,
ancora un’altra corsa, ed iniziò a
pensare al prossimo articolo sulla nuova esibizione di Mark Bradford. Per un
po’ avrebbe lasciato stare la giudiziaria.
DIOTI
Bertha
Vedo
Berta dopo due libri pubblicati poco venduti e dopo che mi sono messo alle
spalle anni di lavoro, di studio, di lettura,
di poca salute e di abituale aritmie cardiache, vedo Berta e adesso ho
addosso altri quindici chili. Berta è una di quelle persone che puoi chiamare
“una testa”. Fa la ricercatrice in campo scientifico, chimica farmaceutica, una
cosa che ho sempre ritenuto inutile, dannosa, priva di alcun interesse per una
persona che abbia la mia personale visione del mondo.
Ma
questo non contraddice il fatto che sia stata l’unica donna che ha sempre
saputo tenere alto il livello del discorso, tenermi testa, rispondermi,
insultarmi, fare recriminazioni, ammonirmi e dirmi che forse non ero così
intelligente come si credeva e che quando era troppo era troppo e che diventavo
intollerabile, persino osceno.
La
signorina Lukas non è una bella donna ed oltretutto si potrebbe dire di preciso
che la sera sfortunata in cui sbaglia il trucco o la mise, possa risultare non
piacevole alla vista.
Berta
Lukas è una di quelle donne represse, rabbiose, che portano l’antico grido
femminile di quella non grazia, di quel dono mancato da parte di madre natura,
che lamentano di essere rimaste a mani vuote nel giorno del redde rationem.
Credo che per quanto questa donna abbia sofferto per la mancata compiutezza
estetica, non si sia mai uccisa consapevole della contropartita divina o
casuale rappresentata dal brillante funzionamento del cervello.
Lei
che si vestiva con calze a rate e le spaccava dopo i primi passi sopra
traballanti tacchi neri e lucidi ma oramai era lontana da casa e non poteva
cambiarsi, forse anche perché non ne aveva altre, avrebbe dovuto prendere
quelle della sorellastra irrimediabilmente slanciata, magra di fianchi, con
gambe da indossatrice, Diotina Lukas, più giovane, più bella, più vincente di
lei, forse perché non aveva i soldi per comprarsi un altro paio di calze avendo
speso tutto per le prime per uscire con me di nascosto da Diotina, perché avevo
chiuso con Dioti e le sue enormi idiote bugie … spaccate le calze, Berta
arrivava da me in lacrime, con un vistoso sbrego sulla coscia sinistra,
muscolosa, robusta tanto diversa da quella setosa di Dioti.
Parlo
di cose accadute dodici anni fa. Una malconcia sera per strada urlai a Berta di
starmi lontano a vita, Berta stammi lontano a vita, minacciandola,
disprezzandola, glielo dissi in un tempo di inutile avventure.
Era
convinta, e non a torto, che volessi mettere la testa tra le gambe e non solo
mettere la testa tra la gambe della sorella di Diotina, l’altra sorellastra di
Berta, tanto per restare in famiglia tanto per proseguire nel solco dinastico.
La
risposta di Berta fu rifarsi su Diotina, deridendola a modo suo, con scatti
isterici di risa isteriche, dicendole che le avevo dimostrato in qualsiasi modo
il mio amore, prendendola più volte al giorno, in qualsiasi parte di casa mia e
persino di casa loro, di Berta, Diotina e Marta, alle volte sul letto di Berta
altre su quello di Diotina e persino su quello minore delle tre, Marta, che le
dicevo che era la mia puttana, che lei poteva prendere il mio affare nei vicoli
di notte, che l’avevamo fatto nei bagni dei bar, nei musei, nelle stazioni,
negli aeroporti, in piedi, di traverso, nella più fitta boscaglia …
Berta
le aveva detto la sua verità, che come ogni verità personale è parzialmente
vera, e per Diotina questo fu orribile, ma non quanto il venire a sapere che le
mie mire oramai si riversavano su sua sorella Marta e che non mi sarei fermato,
che avrei fatto peggio, avrei stravolto definitivamente, deturpato la finta
aurea puritana della famiglia, di quella figliolanza femminile … fatto provato
dai diari di Marta, allora sedicenne, la vera perla delle tre sorelle, la
piccola e sorprendente Marta.
Berta
aveva detto la verità e per entrambe questo fu orribile, non quanto mai il
giorno in cui ricevettero la telefonata di Crista, la loro cugina, ragazza dagli
intenti rivoluzionari, di tanto in tanto estremamente trasandata, con cui avevo
costruito, nonostante la sua opposizione, una sincera e forte intesa
intellettuale prima che fisica.
E’
stato il mio unico periodo della mia vita in cui ero veramente innamorato di
quattro donne contemporaneamente e che contemporaneamente frequentavo più o
meno segretamente, più o meno alla luce del sole.
Ciò
poteva resistere grazie ai miei gusti eterogenei, alla loro diretta ed
inesauribile soddisfazione, alla trasfigurazione ideale di queste quattro donne
in altrettanti ideali di vita, alle volte ero padre, confidente, confessore,
amico leale, compagno di passeggiate, svago prediletto, amante letterario,
erotomane da collezione, alcune volte l’una e l’altra cosa insieme.
Nei
fatti tutto era facilitato dal lavoro svolto dal padre delle tre sorelle e da
quello dello zio: diplomatici. A casa non c’erano mai. La nonna era la
precettrice delle quattro figliole e aveva grande rispetto per me, ammirazione
anche se aveva capito che c’ero io di mezzo con le abitudini mutate di Marta e
che ora Marta, la perla, non ricalcava più la parte della piccola ed ultima
pietra sacrificale per le altre due ed eventualmente per la cugina.
Nella
ottusa mentalità di mancata aristocratica questo fattore di cambiamento, questo
moto, un progredire che poi significava solo vita, andava stroncato a favore
del ripristino di quello che per un ventennio era stato il caro status quo.
Purtroppo nell’incredulità generale, persino la mia, l’anziana signora venne
colpita da un ictus cerebrale e chiuse i suoi giorni in una suntuosa casa di
cura.
Crista
Crista
Lukas, ventiquattrenne, donna ombrosa, dura, consolatrice, atea,
rivoluzionaria, violenta, antidemocratica, accentratrice, studiosa di lingue
antiche.
Crista
è minuta, un metro e sessantaquattro e senza occhiali Crista non vive perché
non vede ed inciampa e perde la sua verve autoritaria, il suo piglio guerresco
esaltato dalla nobiltà della sua fronte sempre sgombra da capelli. Frequentava
ancora la facoltà di lettere, era già entrata a far parte del corpo accademico,
quando mi mando gambe all’aria.
Io
ero al quarto anno di giurisprudenza e vivevo l’università solo come un posto
di utilità, come una fabbrica. Andavo alla statale per sostenere gli esami,
passarli e giungere verso una per niente agognata laurea, ma quando vidi per la
seconda volta Crista Lukas dall’altra parte della coorte del chiostro, con
abiti neri, i capelli tirati indietro alla perfezione, figurarsi che lo notavo
da lontano, sapevo che avrebbe fatto parte della mia vita. In qualsiasi posto
si trovasse gesticolava minutamente come a voler sottendere a grandi concetti,
modo tipico di Crista, con concentrate movenze dei gomiti morbidi, creandosi
una propria bolla di declamazione, diceva sempre “lasciami il mio spazio per
declamare” allora Crista partiva a parlare delle varie rivoluzioni studentesche
nel corso dei secoli e del rilievo dell’apporto di queste nell’ambito della
storia dell’Occidente, suo grande cruccio, l’Occidente, suo dilemma, suo personale
naufragio, perché l’Occidente era “l’innesto migliore che la storia fosse stata
in grado di fare, la fusione della cultura giudaico-ellenica-romana-germanica,
quale àncora, poi abbiamo partorito l’America guardandola con disprezzo”
citando un chansonnier italiano, Crista con i capelli biondi tinti, alcune
volte con il cerchietto nero, si truccava poco Crista Lukas che in questi anni
ha avuto un bambino che è morto poco dopo il parto e che è rimasta incinta una
seconda volta, abortendo tragicamente in un bagno di un’area di sosta
sull’autostrada, poi salvata da un camionista, altrimenti ne sarebbe uscita
dissanguata, esanime nel vero senso della parola, travolta da un aborto
volontario in quarta corsia.
Marta
“Che
ore sono?”
“
[…]”
“Lo
guardo io. Le due e quaranta. A che ora siamo andati a letto?”
“Cambia
molto? Non ne ho idea.”
“Il
sabato non riusciamo mai a dormire.”
“Puttana
di quella troia. Chissà come stanno.”
“Chi?”
“L’umanità
in genere, senza alcun tipo di specificazione.”
“Adesso
manca solo che spieghi la tua idea di letteratura alle tre di notte. Perfetto.
Anzi parlami del tuo manifesto d’ottobre, dei tuoi testi per un teatro della
parola, il tutto per sei, sette ore e dopo di che mi salti addosso. Tu o mi
derubi o ti addormenti.”
“Che
bel quadretto. Grazie brutta stronza. Potrei ammazzarti per aver detto la
verità. Lo sai vero quanti innocenti sono morti per aver detto la verità.”
“Ci
alziamo. Mangiamo? Sono le tre e dieci.”
“Ora
eccezionale per confidare le nostre voglie.”
“Sì,
quelle più segrete, inconfessabili, torbide, nascoste etc. etc. … Basta che non
mi dici che domani dobbiamo andare a mangiare dai tuoi.”
“Dirò
che sei stata male. La solita vecchia e cara crisi respiratoria di Marta Lukas.
Dove vai?”
“In
bagno cristo. Dove vuoi che vada.”
“Promettimi
che non ti perderai.”
