sabato, febbraio 15, 2014

53 anni









“A questo racconto mancano un paio di robusti bicchieri di brandy. Lo faccia prima di mettersi a scrivere, e durante l’atto di scrivere. Poi, per carità, si può scrivere perfettamente lucidi alle cinque di mattina, ma sa … Non mi invento niente, sono parole in gran parte rubate a Graham Greene.”
Di Graham Greene, sua nipote, la prima figlia della sua terza figlia del primo matrimonio, non aveva mai letto un bel niente e nonostante questo sapeva che cosa aveva scritto, cose come storie di spionaggio eccetera.
Quella era sua nipote che andava in giro da mesi con un voluminoso e sconcertante manoscritto, una raccolta sterminata di racconti brevi.
Molti, certo, molti racconti, erano legati tra loro da un filo logico, cronologico, da un tessuto storico - l’intreccio narrativo - da un’identità tra i personaggi.
Oramai le figlie erano andate fuori casa da anni, andate.
Per un lungo tempo aveva collaborato come consulente editoriale a numerose riviste.
Riviste che uscivano settimanalmente, mensilmente, trimestralmente.
Quel lavoro, quel tipo di occupazione, terminò a causa di problemi di salute, che mai vennero chiariti in seguito.
Le tre figlie del primo matrimonio avevano fatto scelte discutibili, su tutta la linea.
Così pure le altre due dal secondo. Al terzo matrimonio non volle figli e non li fece.
Dai diciassette anni in poi era cresciuta con un’immagine mitica che raffigurava giovani intellettuali chiusi e costipati all’interno dei café di Parigi intenti a leggere “L’essere e il nulla” per giornate o per una vita intera.
Collocava tutto questo attorno alla fine degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta. Al fosco quadretto - giovani con barbe scure ed occhiali tondi, intenti a leggere Sartre, giovani non meglio identificati, magari sedicenti intellettuali di sinistra, ma senza un soldo né una professione, né alcun talento per la scrittura e la filosofia, intrappolati in quelle pagine per anni, non capendone una riga - andava aggiunto che faceva parte dell’uso corrente dire che ogni stagione aveva  il suo libro, che si trattasse di l’essere e il nulla, sulla strada, pasto nudo, il libro delle guardie rosse e anche che c’erano libri più complicati di altri, ma avere quel libro in mano, il libro del momento, il libro di una generazione intera, era un segno, era un tuo modo di essere ed era un messaggio che davi all’esterno (guarda io sono questa cosa, appartengo a questo).
Camminava per casa, come al solito, ed ammetteva che molti lo facevano per posa, per costume, per convenienza e per essere, inconsciamente, convenzionali.
Le persone non sono altro che animali: chi è diverso dal gruppo in cui nasce e tende per natura verso altri ambiti, verso altri ambienti, classi sociali, verrà ridicolizzato, allontanato, preso in odio dal nucleo di appartenenza e apprezzato, accarezzato da quello di approdo. Ma non sarà mai parte di loro, non sarà mai parte di quest’ultimo. Al massimo sarà un adottato.
Ma ai figli adottati non si riservano le attenzioni e gli onori dei figli della propria carne.
E’ l’istinto, non la ragione, che domina in questi casi.
Le figlie dal primo matrimonio, nate a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, erano sposate e con figli. Nonostante le difficoltà della vita coniugale, avevano retto.
Retto, anche qui, per convenzione, per la questione del mantenimento - soldi, retto perché non avevano alternative.
I mariti erano tre idioti totali, tre nullità che lei non tollerava, figuriamoci se li rispettava.
Certo magari specchiati professionisti per la società, ma gente insopportabile, inetta, qualunquista.
Non voleva che si sedessero alla sua tavola. E non fece mai la nonna con i nipoti di quella tornata di matrimonio.
