Nella
sua stanza, con la testa mischiata in una gonfia scia di fumo, imperterrita ed
in una posa reclinata, malinconica e a tratti stralunata per i troppi bicchieri
di sherry che dalle nove del mattino sono stati versati con profonda
disinvoltura e bevuti con gusto e brama,
ora che sono appena le due del pomeriggio ed una sceneggiatura di un teatro off sta per terra accanto al cestino, ora
prende forma la sua idolatria per il cinema indipendente con questa pellicola,
vista e rivista, proiettata sulla parete alla sua sinistra.
Tragici
suoni gutturali emessi schizzano da una laringe distorta, cali istantanei di
estensione vocale seguono il volume rimbalzante dello stereo, alzato e
abbassato solo a causa delle lamentele dei vicini, con buona pace di un’anziana
signora decaduta che abita al piano inferiore, un’insegnante di piano vecchia
scuola patita di Schubert e dell’idealismo romantico tedesco, con una passione
non dichiarata per Karl Marx … Sandra su un testo di Ibsen, Tutto il Teatro 2 εŧ 3, un’edizione del 1973, libri
comprati anni addietro ad una bancarella di usato, sfoglia Un nemico del Popolo,
a voce alta, declamante, PETRA: “Allora
avevi ragione tu”, per poi ammettere, con una breve conclusione da lì a poco, sempre
a voce alta, che il suo favore va per Strindberg perché “più crudele e per i
suoi legami nietzschiani”.
Sandra
aveva una considerazione ondivaga e autodistruttiva di se stessa, nociva per l’immagine
che proiettava all’esterno, soprattutto verso quel complesso di individui che
componevano e rappresentavano la culla sociale, in cui era nata e coltivata nei
suoi primi anni di vita, una tronfia e mai doma borghesia che faceva di regole
non scritte ma sussurrate nei pettegolezzi dei caffè e dei confessionali delle
chiese di quartiere, tramandate con un insulso refrain – questo è così, quell’altro
no, questo deve essere, il proprio modo di perpetuarsi.
Lei
definiva tutto ciò come “un’estenuante macchinazione risalente nel tempo, un’ostinata
coazione a ripetere inaccettabile, inutile e di marcata impronta fascista”,
amava chiosare.
“Silenzi
mossi nell’infatuazioni” era un brano da lei composto ed eseguito al flauto
traverso. Inciso su una cassetta a nastro di 60 minuti, era fondamentalmente un
esperimento sensorio che poggiava su i suoi studi di classica, oramai stravolti
ed annacquati, e su certe declinazioni sonore della Plastic Ono Band.
Riuscì
a farselo pubblicare da un’etichetta minore, la Massive Sound Records.
Uscì
su un 45 giri. Mi ricordo il suo stato di esaltazione quando lo vide in un paio
di piccoli negozi di dischi, messo tra le novità del mese.
Come
si può ben immaginare le vendite non furono clamorose e per questo decise di
abbandonare la via della musica per concentrarsi sulla recitazione.
Fuori
faceva freddo e le notti non erano neanche più stellate. Quella volta ebbe un
principio di assideramento. La presi in braccio da quella panchina e la portai
al pronto soccorso. Il risultato di quella sua sbandata avventura fu una lunga
e debilitante polmonite, che stentava a passare a causa della reiterata
assunzione di sostanze psicotrope e alcool. Fu quindi ricoverata d’urgenza.
Passarono quasi tre mesi prima che potesse uscire dal reparto di pneumologia.
C’ero
solo io, fuori dall’ospedale. La caricai in macchina e mi disse che l’unica
cosa che voleva fare era un lungo ed interminabile viaggio e aggiunse “forse l’ultimo”.
Nei
mesi a seguire mi arrivarono cartoline e lunghe lettere a firma S. (Sandra, ovviamente) spedite da New
Orleans.
Affermava
con parole eccitate e sovraccariche, di aver trovato il posto dove stabilirsi,
vivere e prosperare.
Da
quello che so, si mosse anche da lì e partì per l’ovest.
L’ultima
cartolina riportava uno scorcio di Corpus Christi, Texas.
Il
suo corpo senza vita fu ritrovato qualche giorno dopo, in un letto di una camera
di un motel di Matamoros, in Messico.
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