“No.
Ti amo.”
“Anch’io
ti amo, Marta.”
Diotina
Dico
subito che a Diotina ho dedicato i miei due poco fortunati libri. Dico subito
che l’ho fatto più che per una forma di rispetto, direi per una di amore
espressivo. E voglio chiarire che Diotina ha fatto la sola cosa giusta andando
a vivere all’estero lasciando poche tracce di sé. L’ho portata io alla
frontiera ed è per questo che lo so ed è uno dei motivi per cui Berta Lukas ha
tentato di accoltellarmi in una notte di dicembre a Berlino, l’anno scorso,
atto per cui sta scontato un periodo tra le mura.
Non
so dire dove Dioti sia adesso, tanto meno con chi, cosa stia facendo. So che
quando mi viene in mente, ogni volta che vedo e parlo con sua sorella, mia
moglie, vedo lei, lei con la nostra bambina, mia e di Diotina. Un fotografo di
origini libanesi ha chiamato a casa mia forse per ringraziarmi dei miei libri
che gli ho inviato per contraccambiare alle sue pubblicazioni fotografiche sul Medio Oriente che da sette anni a questa
parte mi spedisce di continuo. Purtroppo ha risposto Marta e lui ha
riattaccato.
Poi
ha richiamato e ci ho parlato e mi ha detto che mia figlia sta bene, Rubina sta
bene. Mi ha chiesto perché non raggiungo Diotina e Rubina, mia figlia e sua
madre, ma gli ho ricordato il patto tra me e Dioti.
E
lui ha continuato. Dai vieni con Marta. Non possono stare separate a vita. Tu
devi farlo e lo sai.
Gli
ho intimato di parlare d’altro e lui mi ha chiesto come andasse la ferita della
pazza, Berta.
Mi
ha anche raccontato di aver incontrato Crista in un a conferenza a Vienna sulla
rivitalizzazione dell’esperanto e che era piuttosto andata dopo aver bevuto
mezza bottiglia di vodka.
Tipico
di Crista Joe, ho commentato.
Ci
siamo salutati.
Marta
stava lì a squadrarmi con uno sguardo di furore e di condanna.
Portami
da loro, domani. Fatti dire dove sono dal tuo amico fotografo. Richiamalo
subito. Portami da loro, domani.
L’ho
richiamato.
Joe
sono ancora io, facciamolo.
THOMAS IL MAESTRO
La
mattina era iniziata con l’inno alla tromba, uno stiracchiato soffio marziale
degno dei periodi di guerra più assurdi ed inutili che un soldato può
permettersi di incontrare quando è chiamato a compiere il proprio dovere.
Annaspavo
mentre la signorina Levar mi pungeva con un ago caldo, la signorina Levar, una
delle infermiere più disilluse del nostro essenziale ospedale da campo … dicevo
di annaspare mentre bucandomi la signorina Helena Levar non mostrava
compassione, né rimorso alcuno per aver compromesso ripetutamente la salute ed
il retto andamento delle mie facoltà cognitive con le sue pomeridiane
medicazioni.
Sentivo
i passi della capo reparto, la madre Durkeim, come va generale, la vinciamo
questa guerra?
Oh
il nostro istrione, come sta caro? La trattano bene? Procede bene il suo Musil?
Helena, il dottor Egres ha autorizzato il calmante, glielo dia, glielo dia. Mio
caro la faremo dormire bene ora.
Chiaro
madre Durkeim.
Signorina
Levar Helena! L’ho già ripresa più e più volte in merito! Ad un mio comando lei
deve rispondere con le esatte parole sì, signora madre. Glielo ripeto. Sì,
si-gno-ra madre. Ha capito adesso? Ma si ricomponga, eviti queste inutili
scenette da pianto! Si asciughi immediatamente quelle lacrime dalle guance! Se
le levi! E’ patetica!
Dopo
questa scenetta, come la chiamava la signora madre Durkeim, Helena Lavar mi
conficcò l’ennesimo ago ed iniziai subito a chiudere gli occhi e mi vedevo di
ritorno in città, finalmente lontano dalla guerra, di nuovo tra i tavoli della
biblioteca centrale dell’università tra i miei libri pronto per un concerto
sinfonico o una rappresentazione teatrale e dopo sarei andato alla taverna
Gavrash con amici o a starmene appartato a riflettere e quando nelle strade i
desideri degli uomini incappano in vicende sentimentali o assassine, io avrei
imboccato la tetra e pensosa scorciatoia per in ponte Ginsbergen,
attraversandolo di corsa sotto una falce di luna, senza che nessuno fosse
capace di emettere suoni tranne un’oscura civetta di passaggio e a qualche
decina di metri di distanza dal ponte Ginsbergen stava la casa dove abita
Domitilla Piranesi.
Come
si può dire ad un uomo che quanto ha fatto per quattro anni interi è finito,
che è stato demolito nelle macerie e che con esse è deceduto, che è stato
bombardato, vittimizzato, che ha cessato la sua implicazione con il mondo
reale, ovvero quello che sta fuori dalle mie pupille iniettate di farmaci che
non mi fanno sentire il dolore, non mi fanno ragionare, leggere, figurarsi
scrivere … risento le parole di quello che mi vendeva l’inchiostro, quel becero
di un vecchio idiota di provincia, lei pretende troppo …
Se
c’è una cosa che ho fatto nella mia vita è stato pretendere, ma certamente non
nel senso che intendeva lui, un venditore di articoli di cartoleria porta a
porta, povero diavolo, gli ero affezionato, mi ero sempre riproposto di
offrirgli un bicchiere di vino alla taverna Gavrash.
Una
mattina dovevo andare in università per assistere ad una delle ultime lezioni
di estetica ed un mio compagno di corso, una delle bestie più rare che io abbia
mai conosciuto con l’unica qualità umana di saper stare sempre zitto, mi stava
venendo in contro con fare da indemoniato, con andature scomposta, forsennata,
è chiusa, è chiusa fino a novembre, è crollata una trave!
Conoscendo
Thomas e la sua spavalderia nell’affrontare colossali bevute, volli verificare
di persona che il crollo della trave non fosse frutto della sua ebbra
immaginazione.
Per
me fu un trauma: l’intero corpo accademico riunito in assemblea fu travolto.
Va
bene Thomas andiamo a bere qualcosa. Vai alla taverna che ti raggiungo più
tardi.
Alla
parola bere Thomas stava già saltellando in direzione della taverna Gavrash ed
io stavo andando in libreria.
Giunto
a metà del vicolo Idonoff vidi una donna seduta sul ciglio del marciapiede che
si lamentava gemendo.
Signorina
tutto bene?
Io
non ho più nessuno al mondo, da oggi. E lei mio gentile giova.. la stavo
chiamando giovanotto ma vedo che lei è un signore distinto, educato e di buon
animo per soccorrere una donna disperata. Oggi ho perso il mio promesso sposo e
il mio amato padre. E lo sa che l’Europa sta per farsi guerra di nuovo, o forse
è già scoppiata e non me ne rendo conto.
Signorina
se permette l’aiuto a rialzarsi. Si aggrappi al mio braccio, alla mia spalla.
Ecco, tenga pure il mio fazzoletto.
Può
accompagnarmi fino alla porta di casa? Lì può lasciarmi.
Come
vuole.
Dopo
aver salutato quella donna, decisi di non andare in libreria e di dirigermi
direttamente alla taverna.
Thomas
rubicondo, euforico era al solito tavolo e mi attendeva con una bottiglia vuota
ed una appena iniziata, urlandomi Johannes, Johannes Maria! Sono qui, la
fortuna ci ha colpito! Stanno arrivando anche gli altri! Lo sai che sono morti
anche quel figlio di una cagna di Piranesi con il suo futuro genero? Proprio
quella coppia di omuncoli che aspirava
alla cattedra di Ulyakov!
Lo
stavo soffocando. Cercò di colpirmi, ma io gli feci sbattere la testa contro un
pilastro di legno e Thomas capì che se voleva essere ammazzato come un cane ero
pronto.
Hai
detto una cosa molto grave. Non si sputa sui morti. Ora offri da bere.
Alla
quarta bottiglia dopo un silenzio di un’ora e mezza, gli dissi che a causa di
quelle morti una donna era rimasta sola al mondo e stava disperandosi.
Scusa
Johannes ma sai come siamo noi gente di campagna, animi semplici, alle volte un
po’ rozzi.
Thomas
voleva fare il maestro nella piccola scuola del suo paese e qualche giorno fa
per lui la tromba è suonata per l’ultima volta e non è riuscito nemmeno a dirmi
una parola perché una raffica l’ha ucciso all’istante, mentre marciava verso la
trincea sud-est.
Ora
devo scrivere questo a sua madre
TRA GLI ARANCETI DI KOSMOSKOYA
Tra
gli aranceti di Kosmoskoya si avverte la distrazione dell’oceano e ci si
arresta anche se si è in movimento e ci si annienta per qualche istante … mi
hanno raccontato che molte persone di questa terra hanno preso e se ne sono
andate … da quel poco che sono qui credo che una buona e sostanziale ragione
stia nello stato dolce, depressivo, riparato delle foglie degli aranci di
Kosmoskoya mentre insospettabile la scogliera rimane lontana in attesa di uno
scossone dal vento proveniente dall’Atlantico o di un cedere delle terre mai
dome di queste zone.
In
agguato Juan sta nel suo locale con le mani pesanti, gonfie, ingrossate,
sfaldate in alcuni punti, le nocche salde, i palmi raggrinziti, segnati, palmi idioti delle mani dice Juan, che le usa
per il suo lavoro quando prende posizione dietro il bancone e ti confida di
come si consideri un prodotto dell’Atlantico e che Kosmoskoya con i suoi
aranceti sta nel sonno atlantico indisturbata come una potente dea ormai doma,
Juan che non si sofferma mai sui suoi amori, i matrimoni, le scapestrate sorelle
disperse nel continente e che anche se sta zitto è come se continuasse a
parlare della sua famiglia, della sua laurea in antropologia, di questa terra
immutata nonostante i secoli e gli uomini.
