domenica, luglio 28, 2013

Linda


Ho sempre pensato fosse meglio giocare su più tavoli, forse per il solo fatto di pensare e di realizzare di dividere, parcellizzare il rischio.
Sono qui in un bagno di un residence di Berlino, probabilmente costruito negli ottanta, i ruggenti ottanta di Strehler e Craxi a Milano, del cd. socialismo liquido, e sto per chiamare mio padre, il grande industriale della chimica, l’uomo da duecentocinquanta milioni.
Tutte le volte che dovevo alzare il telefono e fare quella sequenza di numeri che composti mi mettevano in contatto con la sua voce autorevole, ficcante, dura e composta in ogni frangente, ricordavo con disdegno e dolore una nostra conversazione o forse la nostra conversazione, quella in cui i nostri due mondi si scontrarono ed esplosero, frantumandosi, annientandosi a vicenda e non si sarebbero mai più riavvicinati.
- Papà io sono un regista e voglio fare il regista.
- Bene ti manderemo da quel medico dei matti, tanto in casa c’è già qualcuno che ci va, giusto? Quello che ha lo studio in vincenzo monti, almeno una volta nella tua misera vita avessi dimostrato il tuo interessamento agli affari, alle cose di famiglia, per non parlare della tua virilità, fatti una moglie e dammi almeno un erede degno del nostro nome!
- Papà non ti è mai passato per quel cervello del cazzo che morirai, magari anche a breve? E già che ci siamo affrontiamo pure il capitolo mia sorella ovvero tua figlia, la lesbica.
A quel punto mio padre era sull’orlo di un infarto. Mi ricordo il suo respiro nel telefono. Probabilmente stava sudando. Avrà allentato il nodo della cravatta da cinquecento euro e avrà chiamato l’interno della sua assistente personale giusto per il gusto di insultarla e accanirsi su di lei per dare sfogo al crollo delle sue granitiche ed inscalfibili idee, idee teutoniche da vero capitano d’industria, poggianti sulla sua fede incrollabile nel mercato, sulla sua arcigna convinzione che tutto è comprabile e vendibile nella vita, perché tutto è business e il denaro deve correre, deve girare più in fretta possibile e deve farlo nel maggior numero di mani possibili perché nella catena della trasmissione del denaro arriva un punto in cui esso passa per le mani dell’uomo giusto, uno come lui ad esempio, ed è allora, è lì che il denaro assurge al rango di capitale e il capitale si trasforma in lavoro e il lavoro finisce nelle tasche di quell’uomo capace sotto forma di ritorno d’investimento composto da capitale di rientro e margine di profitto, il cd. utile e questo cd. utile costituisce ricchezza aggiunta e la ricchezza è denaro spendibile, è l’unica linfa vitale che tiene insieme gli uomini, le società, gli Stati, le Nazioni, è il collante unico e supremo, quello su cui si innestano e si propagano le valute monetarie del mondo che sono il titolo legale di miliardi di transizioni quotidiane, miliardi di operazioni di debito e credito e queste sono le vite delle persone, sono la cifra degli individui ed ogni uomo ha la sua.
Questo è a grandi linee un discorso che mi fece quando avevo sette anni e credo che adesso, mentre magari sta firmando un contratto d’acquisizione di un terreno da lottizzare e cementificare oppure mentre sta chiacchierando affabilmente lungo le buche del golf club di Monza con un armagnac del ’72, queste cose lo stiano sorreggendo,
Sto preparando con un giornale del posto, il Transoceanic Language, una rivista specializzata di cinema e arti visive in generale che si propone di fare da trait d’union tra Europa e Stati Uniti, un lungo e contrastato footage sulle città di confine tra il Texas e la Louisiana.
Faremo una proiezione in un locale vicino ad Alexander Platz, ci aspettiamo un centinaio di persone, niente di più.
Adesso devo chiamare mio padre e devo dirle di Linda, mia sorella. Non ho scelta, devo farlo.

- Ciao, sono io.
- Sì, dimmi. Fai in fretta che ho telefonata sotto.
- Ascolta, vado dritto al punto.
- Sbrigati.
- Linda.
- Linda cosa?
- L’ha fatto. Un’altra volta.
- Ha fatto cosa? No,non quello, spero …
- Sì, hai capito bene.
- Ma non era lì con te a Berlino?
- Sì, ma io non posso controllarla 24 ore su 24.
- Come l’ha fatto stavolta?
- E’ un mese e rotto che va avanti a crack. L’ha trovata Elsa. la sua compagna di adesso.
- Come?
- Taglio longitudinale delle vene del solo braccio sinistro. L’ha presa per un pelo.
- Ora dov’è?
- In ospedale, sott’osservazione continua. Non è in pericolo di vita. Sto andando lì.
- Hai bisogno di soldi?
- No, ho tutto. Ti chiamo quando esco di là
- Ok.
- Non dire niente a mamma. Ci parlo io quando ho sistemato tutto.
- Chiamami.
- Sì certo. Ciao.
- Ciao.