Dalla seconda unione, stavolta solo civile e senza chiesa, erano nate ancora figlie femmine. Due.
Il marito era un uomo diverso, opposto a quello precedente.
E non era questione di lavoro, ricchezza: era una questione di umanità, intelligenza, di visione.
Solo che con le visioni non ci fai la vita di tutti i giorni.
In questo caso erano due gemelle, quelle nate, le due figlie.
La cosa che la stupiva, quella mattina intorno alle undici, prima di ingerire la solita dose di pillole prescritte, era come le due gemelle fossero identiche. Identiche sotto ogni aspetto, sia fisico che mentale. 
Stesse esperienze, stesso modo di pensare e parlare, stessi voti a scuola, stesse misure di seno, stesso gusto nei vestiti, stessa voglia di avere rapporti sessuali in coppia.
Sapeva benissimo cosa capitava in quella camera da letto, al primo piano, tra di loro, appena potevano.
Per sopportarlo scendeva nel seminterrato e scompariva. Quando tornava era stravolta, o almeno voleva sembrare stravolta, in faccia (gonfia, capelli spettinati).
Guardando la scatola decorata di biscotti danesi regalati da un nipote del primo matrimonio, uno di quelli che non voleva vedere, guardava nel vuoto e nelle pieghe del tavolo di legno.
Più di una volta aveva lanciato la tazza di tè o la bottiglia di tequila contro il muro.
Calcolava quanti libri non aveva letto e che avrebbe dovuto leggere nei prossimi giorni, iniziando da quelli sugli scaffali dello scantinato.
Quello che la distruggeva era come non era riuscita nel creare le sue vere opere d’arte, le sue due figlie.
Le prime tre se le perdonava. Era l’uomo sbagliato, era stata una stupida.
Ma dopo no, dopo aveva capito, lui era quello che aveva sempre cercato.
Quando nacquero le due gemelle lentigginose, lui divenne un uomo completamente diverso.
Cercò un lavoro stabile, smise di creare le sue scatole come lui le chiamava ispirandosi a Cornell, smise di scrivere, di suonare e tutto il resto.
Smise di uscire, di non ritornare a casa e di comprare decine di cartoni di birra alla settimana (almeno prima usciva, beveva, non tornava a casa per qualche giorno, ma la faceva contenta, le portava fiori, scritti, profumi, la prendeva a ripetizione in ogni modo).
Sono nate loro, e lui si è fatto assumere, ed ha iniziato a fare carriera in modo impressionante.
Era diventato il portavoce del proprietario di uno dei più importanti gruppi di telecomunicazione  al mondo. Assegni a  sette cifre.
Nel primo matrimonio fu lei ad andarsene, nel secondo fu l’opposto.
Le sue due bambine, quelle a cui teneva di più, un giorno sparirono, o per dirla meglio, svanirono.
Lei se lo aspettava.
Seppe che si  trasferirono a Los Angeles per lavorare nel campo della moda e della fotografia.
Poi non seppe più niente.
Poco tempo dopo, lasciata sola, conobbe il suo terzo marito, un vedovo, molto più giovane di lei. Anche se lui non era il suo terzo marito legalmente parlando. Lo era di fatto.
Si erano conosciuti a teatro.
Lei doveva fare una recensione della prima piéce di un ennesimo drammaturgo che debuttava. Ed era lui che aveva scritto la piéce, un esordiente drammaturgo vedovo.
Dopo lo spettacolo andarono dritti in un bar e ci rimasero fino alla chiusura.
Parlarono e si conobbero.
Lei gli disse: ora ti dico tutta la verità su di me, se ti va e ti sta bene.
Questo a lui stava bene.
"Finalmente una donna che dice tutta la verità, tutta e subito. Per arrivare a questi punti, per giungere a tali determinazioni, ci vuole un vissuto, un'esperienza tale che ti faccia sbilanciare da una parte o dall'altra. Incomincia a raccontare." 
Dopo che lui terminò di dirle queste parole lei si convinse che non avrebbe potuto chiedere di meglio che lui,  a 53 anni.





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