Juan
mi ha detto che il mio modo di parlare, di comportarmi, il mio essere
prevedibile, monotono come il mio essere imprevedibile, discontinuo, magari può
annoiare, stufare ma rimane qualcosa su cui riflettere visto che non ne capisce
il perché e visto che io non sia ancora totalmente convinto che la mia presenza
a Kosmoskoya sia definitiva, fissa, necessaria, ineluttabile senza bisogno di
ulteriori ripensamenti.
Così
Juan con i nervi a fior di pelle, il viso e la camicia sudati, prende
ordinazioni e appena scritte sul taccuino verde le ripete a mo’ di recita di un
salmo come quando si reca in chiesa due volte al giorno per starsene lontano
dalla gente e ha sempre da ridere su ogni cliente sia che paghi o no,
mettendosi le mani nei capelli per
metterli a posto, frugandosi nelle tasca dei pantaloni sempre in cerca di
qualcosa e quando l’ha trovata magari va sul retro della cucina ed osserva
Cecilia preparare da mangiare per gli ultimi avventori del momento, la guarda e
si fa un goccio con una smorfia sospettosa mentre lei sta facendo friggere la
pancetta e gli dice Juan mi serve il maiale, vai a comprare il maiale! e lui
annuisce grugnendo, avvitando il tappo della fiaschetta, dopo che sei stato in
chiesa vai prendere il maiale! gli ordina Cecilia e Juan si vede già appoggiato
alla colonna della selvaggia chiesa di Kosmoskoya immerso nei suoi dubbi e nel
buio, con la lista della spesa appuntata su un foglietto appallottolato e
sudicio nella mano destra, quell’angolo esistenziale che lui aveva battezzato
“il mio angolo” e che i suoi concittadini chiamavano l’angolo di Juan, dove
borbotta inveendo contro quel dio imparziale e castigatore che gli ha tolto sua
figlia e l’ha gettata tra le braccia di un uomo da lui ritenuto non all’altezza
della sua bambina e quando gli è scappato qualcosa su questa storia è perché era
al quarto o quinto bicchiere, almeno uno come te mi diceva, grazie per la stima
Juan rispondevo, dovevi conoscerla tu Briseide, non quell’anziano manigoldo,
vecchio mezzo delinquente rincoglionito, dovevi conoscerla tu, sai è una
ragazza molto graziosa, per bene, non doveva farmi questo, ma se lo incontro
quel bastardo …
Briseide
aveva scelto il suo uomo, con trenta anni più di lei e per lui se ne era andata
da Kosmoskoya, lasciando l’Atlantico, gli aranceti e Juan, che però aveva
commesso l’errore di essere testardo e violento non accettando l’amore tra sua
figlia e il suo migliore amico, quello stesso amico che pochi anni prima faceva
giocare la sua bambina al parco giochi e che da piccola Briseide chiamava zio,
e io gli ho detto vedi Juan, prendila così, prima lo chiamava zio ora marito, è
solo un nome che si dà alle cose, sono termini per qualificare un rapporto
famigliare o coniugale, da zio a marito … e quella volta Juan mi ha tirato
dietro un bicchiere, per fortuna mancandomi, e mi ha cacciato dal suo locale
urlando che mi avrebbe sparato se solo avesse avuto un fucile.
Da
quel giorno non vado più alla tavola calda ma so che ogni giorno Juan con la
sua bici raggiunge la chiesa di Kosmoskoya, va dritto alla colonna vicino
all’altare dedicato alla Vergine dei Naviganti inginocchiandosi e scagliandosi
contro il destino che gli ha rubato l’unica sua figlia, lasciandolo solo e
sbalordito.
Ma
so anche che uscendo dalla chiesa dalla chiesa si piega in un piccolo e
sofferto inchino e mentre si rialza fa una promessa.
LA DIGNITA’ DI UN UOMO
La
dignità di un uomo, la sua compostezza o il suo stare al mondo possono essere
talmente radicati che singole e solitarie situazioni possono confermarli o
demolirli … basta una parola che viene dall’esterno e che voglia rimanere parte
di noi per affiancarci come compagna mentre queste mezze pastiglie, umide,
rotte, screpolate, aggrottate, fredde sulla mia fronte, mi sono perso l’anima
l’ultimo venerdì la voce dalla radio dice, queste pastiglie che sono dei dolci
sfatti per la festa per quelle cerimonie allestite in onore della prostrazione
di un destino comune sui cui non si riesce a porre il dominio.
Di
nuovo queste pastiglie di cerone con la loro immancabile pellicola che riflette
tra la polvere, vedremo cosa si può ben fare, anche stavolta, ah mia cara
consolazione, prenderti in disparte, miseramente davanti agli altri, nei
momenti in cui ci incontriamo e ci diciamo ‘che sia lungo il canale o lungo la
costa o solamente lungo la via’, devi andare bene a me per le pazze gioie, ma
poi viene la preparazione delle battute e prima ancora la meditazione
ancestrale quindi la scrittura, e poi
con la volontà della strada si compongono, tra soddisfazioni, accenti
strabilianti ed espressioni che diano un nuovo corso alla storia.
A
fine spettacolo, quando ho solo voglia di bere, risento le mancate domande del
pubblico.
Da
quanti anni fa questo lavoro. Allora. Ha una famiglia. Come si sta in un
camerino di un circo. Che rapporto ha con le bestie. E’ pacifista. Si guadagna
bene. E’ un a vita d’agio. Quanti numeri ha fatto nella sua carriera. Sa
suonare qualche strumento. A che età ha iniziato. Pensa che la pensione sia il
prossimo passo. Quante ore prova al giorno. E alla settimana. Ma lei è sicuro
di quanto fa. Come chiude la serata uno come lei.
Domande
intelligenti, di spirito direi, a voler dir bene, ben accettate dalla mia
vocazione, vista la mia inclinazione ad inscenare, tanto più che mi viene
normale pensare adesso a quella bolla chiamata passato, per quell’uno o
quell’altro fatto, distinguere le cose buone o quelle andate bene da quelle
cattive, andate male. La mia condizione è quella di un uomo seduto, fermo,
pensante che beve il suo bicchiere di roba e con le ultime tre dita della mano sinistra
affondo la mia riconoscenza, la mia perplessità verso il livore dei contorni
del mio volto sporcati da questo specchio.
Quello
che più avverto negli ultimi anni sono le colorazioni della notte quando
costringe un vento incatenato che viene dalla ferrovia a sbattere sulle
persiane dei condomini popolari, mi sono inoltrato nelle colorazioni
imbronciate delle notte, nel suo assente e dubbioso sapere, inghiottita dalle
cadenti paludi delle palpebre, dagli zigomi fiaccati, guance mal rasate
persistono sul mio profilo come tracce di un incendio inopportuno.
In
alcune ore di buio di un cielo che si vorrebbe vedere, si addensano riflessi
dell’attività umana di questo mondo illuminati dalla corrente elettrica deviata
nelle strade e divampata in attimi nei caseggiati tumulati di mattoni, il
quieto vivere nei retrobottega perfino nei sottoscala in affitto, la vita
allegra nei gabinetti pubblici perfino nei confessionali disabitati.
E’
da tempo che la mia malmenata percezione visiva e così il mio fisico e il mio
stato mentale sono interessati a quell’impasto di pigmento accasciato sul fondo
della tinozza notturna.
Ma
veniamo a noi, quella parte di noi raccontabile, quella parte che un conoscente
qualsiasi accetterebbe e non esaminerebbe con esagerata recrudescenza, con
alterato sospetto, con un ingrato ed inaspettato senso etico del dovere verso
gli altri, i morbosi, gli afflitti, gli umiliati, i vincenti puri ed
indifendibili quando si attardano in un posto qualsiasi per estraniarsi ed accettare loro stessi.
La
mia infanzia è stata la più felice fioritura della critica della ragione, la
più seminata e continuativa divulgazione di volumi storici, filosofici,
letterari, antropologici, filologici, sociologici, la mia infanzia a
quarantasei anni di distanza, ora che posso qualificare quella distanza e
quantificarla tra le mie delusioni apparse sulla mia pelle.
La
danza dei cavalieri a cui mia moglie ha sacrificato l’esistenza e la sua
immatura maternità, il movimento continuo del suo concepimento quanto mi
ricordava mia madre con la sua irripercorribile femminilità con quella
compagnia di compositori, pianisti, pittori e dio mio, scrittori russi che
aveva in bocca, aveva sempre in testa … sulle cui parole mio padre morì con il
cappotto del nonno ed il cappello della nonna, morendo, terminando fatalmente.
Al
mio primo maestro di pianoforte dissi se ne vada non studierò mai le sue righe
parallele, tantomeno quelle staffe, quegl’abortiti tentativi di dieresi, quelle
ciglia frantumate su un foglio, quella letteratura a servizio di una spietata
algebra del sentore, dell’ispirazione al dramma, vada via con le sue
incontestabili partiture sul vivere e non cada nel solito caso del cattivo
allievo.
Per
prime le ballate di Chopin, odiavo la parola romanticismo, avevo nove anni, ma
faceva sognare ripetere mazurca e mi ridussi ad un invalido del mondo della
musica, un ritardato della partitura, un convalescente da quel tipo di
isterismo che conduce all’incapacità dei migliori talenti, frequentando senza
alcun senso la scuola e degli altri volevo farne un a polpa, mi dicevo domina i
dominabili, gente già segnata, già finita appena adolescente … sempre il mondo
diviso tra dormienti e saggi, un quid di materia cerebrale in più, o diversa.