Mia sorella era in un ospedale a Mitte. Era in una stanza con altre due ragazze.
Credo che grosso modo stessero nelle sue condizioni perché le facce delle persone fuori dalla porta, parenti o conoscenti che appoggiavano la fronte al vetro che faceva da finestra sulla stanza e che la sbattevano con frequenza di un vecchio e tramortito gong, erano devastate.
Era arrivata a quattro. Quattro tentativi di suicidio in trentotto anni di vita.
Di sicuro c’è chi ha fatto di peggio, c’è chi ce l’ha fatta al primo colpo. Strike, scacco matto, nessun diritto di replica e tanti saluti.
Elsa mi è venuta incontro e mi abbracciato, disperata.
Grazie Elsa, le ho detto.
Io non ce la faccio più, non so più cosa fare. E si è messa a piangere.
Vai pure a casa. Ci sto io qui.
Va bene, torno in serata.
Oramai non mi chiedevo più il perché, e sinceramente non so se me lo fossi mai chiesto le altre volte.
Linda era una rinnegata, era quello che Artaud chiamava il suicidato della società a proposito di Van Gogh.
Lei non ce l’ha mai fatta a venirne fuori, come ho fatto io, anche se io ho avuto i miei bei scompensi.
Non c’è l’ha mai fatta ad uscire da quel meccanismo di quel tipo di società borghese per cui o se uno di loro o sei sputato fuori e vieni messo in un ossario.
Tu devi fare le loro cose, devi fare i loro studi, devi avere un lavoro rispettato, devi vestirti come loro, devi avere una bella macchina, due o tre suntuose belle seconde case, una bella moglie, qualche bel figlio, un pingue conto in banca, devi votare per chi difende i tuoi interessi economici non importa che sia giusto o sbagliato, devi andare nei soliti locali per essere notato o nei posti per potersi frequentare e praticare la maldicenza, devi essere iscritto al tennis club, al golf club per imbastire affari, devi donare risibili somme all’associazione volontaristica che aiuta i bambini del Mozambico, devi andare a messa, devi sposarti in chiesa, devi avere il televisore di ultima generazione, devi andare nell’hotel extra-lusso della Micronesia, devi viaggiare in business, non devi mai dare confidenza al prossimo perché è lui il vero potenziale pericolo, l’altro, il diverso.
Linda, in questo contesto che vive di una sua propria linfa propagatrice della stessa menzogna in cui è immersa e di cui è imbevuta ed avvelenata, era il diverso per antonomasia, era il suicidato della società par excellence.
Seconda erede di uno dei più importanti gruppi dell’industria chimica del Paese, secondogenita di una delle famiglie più influenti del Nord Italia, dopo che il figlio, cioè io, aveva scelto un’altra vita, tutto era ricaduto su di lei.
Si era trovata a fare una facoltà in cui non aveva il minimo interesse e che frequentava a malapena, e proprio in quegl’anni era oramai chiaro, almeno a me e mia madre, la sua chiara e definita inclinazione sessuale: le piacevano gli individui del suo stesso sesso, si masturbava pensando alle sue amiche non agli uomini.
Il disagio era enorme. Continui problemi di peso, andava su e giù come un palloncino gonfiabile.
La risposta a tutto ciò, per farla breve, fu la droga. E quando la droga non le bastò più, o forse l’aveva gettata in uno stato di disperazione incontrollabile o forse le aveva reso tutto più chiaro, ovviamente in modo tossico, fece il passo verso la grande mietitrice.
Ultimamente si era trasferita a Berlino, ed io con quel lavoro sul confine tra il Texas e la Louisiana, sarei stato per un po’ lì in città con lei.
Quando sono arrivato a Tegel al posto suo c’era Elsa ed io ho capito subito.
Elsa non dire niente ti prego. Lei mi ha detto: mi dispiace.
Sapevo che Linda non era venuta perché era talmente fatta che non poteva neanche uscire di casa, o forse perché in modo ancora più egoistico si era appena fatta un giro in vena.
Negli ultimi anni, Linda, aveva preso una strada definita, nel senso che faceva la fotografa e che era una tossicodipendente con tendenze maniacali suicide e che era dichiaratamente omosessuale.
Nel campo della fotografia aveva avuto le sue soddisfazioni. Aveva esposto qua e là. Aveva avuto molti scatti pubblicati su riviste del settore e non, soprattutto all’estero.
Si era specializzata in due ambiti: quello delle aree industriali dismesse e quello dello delle manifestazioni per i diritti dei LGBT.
E aveva avuto un discreto successo, diversamente da me, nonostante lei ripeteva ossessivamente che la mia arte rispetto alla sua era più vera, più forte, più diretta, più immaginifica e che lei aveva a malapena un decimo della mia impronta, della mia visione del mondo, della mia cultura.
Sono solo una dilettante di passaggio, diceva e rideva.
Le ribattevo che non era affatto vero.
A Berlino sono venuto perché, oltre al lungometraggio su quelle terre paludose e maledette – confine Texas-Louisiana - c’eravamo detti, io e Linda, di fare un lavoro assieme.
Secondo me sarebbe stato grandioso.
Volevamo fare un giro delle periferie delle città dell’Europa dell’Est, e filmare e fotografare.
No so quando si risveglierà e come.







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