Non era tanto che mi ero dato a quell’espressione sul viso, elaborata o causata
che fosse, cadente od accettata, tirannica o democratica, capitata e studiata,
davanti al nome di mia madre su una lastra di pietra incasellata al cimitero
comunale della città.
Un
essere umano una luce interrogatrice, mamma voleva che fosse scolpito nella
pietra, ma pensavo la stessa cosa quando veniva giù per le scale con i capelli
ricci papà sta scrivendo, andiamo mamma, andiamo giù, nascondevo il bicchiere e
l’aspettavo, sputando nel lavandino, risciacquandomi la bocca con quello che
capitava, lurido e mentitore, lurido e simulatore fino alla fine, papà!
scendeva e chiedeva, chiedeva che le raccontassi una storia.
Da
quelle scale al parlare della morte, sentirsi gli unici interpreti e sacerdoti
del corso della giornata, era lo stare sulla terra, prima che con quello sbuffo
precipitasse e chiamarla Rose, Rosie o addirittura la Nostra Nona Rosa, non
poteva salvarla, uno sbuffo di dio la sollevò e la fece crollare e non si può
stare in piedi per un dio del genere, un mauvais
démiurge.
Quando
Rosie veniva ad aprirci la porta, dopo le nostre discussioni, il nostro stare
insieme, ci saltava addosso e tutto si poteva ridurre a quello, con l’aria
piena, e poi mettevamo su Fat City di Huston e sul divano mi dicevi hai i
vestiti sporchi, mettili a lavare.
Spregiudicato,
cattivo, idiota, dopo Rose ti sei ridotto così, ma non vedi che tremi tutto, un
insetto acculturato, uno spiantato di un clown, un emerito coglione e già sono
delicata se proprio vuoi saperlo, ma prima di quello leggevamo la cronaca nera
nella notte negra e nuda ed allora mettevamo giù fantasie sulle vite degli
assassinati – dei trovati morti in poche parole dicevi o come viene più
comunemente detto da più secoli, di sicuro in svariate regioni del mondo - e
sugli assassini, e finiva a letto con la testa tra le tue gambe e mi sentivo
uomo fino in fondo, mi dicevi di abbassare Lay lady lay, ma ne avevo bisogno e
tacevo tra le tue gambe, e dopo ancora le canzoni d’amore ed odio di Cohen, ti
piegavi su quel mastodontico volume comprato per radio, mentre io dormivo
vicino alla piccola Rosie con Masqualero, quella summa dell’opera
shakespeariana, quell’immenso truffatore, io considero il mondo per quello che
è un palcoscenico dove ognuno deve recitare la propria parte, palle bastardo,
nella bibbia va scritto il ladro dovrà pagare l’indennizzo; se non avrà di che
pagare sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato, ecco una sacrosanta
verità, sarò venduto a causa del mio talento inesistente altro che il mondo un
palcoscenico, non hai fatto altro che alimentare la mia disperazione molesto
ingannatore, ma quando uno crede nei testi teatrali è difficile da fermare, da
mettere al torchio.
Ci
pregava di considerarla un estranea, una di passaggio, perché la sua vita era
fuori da quella casa e oltre noi, lontano dai nostri rovinati ed abusati
oggetti e aggeggi, un’aria sconsolata, muta con la bocca, seduta al tavolo
della cucina e tu le davi addosso, basta farti del male, basta prendere quel
veleno, riversavi su di lei, già fragile, la tua bava mentale e mi tiravi
dietro quello che ti capitava sotto tiro quando la chiamavo la mia piccola
Cosette, per te i personaggi dei libri devono essere il nostro riferimento
esistenziale eh pazzoide mi urlavi, smettila con le tue idee blateranti, con le
tue assurde costruzioni letterarie, vedi dove ci hai trascinato, e mi prendevi
a pugni sul petto chiedendo perché perché dio mio che cosa possiamo fare dio
mio ci sta morendo tra le braccia e io ti dicevo lo so, vedrai che capirà,
parlale parlale continuavi, se ascolta qualcuno, anche in minima parte, quello
sei tu.
Mi
ero ripromesso di parlarle la sera stessa, prima che arrivasse il terzo canto
del gallo, prima dell’inizio di un’agonia incontrastabile e definitiva. Non
feci a tempo.
In
questa stagione gli animali offesi non andranno a nascondersi in qualche
rifugio della foresta urbana.
Stasera
farò uno dei miei ultimi numeri e poi tornerò dalla madre di Rosie, Alva.
IN ATTESA
Ecco,
la mia faccia si è allargata in un sorriso, si è smagliata in uno squarcio, si
è ridotta a rappresentare “quello che si è” …
ho preso tutto quello che dovevo prendere e il comunque non manca mai.
Ai
cari tempi, ai tempi, l’ho fatta franca, con quel gesto ho dato un impulso
irrefrenabile.
Oggi
va di moda il 1977, anno impagliato, domani è grano da prendere a piene mani,
ma la parola per me, la parola a cui aspira uno come me, a cui elevo il mio
oltraggio, oltre cui non intendo azzardarmi, la parola è lo spazio di ogni
uomo, il proprio abomino messo in strada, in scena, un sordido mal di testa mal
recitato.
Poteva
ben finire così e ce ne erano i presupposti.
Oh,
il casellario della posta. Quel grandissimo minorato, quell’eminente nullità
che si occuperà della distribuzione della posta lungo gli inverni, lungo il
viale. Non arriva mai la domenica in certe situazioni e quando mi hanno
abbandonato, sbattendomi su questo letto di ferro, non è niente rispetto a come
ho ridotto i vestiti e la stanza di quella povera crista. Ah, gli anni …
combattere, difendersi, attaccarsi, ritirarsi, abbattere, estirpare quando se
ne ha l’opportunità. Ho compilato questa lurida traduzione, questa incompleta
trascrizione, un difficile traslitterazione da capo a piedi e dal fondo del
piede alla cima della testa per intravedere e vedere cosa ha funzionato, cosa è
stato rivelato, accertato e si è addentrato fino in fondo alla terra. Sono un
credente fervido di fervente fervore, si direbbe dopo una non accurata prima impressione.
Ora,
devo essermi perso, quando faceva freddo, con molto liquore alle more sullo
stomaco, ma non una quantità tale da giustificare l’accatastarsi di quella
serie di azioni, di quelle concrete omissioni, del fatto e non fatto, in poche
parole. Quella terrificante serie di notizie, indiscrezioni, sull’aspetto del
possibile attentatore o meglio sull’indagato, il prospettato assassino.
Uno
qualunque, si va avanti a dire nei cortili, nelle piazze, nelle automobili che
occupano i parcheggi degli ospedali, nei tragitti infami che portano migliaia
di persone sul posto di lavoro, negli specchi dei camerini dove donne fanno un
pensiero languido e lussurioso. L’essere umano è una bruttura sconfinata e
sconfinare nella bruttura dell’essere umano è un vantaggio sconfinato.
Si
crede, si punta come quel troglodita di Pascal sull’aldilà, psicopazzo che
uccide, titoli che corrono in prima pagina, ma questo non vuol dire che si
uccida, che qualcuno abbia ucciso, o che qualcuno abbia deciso di uccidere in
quel modo.
Tutte
quelle fandonie, quelle fantasticherie sugli assassini che corrono via …
Un
individuo non è che preda e depreda la preda delle sue stesse parole finali, delle sue ultime occasioni di
vita.
La
penitenziaria, l’addetta di turno, mi chiede doveva fare quella telefonata.
Immagino
che, ai limiti della mia personale convinzione, in questo genere di cose arriva
il momento in cui arrivano a prenderti, non so per portarti dove, ma a
prenderti certo che vengono.
Mi
chiedo: come si presenteranno, dichiareranno la loro appartenenza ad un corpo,
la militanza ad una corrente di pensiero piuttosto che ad un’altra, il loro
stare in società …
“
[…] donna uccisa nel proprio appartamento. Dopo lunga m..., il marito le ha
inferto il colpo di grazia.”
A
questo punto si dovrebbe dire “si attende la sua piena e spontanea
confessione.”
Morire
in un modo così silenzioso che i vicini non hanno avuto di accorgersene. Per
quattro ore sei andata avanti senza neanche respirare e gli occhi ripiegati
all’indentro come due fiori chiusi. Non è vero che i morti emanino fragranze
nauseabonde, ferine, rivoltanti. Neanche lì si può dire che sia veramente
finita, come ti piaceva quella frase rubata che torturavi dal mattino alla
sera, dal giorno che ti ho conosciuta, carnalmente conosciuta.
Ottanta
canne scure lungo il perimetro del nostro cortile, ottanta canne ingioiellata
dalla tua cura per le cose
che
abitano il mondo esterno e lo ingombrano, talvolta deliziandolo, talvolta
smembrandolo, ottanta canne scure nel nostro destino scrivevi prima della
malattia e quando te lo chiederò, per me, la farai finita.
Dolores
con le orecchia a cipolla e giù a ridere quando te lo dicevo, Dolores andante
per il guado con il corpo miracolosamente inodore, marciando verso ottanta
canne prima di un lembo di terra da cui spunterà solo una ciocca di capelli.
Come
ti piaceva Henry Lee. L’abbiamo ascoltata per tanto tempo. Ma adesso non ti
seguo subito, non ancora. Lì per lì mi ero aperto una bottiglia, ero sceso in
strada verso il commissariato di zona o la questura, quello che è.
Io,
Alberto Maria Cartazor, marito di Dolores Yoanni in Cartazor, io la ho
ammazzata, in modo determinato, cosciente, libero, intenzionale. Sono qui per
costituirmi. Fate quello che dovete.
Ti
ho lasciato un paio d’ore sole. Poi sono venuti a prenderti per portarti via
nelle loro stanze di stato.
Mi
hanno permesso di assistere a quando ti hanno messa nel forno.
Eri
in casa ma in strada c’era un odore pesante, mi sono dovuto mettere il
fazzoletto sul naso e sulla bocca ed ho dovuto premere.
Prima
di lasciare la libertà sono entrato in un bar dove non mi conoscevano e mi sono
fatto l’ultimo paio di bicchieri. Forse mi avevano visti solo passare,
probabilmente con te, mentre mi spalleggiavi ed adesso mi vedevano solo,
ubriaco, con la faccia di uno che ha appena visto la morte.
Dolores,
in bagno sono crollato aggrappandomi alla tazza e ho detto mio dio adesso che
cosa faccio, ma dopo che sono uscito dal bar ero di nuovo in strada e mi
sentivo bene ed ho sentito quello tranquillità che avevamo seguito per dieci
anni, qualcosa di decisamente sbagliato nel nostro vissuto, nelle nostre scelte
di vita si dice, a te è arrivata la malattia e ti ha ridotta a trenta chili,
anche la bara sarà più piccola, forse su misura, scherzo Dolor maior et ubi
minor lo sappiamo, una delle nostre preferite, una delle mie porche invenzioni
di parole, una delle mie esaltazioni.
Tu
hai sempre creduto in Dio e negli ultimi mesi hai confessato ho creduto
talmente tanto che ho raggiunto il livello del sospetto, ho visto, intuito
qualcosa.
Con
il passare del tempo mi perdonerà, come io ho perdonerò lui per averci portato
via nostra figlia per i suoi secondi
fini, ma quello che ha fatto con te è stato troppo.
Suicidi
e assassini quando passeranno la linea verranno con in mano il sapore
dell’oleandro, per gli altri rimarrà il dimesso canto.
Dirò
queste tue parole al giudice.
CARLOS
Quando
sono arrivato in città ero il primo dopo la rapina che aveva coinvolto guardie
a contratto a sparare controvoglia contro quelli che hanno chiamato
delinquenti, ladri, malfattori, violenti. Essendo stati attaccati, raggiunti da
pallottole, colpiti alle spalle, feriti ed alcuni tra loro abbattuti, in tal
caso Joaquin Louan, novello truffatore, classica faccia squadrata, padre di
sette figli, sposato davanti ad un ministro di dio e risposato davanti ad un
funzionario delegato dal municipio non si sa quante volte con precisione, Luan,
il solo morto tra i 'cattivi', coloro che hanno scatenato l'orrore o secondo le
voci più isolate e contraddittorie di questo scarno consesso urbano immerso nel
livore rosso degli aranceti della cittadina di Tebe, non quella contro cui si
scagliarono alcuni antichi, non quella di Eschilo e neanche un posto che Truman
Capote possa permettersi di considerare con autorevolezza, con i gradi sul
petto, e di dargli l'epiteto di 'laggiù', visto che siamo in un posto che
sembra non confinare con altro da sé e che non viene chiamato dagli abitanti
del posto 'laggiù'.
'Stupido
stupido Luan carlos Joaquin ... stupido e povero con la colla sul collo, la
cera e le ceneri in un cassetto [...]'.
Questa è solo una frazione, un'anfratto lessico della dichiarazione spontanea chiamata tale dagli ufficiali di polizia più simile ad un'esternazione in puncto mortis della vittima e non smentita dal difensore d'ufficio di Carmen Luan, sorella del crivellato defunto Joaquin Carlos, a cui fu riscontrata una notevole necrosi del tessuto epatico durante l'esecuzione dell'autopsia condotta sotto la direzione del medico legale di turno, Dottor Meckerben, autopsia detta di rito, di legge e quindi obbligatoria e a cui in nessun caso l'ingessata equipe del Dottor Meckerben si sarebbe potuta sottrarre e non si può dire che cosa provasse questa troupe medica nei confronti del loro oggetto-soggetto balzato all'onore discutibile delle cronache della cittadina di Tebe, non quella degli antichi e di come questa parte della faccenda, dell'accaduto fosse considerato criminale e se avesse un qualche diritto di essere riportato, un diritto di esistenza nel mondo della cronaca, per l'appunto.Prima di cedere all'inevitabile, Joaquin Carlos Luan parlò di buona ed ottima musica e di sua sorella e di sua madre, Donna Isabella Trista.
Questa è solo una frazione, un'anfratto lessico della dichiarazione spontanea chiamata tale dagli ufficiali di polizia più simile ad un'esternazione in puncto mortis della vittima e non smentita dal difensore d'ufficio di Carmen Luan, sorella del crivellato defunto Joaquin Carlos, a cui fu riscontrata una notevole necrosi del tessuto epatico durante l'esecuzione dell'autopsia condotta sotto la direzione del medico legale di turno, Dottor Meckerben, autopsia detta di rito, di legge e quindi obbligatoria e a cui in nessun caso l'ingessata equipe del Dottor Meckerben si sarebbe potuta sottrarre e non si può dire che cosa provasse questa troupe medica nei confronti del loro oggetto-soggetto balzato all'onore discutibile delle cronache della cittadina di Tebe, non quella degli antichi e di come questa parte della faccenda, dell'accaduto fosse considerato criminale e se avesse un qualche diritto di essere riportato, un diritto di esistenza nel mondo della cronaca, per l'appunto.Prima di cedere all'inevitabile, Joaquin Carlos Luan parlò di buona ed ottima musica e di sua sorella e di sua madre, Donna Isabella Trista.
La mascella squadrata da toro, dice la sorella
Felicia, con i gomiti appoggiati su un tavolo del commissariato di Luaca,
riproducendo con il pollice e l'indice la forma di un ferro di cavallo per
rendere l'idea della sagoma della mascella di Carlos, che dalla polizia è stato
ritrovato con la schiena curva, ricoperta di sangue tiepido e con un ghigno
fisso, di chi incontra l’inevitabile.
Aveva imparato dai piccoli criminali, aggiunge
la sorella della vittima, e giurava ogni santo giorno che mai nessuno l'avrebbe
messo tra le mani del buon creatore in quel modo, con dei colpi di pistoleros a
pagamento, dei colpi piazzati a tradimento, dietro alle spalle, non si sarebbe
fatto mettere fuori gioco così, mi creda.
Deponendo all'appuntato Ignazio Nagra, Carmen
Felicia Nuntia Luan, donna dalla forma filante, ossea, evita di piangere il
fratello.
Apprese le prime lezioni dalla zio, nel negozio
di ferramenta di famiglia, proprio in centro nella nostra cittadina, ma cosa
facesse nel retro, per ore ed ore dopo la chiusura ... Si esercitava!
Il
nottambulo della città di Tebe, quella dove è vissuto ed è morto, vede, la
concomitanza di elementi è così forte che porta a suggestioni quasi di sogno
direi, mio fratello era curvo in apparenza, andava guardato meglio, andava
seguito, la sua postura china era simulata, voleva creare di sé un'immagine che
lo potesse rendere ben distinguibile negli schedari della polizia e
riconoscibile nel più esteso e mutabile mondo del crimine.
La maggior parte del tempo la passava fantasticando su colpi milionari, i colpi della vita, millantando esperienze delinquenziali e conoscenze ed il suo raccontare lo esponeva ad evidenti esagerazioni, come quando tentava di darsi delle arie da uomo dotto con parole altisonanti, ma in realtà prigioniero di una cultura alquanto approssimata, infarcita di nomi vuoti che a malapena ricordava e che pronunciava con impaccio ed oserei dire, imbarazzo.
La maggior parte del tempo la passava fantasticando su colpi milionari, i colpi della vita, millantando esperienze delinquenziali e conoscenze ed il suo raccontare lo esponeva ad evidenti esagerazioni, come quando tentava di darsi delle arie da uomo dotto con parole altisonanti, ma in realtà prigioniero di una cultura alquanto approssimata, infarcita di nomi vuoti che a malapena ricordava e che pronunciava con impaccio ed oserei dire, imbarazzo.
Tragico
ed inutile Carlos Luan, tragico e inutile dormire, con la faccia sepolta,
un'espressione elementare, la rabbia, la fronte per dove andare, da dove
un rigagnolo di sangue si dipana verso una merda di gatto, il mio Joaquin era
troppo pensieroso, riprende Carmen, correre via dalle guardie con le spalle
lanciate nella notte di questa pletora di pistoleros contro uno solo, un solo
scassinatore, un conoscitore di serrature completamente stravolto a terra, avrà
pensato a Donna Isabella Trista Luan, Carlos steso sul pavimento che cantava
litanie del popolo, pensando di vivere in una costante tormenta di fantasmi
sulla casa... avanzi di giorni prima J.C.L. ,C.J.L. , L.C.J.
incideva prima di andarsene, morto nel 1973, stordito dalle brame di successo
nel mondo del crimine esteso e mutevole e da tutta quella musica, dedizione
culminata in acque fangose, come ebbe a dire l’inimitabile profeta.
Carlos preferiva vedere il suo cuore famoso, messo a
segno, e se era triste Joaquin si versava della tequila non senza essersi
bevuto un paio di cervezas.
LA PECCATRICE & IL SANTO SCURO
Su
un tavolo di modeste dimensioni, uno sgangherato cimelio da robivecchi, in
discesa dalle pareti della sala, le uniche dell'appartamento, è piazzata una
testa di donna appena quarantenne; lo si direbbe dai vestiti e dalle mani che
tiene ben vicine al corpo.
Un
odore di presentimento si concentra dopo una delle molte sere di lettura finite
con Mrs Dalloway e alcune epistole solamente adocchiate della Woolf.
La
donna è decisamente nervosa e tra poco l'uomo di casa, suo fratello.
Il
perché di questa visione, si chiede davanti al suo elegante tè con foglie vive
e pesanti sul fondo della tazza e davanti al suo bicchiere di vino bianco
rinvigorito almeno ogni venti minuti, il perché di Virginia Woolf nella sua giornata
ed in quel periodo di sassi di fiume nelle tasche.
I
morti, la depressione che la invoglia ad intonare una stridula strofa de il
"Ballo dei Bisonti", che prendono ad manifestarsi tra le tende
pesanti della stanza e avanzano nel soggiorno per poi sfumare con una scia
ferina quando si fa concreto quel presentimento che si tramuta in una probabile
certezza - tornerà l'uomo di casa, la promessa, con un sacchetto di carta della
libreria Gustava ed uno zaino a mano. Ora fa vacillare il bicchiere di vino tra
le labbra e le braccia, lo fa dondolare critica, ripete "quando l'ora
tarda, s'attarda e ci fa sembrare consumati".
‘Quel
sacchetto che sicuramente nasconde qualcosa’, la donna, che nel mentre allunga
le gambe, dilunga i piedi, disincancrenendoli, fingendosi partecipe di una
sequenza filmica, la donna di questa casa alla Mrs. Dolloway satura delle di
colpi di Charles Mingus, guarda la continuazione di piccole pareti spezzate da
spigoli irregolari, mal calcolati, e quelle poche pareti sono imbottite di quadri,
fatta eccezione per quella del
crocefisso, un opposto fuori posto, sistemato nell'entrata, come fosse più di
un avvertimento.
Incrociata
una matita tra le dita della mano sinistra, il cui palmo è segnato da una
striscia di tempera magenta chiaro, traccia delle linee cuneiformi, dei circhi
concentrici, delle spirali ad infinitum, e la grafite, a mano a mano che la
donna si lascia andare, scende più profondamente nel foglio sottile del
blocchetto per appunti fino a bucare una, due, poi tre pagine e quindi finendo
con il ridurle a brandelli di carta disegnata e maciullata.
Questo
procedimento liberatorio, messo a punto da lei stessa anni addietro nei tempi
della sua prima maternità, le permetteva una sorta di abbandono fisico verso
uno stato di piacere controllato in cui si imponeva di ripensare solo ai
momenti che definiva ‘quantomeno decenti’ della sua vita ‘che non erano poi
molti’.
Non
che l’auto-somministrazione di vino fosse d’impedimento al dinamismo di tal
processo psichico, ma sovente poteva accadere che se, come in questo frangente,
non fosse stata in giornata, la donna, questo tipo di donna, potesse pervenire
a spiacevoli conclusioni, come una radicale distorsione in chiave nichilista
del suo vissuto ed in particolare degli ultimi tre anni di vita.
E
se questo accadeva, si alzava dal tavolo, si metteva in doccia, gridava un paio
di non tanto celate bestemmie, si asciugava di fretta e furia, provava a
chiamare qualche amica per uscire e se non ne avesse trovato alcuna, sarebbe
andata comunque fuori, non prima di un sorso di Fundador direttamente dalla
bottiglia.
Una
volta uscita faceva quella cosa che le piaceva chiamare ‘stare per le strade’,
camminando prima di tutto, per poi acquattarsi in un tavolino di uno dei suoi
bar, prediligendo i tavolini lungo il parapetto che dava sul fiume così da
poterci appoggiare il gomito destro, dando così le spalle all’inizio del
canale, dove l’area pedonale che costeggiava su due lati il corso dell’acqua
faceva un’accentuata discesa e così lì la gente convogliava i propri passi
ammassandosi.
Dopo
avere sbuffato parecchie volte, la donna decideva di tirare fuori da una borsa
di pelle nera dai lunghi manici, un quaderno degli schizzi di medie dimensioni,
assai squinternato, dalle pagine gonfie e talvolta macchiate all’estremità;
tutto chiedendo un doppio od un triplo giro di quello che stava bevendo prima.
Iniziava
a tratteggiare abbozzi di ritratti delle persone che le stavano di fronte, o
che in un qualche modo rielaborava nella sua testa, o che forse immaginava, totalmente,
e poi nel foglio a destra – iniziava sempre un lavoro nella pagina di sinistra
– appuntava parole per non più di uno o due minuti. Chiudeva il blocco e
ritornava a casa; diversamente poteva riaprirlo e ripetere ciò che aveva fatto
per quasi una mezz’ora; altrimenti si rimetteva a ‘stare per le strade’ verso
un altro bar che l’accogliesse.
‘Gli
uomini non cambiano mai’ era una delle cose che scriveva spesso nel foglio di
destra, ma questo tipo di donna adesso è di nuovo nel soggiorno di casa sua,
l’unica stanza, e appena ha aperto la porta ha visto la schiena del fratello
mezza china sul tavolo, intenta a supportare l’attività di una frenetica
battuta a macchina.
Si
scambiano un ‘come va’ e si rispondono un ‘tutto bene’; lui le chiede se gli fa
vedere i suoi lavori, lei prende il quaderno degli schizzi, nero, e glielo
lancia sul tavolo, non prima di aver strappato un angolo di un foglio con il
mio numero di telefono.
SANDRA POULANGE
Ho
scritto poche parole nel telegramma di cordoglio per la famiglia Poulange.
Poche
parole, spero significative, anche se sono un po’ false.
Quando
la gente muore tutti si apprestano a far sembrare straordinarie vite mediocri o
perfino misere, a parlare del morto o della morta, come in questo caso, come di
un individuo dal vissuto irripetibile, eccezionale.
Ciò
è frutto di ignoranza, ipocrisia e di un certo timore che la morte suscita
negli esseri la cui sola preoccupazione sia stata vivere in un modo più arrogante,
prepotente o quanto meno approssimativo. Fino a qualche decennio fa si
utilizzava il termine superficiale per raffigurare tali situazioni.
Rimane
il fatto che questa è una caratteristica si ritrova in coloro che dipanano
quotidianamente, un ossessivo senso di appartenenza, di egoistico attaccamento
alla vita,
siano
esse persone cosiddette di successo o perfetti derelitti.
E’
un atteggiamento irrimediabile dei nostri tempi. E’ un’etichetta ben visibile,
sempre a patto che si guardi.
Vostra
figlia, Signora e Signor Poulange, per me ha significato molto di più di quello
che i fatti hanno testimoniato, molto più di quello che c’è stato tra me e
Sandra. Vi sono vicino nel dolore e se Voleste sapere altro su Vostra figlia
sarò contento di esaudirVi, nel limite delle mie capacità e della verità.
Firmato, N.
Raccontare
la verità su Sandra è qualcosa di più di quello che, i cattolici e non solo,
chiamano atto di fede. E’ un ritornare indietro di qualche anno, è un tuffo
quantomeno disperato in quello che sono stato, quello che ho fatto, quello che
ho amato e in quello che ho scritto fino a qui.
Sandra
era una delle ultime della classe. Io mi stavo appena dietro ai primi, ma
questa non aveva mai avuta nessuna importanza poiché essere primo o secondo
della classe nelle scuole medie equivale molte volte ad essere un perfetto
imbecille nella vita e perché il mio, era in sostanza, solo un atteggiamento.
Mi
sono sempre piaciute le persone sveglie, dirette, di quelle che quando c’è da
parlare parlano, quando c’è da andare vanno e da fare, fanno. Magari nel loro
modo – spesso la gente li chiama diversi, strani, imprevedibili, bisogna vedere
in quale grado di intensità si analizza lo spettro della vita.
Per
me e per Sandra o c’eri o non c’eri o si era o non si era – lo definivamo
“vivere francamente” - di questo sono sicuro, sicuro come lo sono che sia morta
a 37 anni, in una camera di un motel in Messico al confine con gli Stati Uniti.
Sono
sicuro perché il suo corpo è stato trovato e l’autopsia ha detto che è andata così.
Il
motel si chiama El Heroico, stando ai dati che ho ottenuto ed ai giornali che
ne parlavano l’altro giorno.
Sandra
acquistò la mia definitiva e completa ammirazione quando per scelta del nostro
insegnante di lettere, uomo insulso deturpato attenzioni pedofili, le fu
assegnato il ruolo di riserva della parte di Caterina nella Bisbetica Domata e
il caso la trascinò in palcoscenico la sera dell’ultima replica, quando l’altra
mia compagna di classe cadde in preda ad un improbabile malore.
Tra
il pubblico della scuole ci sarebbe stato un regista ed un critico, entrambi
attirati dal passa voce che si era fatto sulla commedia e che veniva definita
discreta dalla cronaca cittadina di uno dei maggior quotidiani del Paese.
L’attrice
ebbe un attacco di panico, punto e basta.
Sandra
era in camera ad ascoltare, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, Janis
Joplin, il suo mito per eccellenza. Una telefonata dalla scuola articolata
dalla voce del pedofilo di cui parlavo (ora sta scontando 27 anni di carcere),
la reclamava: Sandra vestiti e vieni di corsa.
Lei
venne con tutta calma. Salì sul palco. Due mesi dopo era alla scuola di arte
drammatica Paolo Grassi.
Il
mio ruolo della recita era quello di far ripetere le battute agli attori, far
da supervisore del suono e delle luci e di far, in buona parte, il buffone.
Sandra
Poulange al tavolino del bar del molo in libertà, con cinque dischi nuovi di
pacca dei Floyd, Ummagumma, Atom Heart Mother, Meddle, Obscured by Clouds e The
dark side of the moon, Sandra con le sue borse di tela piene di foglietti
sparsi dove appunta freneticamente le sue idee, le cose che ha letto – ogni
tanto scivola fuori qualche mia frase, Sandra la santa mistica impenitente e
atea come la sua carne lattiginosa, densa, gli zigomi segnati da un acne furente,
pelle lucida lì ed imbottita da trucchi pesanti, delle paste che la coprivano
dalla luce del mondo, di mattina si sveglia e si rimane a letto a leggere fino
alle quattro del pomeriggio, magari una sceneggiatura, qualche testo
sperimentale o forse solo le sue voglie matte, una volta definitivamente alzata
e retta inizia il rito del suo abbellimento davanti al tavolino dei suoi
misteri, della sua chiaroveggenza autoreferenziale, guardando le bottiglie a
terra finite la sera prima, spingendo gli occhi fuori dalla finestra mentre ha
di sicuro appena messo su Janis Joplin, Me & Bobby Mc Gee, sinceramente
sola e svuotata, in cerca di nuovi stimoli per il suo corpo, si butta fuori per
la discesa fuori dalla porta di casa con i capelli raccolti in una treccia o in
una coda di cavallo oppure impagliati sopra la nuca e davanti, sopra il naso,
neri grossi oscuranti ed avvolgenti occhiali di sole, preferiti quando piove,
Sandra imbevuta di piccole ideologie che durano il momento di una sua
espressione, il suo modo di sedersi e di mettere le mani sul ventre, il suo
modo di starti sopra come una madre di un’altra civiltà e il suo sospirare,
stare zitta, godere e raramente abbandonarsi quando sente che sta per venire e
dà forti strattoni di bacino per venire ancora più forte, più piena, lungi da
lei l’idea di sistemarsi, di ammogliarsi, di trovare una spalla o il conforto
della vita in un marito che si prenda cura di lei – io basto e avanzo, da sola
- riservata, timida, pungente, trasognata, dolcemente dissacrante quando stufa
od annoiata dal suo interlocutore di turno inizia a ruotare le dita e a
sghignazzare senza motivo, per lei è oltre che odiosa, impensabile ogni idea
vicina al mercanteggiare, detesta scendere a patti e a quanto mi risulta mai lo
ha fatto, tranne che negli ultimi giorni della sua vita.
Nella
sua stanza, con la testa mischiata in una gonfia scia di fumo, imperterrita ed
in una posa reclinata, malinconica e a tratti stralunata per i troppi bicchieri
di sherry che dalle nove del mattino sono stati versati con profonda
disinvoltura e bevuti con gusto e brama, ora che sono appena le due del
pomeriggio ed una sceneggiatura di un teatro off sta per terra
accanto al cestino, ora prende forma la sua idolatria per il cinema
indipendente con questa pellicola, vista e rivista, proiettata sulla parete
alla sua sinistra.
Tragici
suoni gutturali emessi schizzano da una laringe distorta, cali istantanei di
estensione vocale seguono il volume rimbalzante dello stereo, alzato e
abbassato solo a causa delle lamentele dei vicini, con buona pace di un’anziana
signora decaduta che abita al piano inferiore, un’insegnante di piano vecchia
scuola patita di Schubert e dell’idealismo romantico tedesco, con una passione
non dichiarata per Karl Marx … Sandra su un testo di Ibsen, Tutto il Teatro
2εŧ 3, un’edizione del 1973, libri comprati anni addietro ad una
bancarella di usato, sfoglia Un nemico del Popolo, a voce alta,
declamante, PETRA: “Allora avevi ragione tu”, per poi ammettere, con
una breve conclusione da lì a poco, sempre a voce alta, che il suo favore va
per Strindberg perché “più crudele e per i suoi legami nietzschiani”.
Sandra
aveva una considerazione ondivaga e autodistruttiva di se stessa, nociva per
l’immagine che proiettava all’esterno, soprattutto verso quel complesso di
individui che componevano e rappresentavano la culla sociale, in cui era nata e
coltivata nei suoi primi anni di vita, una tronfia e mai doma borghesia che
faceva di regole non scritte ma sussurrate nei pettegolezzi dei caffè e dei
confessionali delle chiese di quartiere, tramandate con un insulso refrain –
questo è così, quell’altro no, questo deve essere, il proprio modo di
perpetuarsi.
Lei
definiva tutto ciò come “un’estenuante macchinazione risalente nel tempo,
un’ostinata coazione a ripetere inaccettabile, inutile e di marcata impronta
fascista”, amava chiosare.
“Silenzi
mossi nell’infatuazioni” era un brano da lei composto ed eseguito al flauto
traverso. Inciso su una cassetta a nastro di 60 minuti, era fondamentalmente un
esperimento sensorio che poggiava su i suoi studi di classica, oramai stravolti
ed annacquati, e su certe declinazioni sonore della Plastic Ono Band.
Riuscì
a farselo pubblicare da un’etichetta minore, la Massive Sound Records.
Uscì
su un 45 giri. Mi ricordo il suo stato di esaltazione quando lo vide in un paio
di piccoli negozi di dischi, messo tra le novità del mese.
Come
si può ben immaginare le vendite non furono clamorose e per questo decise di
abbandonare la via della musica per concentrarsi sulla recitazione.
Fuori
faceva freddo e le notti non erano neanche più stellate. Quella volta ebbe un
principio di assideramento. La presi in braccio da quella panchina e la portai
al pronto soccorso. Il risultato di quella sua sbandata avventura fu una lunga
e debilitante polmonite, che stentava a passare a causa della reiterata
assunzione di sostanze psicotrope e alcool. Fu quindi ricoverata d’urgenza.
Passarono quasi tre mesi prima che potesse uscire dal reparto di pneumologia.
C’ero
solo io, fuori dall’ospedale. La caricai in macchina e mi disse che l’unica
cosa che voleva fare era un lungo ed interminabile viaggio e aggiunse “forse
l’ultimo”.
Nei
mesi a seguire mi arrivarono cartoline e lunghe lettere a
firma S. (Sandra, ovviamente) spedite da New Orleans.
Affermava
con parole eccitate e sovraccariche, di aver trovato il posto dove stabilirsi,
vivere e prosperare.
Da
quello che so, si mosse anche da lì e partì per l’ovest.
L’ultima
cartolina riportava uno scorcio di Corpus Christi, Texas.
Il
suo corpo senza vita fu ritrovato qualche giorno dopo, in un letto di una
camera di un motel di Matamoros, in Messico.
PARLANDO DI JAROLD
La
sua storia, il suo blocco, il suo ferma fogli ossidato, i fogli che usa e riusa
negli anni, Jarold ha scelto gli uomini per il suo gusto, per il suo piacere,
per la sua emozionale weltanschauung e dalla Georgia è arrivato qui a New
Orleans anche se ha vissuto attraverso il Paese, New York, California, dove ha
pubblicato i suoi unici due libri, ha oltrepassato il mezzo secolo di età, nel
suo aspetto è molto curato, ogni sera prima di dormire deve andare al
Flanagan’s, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, a bersi due scotch &
soda con delle fette sottili di lime ed ha un modo tutto suo di gustarlo che è
intriso nei suoi occhi grigi e quando gli chiedo avido della sua storia viene
fuori un bambino un quarto cherokee e tre quarti americano ed una mappa
tracciata nei suoi fogli, dove la sera prima mi ha scritto un suo brano di
gentile accoglienza e di buon auspicio per il mio viaggio, la mia vita – lo
stile gentile di Jarold è inimitabile – e ha disegnato tre rettangoli
affiancati e ha scritto da sinistra a destra Mississippi-Alabama-Georgia e dopo
su ognuno di questi rettangoli ha piazzato una grossa calcata K così formando
l’acronimo del Ku Klux Klan come un grande guanto ferrato che governa e opprime
i tre Stati.
Parlando
di Jarold … il piccolo Jarold Cowey va nella sua scuola dove tutti sono bianchi
purosangue, immacolati WASP e lui ha una mamma mezza cherokee e quegli che gli
stanno attorno oltre ad incappucciarsi di bianco quando fa buio, non lo possono
accettare perché a lui non piacciono le bambine e si è preso una cotta per un
compagno della squadra di basketball della scuola di Bloomingdale nella contea
di Chatham e Jarold desidera quel ragazzo robusto dai capelli ricci e neri che
gli fa pensare alle statue di bronzo dell’antica Grecia che ha appena visto sul
libro di storia ma deve fermarsi qui, a qualche desiderio inesaudibile ed a
qualche erezione di nascosto e allo struggimento d’animo per quel ragazzo e
quando è a cena a tavola con suo padre, i due fratelli e le due sorelle, il
padre sbatte ferocemente i pugni sul tavolo e gli chiede a cosa diavolo sta
pensando e che cosa deve fare con lui oltre a spezzarsi la schiena tutto il
santo giorno nei campi e correre su e giù con il trattore per dare da mangiare
alla sua famiglia, Jarold risponde stavo solo avendo una piccola dorata visione
e lo dice in modo terribilmente dolce ed audace e il padre non può sopportarlo
così si alza in piedi e gli urla di filare dritto a letto se non vuole una
ripassata del suo rovescio o della sua cinta e Jarold si alza da tavola e dice
al padre di non arrabbiarsi ma non riesce a schivare un colpo sul sedere che il
padre gli riserva, Jarold continua a camminare e fa le scale di corsa mentre la
sorellina Amy Lou piange per lui guardando nel piatto, occhi bassi, dicendo non
è giusto e la madre Amy Lee dice Harold sai che è un buon ragazzo e Dio ne è
testimone e il capofamiglia sta zitto, grugnendo, grattandosi, anche lui guarda
dabbasso e dice che però ogni tanto il ragazzo ha bisogno di una sana
raddrizzata ma non lo picchierai, non stasera s’impone Amy Lee e Harold dice no
no e allora i bambini riprendono a mangiare e Amy Lou intanto con le manine
sotto la tavola ha fatto una piccola polpettina di carne e pane per Jarold e se
l’è messa nella tasca del suo grembiule lilla e la mamma l’ha vista e le
pizzica il ginocchio e si guardano e scoppiano a ridere e allora il padre si alza,
va verso un mobile della cucina, apre un’anta e prende una bottiglia di whiskey
e fa un sorso lungo dalla bottiglia e bestemmia e dice al primogenito Little
Frankie di andare a chiamare Jarold perché venga a finire la sua cena e che
nella sua casa non si butta via il cibo sotto gli occhi e il giudizio di Nostro
Signore e poi si fa un altro lungo sorso e anche Amy Lee ne chiede due dita nel
bicchiere, intanto Jarold si era già messo all’opera leggendo Melville sotto le
coperte con la luce fioca fantasticando di essere sotto coperta nel Pequod,
sente salire le scale e per fortuna il passo non è quello del padre perché è
Little Frankie che entra nella stanza e gli dice vieni a finire il pasto,
esploratore e subito Jarold getta via il libro e scende e va in direzione del
padre e lo abbraccia, il padre ha ancora la bottiglia di bourbon in mano ed è
impietrito perché Jarold gli dice grazie papà e questi si commuove a allora a
turno tutti si alzano da tavola e vanno da Jarold e Harold e si stringono in un
grande tentativo di abbraccio a sette, un po’ ridendo e un po’ piangendo,
sapendo che quello è solo un attimo di serena umanità e che le tempeste stanno
sempre per arrivare.
Un’altra
sera in casa Cowey, circa sette anni dopo.
E’
da diverso tempo che le conversazioni tra Jarold e il padre si limitano ai
saluti, a frasi e a sorrisi di circostanza e ciò è successo perché oramai è
evidente che il quindicenne Jarold non sia attratto dalle ragazze della sua
età. A tavola il silenzio è appena intervallato dalle forchette che premono sui
piatti e dai cucchiai che scavano la zuppa nelle ciotole. Negli ultimi tempi i
raccolti sono magri e attorno a casa Cowey tutta la città di Bloomingdale è
incendiata dalle pire del Ku Klux Klan ma stasera, a parte le notizie di
pestaggi quotidiani, di ferite e mutilazioni, il fuoco è arrivato alla soglia
della casa dei Cowey.
Il
loro vicino, Tom Milk, un trentenne agente di commercio di convinzioni
democratiche, dopo un breve viaggio di lavoro, rincasando non ha più trovato la
veranda con le seggiole e il tetto rosso sopra le pareti bianche, non ha
trovato niente di tutto questo.
Quando
ha visto quello che ha visto è crollato sulle ginocchia e si è accasciato al
suolo.
I
buoni ragazzi del Klan gli avevano incendiato la casa e per essere sicuri che
il messaggio fosse ancora più forte avevano sparso quintalate di sale sopra i
resti carbonizzati della casa. Inoltre avevano lasciato una piccola croce
ardente piantata all’inizio del vialetto che conduceva all’abitazione. Tripla K
e arrivederci Tom Milk.
Al
tavolo dei Cowey la tensione è insopportabile ma i due più provati sono Jarold
e suo padre. Sanno entrambi che forse la prossima volta può essere il loro
turno.
Non
sono WASP, sangue cherokee scorre dentro ai Cowey e per di più una volta Harold
ha avuto un brutto un diverbio finito in
una scazzottata con uno dei capi del Klan per via di un affare andato male. E
poi c’era Jarold con la sua sessualità …
Padre
e figlio sanno che se gli incappucciati prendono di mira la loro casa, Amy Lee
verrà violentata, torturata e probabilmente uccisa, giusto per avere un altro
trofeo, per avere un’altra tacca sui bastoni, per avere un cadavere da esporre.
Jarold
ha già pronta una valigia. Sul letto il padre gli ha fatto trovare un biglietto
con scritto figlio mio non ci siamo mai capiti / spero di esser stato un buon
padre / buona fortuna. Entrambi sapevano che la sua partenza avrebbe diminuito
il rischio di un’inevitabile tragedia e che comunque Harold Cowey avrebbe fatto
di tutto per difendere la sua famiglia.
E
sotto il dio minore, il dio incendiario, improvvido e ingiusto della contea di
Chatham, l’animale più docile, più gentile e solitario venne sacrificato per la
nuda sopravvivenza della sua famiglia.
Alla
fermata dei bus di Savannah c’è un ragazzino alto, biondo, con degli occhi
ghiacciati e pieni di rancore, dolore e paura che tiene nella mano destra una
borsa di pelle.
Un
bus argentato si ferma, il numero ottantadue con capolinea Boston.
E’
il dodici febbraio 1960 e Jarold Cowey sale a fatica su quel bus e scenderà
alla fermata di New York City.
ROSARIO DE MATERA
L’epidemia
di colera scoppiò quando ero ancora iscritto al primo anno della Facoltà di
Antropologia e la guerra non si era fatta ancora vedere dalle nostre parti ed i
morti a causa dei bombardamenti a tappeto sui civili inermi erano solo racconti
di gente che veniva dalla capitale o da altre città duramente messe alla prova
dal pugno fascista del generale Mendoza e delle forze invasori; tutti noi
sapevamo che sarebbe stata una questione di giorni, settimane, al massimo, un
paio di mesi.
Dalla
torre di intonaco rosa del Municipio, sede del Partito, la Bandiera Rossa della
Rivoluzione sventolava e tra le strade ci si dava del tu ed ogni persona si
rivolgeva ad un’altra con il semplice e diretto epiteto di “compagno” e allora
sentivi dire compagno operaio, compagno soldato, compagno studente, compagna
infermiera, compagno professore, compagno musicista e così via.
Un
mio vanto, e non solo mio, era quello di abitare in una città dove, nonostante
la Rivoluzione avvenuta qualche anno prima, si fosse mantenuta un’Università
sostanzialmente libera ed indipendente che tra i suoi gioielli aveva di sicuro
l’Orchestra Sinfonica diretta dal compagno Daniel de Castilla.
Fanatico
della Critica della Ragion Pura che non terminava mai di citare nelle
più svariate occasioni pubbliche, era un uomo imponente, dall’aria tetra ed
autoritaria che si rifletteva nella sua barba gonfia e cadente; quando
dirigeva, i suoi movimenti erano statuari, diretti e gli astanti erano raccolti
e fermi come in una laica preghiera di pubblica partecipazione.
Parlo
di lui poiché egli fu tra le prime vittime illustri del colera.
Le
cause del suo contagio credo che fossero da rinvenire in certe sue frequentazioni
a cui si abbandonava dopo la fine di ogni concerto, che fosse stato quanto
meno, trionfale.
Sceso
dal palco, dopo aver raccolto scrosci di applausi, strette di mano, pacche
sulle spalle, abbracci fraterni ed interminabili congratulazioni, chiamava un
compagno autista che subito lo raggiungeva con una vettura del Partito sul
retro dell’Auditorium Unidad, dove De Castilla a stento sbucava attraverso una
porticina di servizio.
Eccitato
da qualche bicchierino di liquore bevuto in camerino, chiedeva di essere
portato a Rosario de Matera, uno dei sobborghi più malfamati dell’intera città,
dove i dettami della Rivoluzione erano penetrati solo parzialmente e ciò si
sostanziava in una situazione, si potrebbe dire, di zona franca.
La
prostituzione non avveniva più nelle case di tolleranza abolite da un’Ordinanza
del Partito, ma in appartamenti privati e ciò con la tacita approvazione
dei funzionari del Partito stesso, di cui De Castilla era di sicuro uomo di
spicco.
Quell’uomo
che aveva diviso la sua vita tra musica e filosofia, entrambe coltivate ad
altissimi livelli, trovò, il 14 ottobre 1947, in uno di quei luoghi del
piacere, una morte bruciante.
Aveva
diretto orchestre di mezzo mondo - Parigi, Vienna, Berlino, Londra, Milano, New
York, Chicago, Mosca ed altre ancora - andando in Paesi Capitalisti ed
Imperialisti che disprezzava apertamente per la loro politica e la loro
struttura economica, ma di cui ammirava la tradizione musicale e culturale.
Chiedeva
cachèt altissimi, spesso li otteneva a scapito di qualche suo collega ben
titolato e al suo rientro nella Repubblica versava quasi integralmente il suo
compenso nelle Casse del Partito, che poteva provvedere così ai bisogni
impellenti dello Stato Rivoluzionario.
Aveva
solennemente dichiarato che l’Europa caduta sotto il giogo del fascismo e del
nazionalsocialismo era il più grande dolore e l'ineguagliabile disgrazia della
sua vita; non poter più dirigere le orchestre nelle terre dei suoi compositori
e dei suoi filosofi come Bach, Mozart, Beethoven, Brahms, Kant, Hegel, Rossini,
Verdi, lo tormentava, lo “dilaniava spiritualmente”, sue testuali parole.
In
Italia o in Germania o in qualche altro territorio occupato dalla Forze
dell’Asse, forse non l’avrebbero neanche fatto entrare e se caso mai fosse
entrato clandestinamente attraverso l’aiuto di qualche compagno partigiano, al
primo posto di blocco l’avrebbero fermato, catturato e fucilato all’istante.
Ben
note erano le sue interviste rilasciate al Times, a Le Monde,
al New York Times, in cui egli aveva reso ancor più forte e netta la sua
immagine di Internazionalista Rivoluzionario, in cui spronava le popolazioni e
le classi operaie di quegli Stati, dove solo poche ore prima aveva diretto
un’orchestra ed incassato fior di quattrini, a sollevarsi ed ad unirsi in un
Fronte Internazionale di Rivoluzione Permanente.
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