Ho
sempre pensato fosse meglio giocare su più tavoli, forse per il solo fatto di
pensare e di realizzare di dividere, parcellizzare il rischio.
Sono
qui in un bagno di un residence di Berlino, probabilmente costruito negli
ottanta, i ruggenti ottanta di Strehler e Craxi a Milano, del cd. socialismo
liquido, e sto per chiamare mio padre, il grande industriale della chimica, l’uomo
da duecentocinquanta milioni.
Tutte
le volte che dovevo alzare il telefono e fare quella sequenza di numeri che
composti mi mettevano in contatto con la sua voce autorevole, ficcante, dura e
composta in ogni frangente, ricordavo con disdegno e dolore una nostra
conversazione o forse la nostra conversazione, quella in cui i nostri due mondi
si scontrarono ed esplosero, frantumandosi, annientandosi a vicenda e non si sarebbero
mai più riavvicinati.
- Papà
io sono un regista e voglio fare il regista.
- Bene
ti manderemo da quel medico dei matti, tanto in casa c’è già qualcuno che ci
va, giusto? Quello che ha lo studio in vincenzo monti, almeno una volta nella
tua misera vita avessi dimostrato il tuo interessamento agli affari, alle cose
di famiglia, per non parlare della tua virilità, fatti una moglie e dammi
almeno un erede degno del nostro nome!
- Papà
non ti è mai passato per quel cervello del cazzo che morirai, magari anche a
breve? E già che ci siamo affrontiamo pure il capitolo mia sorella ovvero tua
figlia, la lesbica.
A quel
punto mio padre era sull’orlo di un infarto. Mi ricordo il suo respiro nel
telefono. Probabilmente stava sudando. Avrà allentato il nodo della cravatta da
cinquecento euro e avrà chiamato l’interno della sua assistente personale
giusto per il gusto di insultarla e accanirsi su di lei per dare sfogo al
crollo delle sue granitiche ed inscalfibili idee, idee teutoniche da vero
capitano d’industria, poggianti sulla sua fede incrollabile nel mercato, sulla
sua arcigna convinzione che tutto è comprabile e vendibile nella vita, perché
tutto è business e il denaro deve correre, deve girare più in fretta possibile
e deve farlo nel maggior numero di mani possibili perché nella catena della
trasmissione del denaro arriva un punto in cui esso passa per le mani dell’uomo
giusto, uno come lui ad esempio, ed è allora, è lì che il denaro assurge al
rango di capitale e il capitale si trasforma in lavoro e il lavoro finisce
nelle tasche di quell’uomo capace sotto forma di ritorno d’investimento
composto da capitale di rientro e margine di profitto, il cd. utile e questo
cd. utile costituisce ricchezza aggiunta e la ricchezza è denaro spendibile, è
l’unica linfa vitale che tiene insieme gli uomini, le società, gli Stati, le
Nazioni, è il collante unico e supremo, quello su cui si innestano e si
propagano le valute monetarie del mondo che sono il titolo legale di miliardi
di transizioni quotidiane, miliardi di operazioni di debito e credito e queste
sono le vite delle persone, sono la cifra degli individui ed ogni uomo ha la
sua.
Questo
è a grandi linee un discorso che mi fece quando avevo sette anni e credo che
adesso, mentre magari sta firmando un contratto d’acquisizione di un terreno da
lottizzare e cementificare oppure mentre sta chiacchierando affabilmente lungo
le buche del golf club di Monza con un armagnac del ’72, queste cose lo stiano
sorreggendo,
Sto
preparando con un giornale del posto, il Transoceanic Language, una rivista
specializzata di cinema e arti visive in generale che si propone di fare da
trait d’union tra Europa e Stati Uniti, un lungo e contrastato footage sulle
città di confine tra il Texas e la Louisiana.
Faremo
una proiezione in un locale vicino ad Alexander Platz, ci aspettiamo un
centinaio di persone, niente di più.
Adesso
devo chiamare mio padre e devo dirle di Linda, mia sorella. Non ho scelta, devo
farlo.
- Ciao,
sono io.
- Sì,
dimmi. Fai in fretta che ho telefonata sotto.
-
Ascolta, vado dritto al punto.
-
Sbrigati.
-
Linda.
- Linda
cosa?
- L’ha
fatto. Un’altra volta.
- Ha
fatto cosa? No,non quello, spero …
- Sì,
hai capito bene.
- Ma
non era lì con te a Berlino?
- Sì,
ma io non posso controllarla 24 ore su 24.
- Come
l’ha fatto stavolta?
- E’ un
mese e rotto che va avanti a crack. L’ha trovata Elsa. la sua compagna di
adesso.
- Come?
-
Taglio longitudinale delle vene del solo braccio sinistro. L’ha presa per un
pelo.
- Ora
dov’è?
- In
ospedale, sott’osservazione continua. Non è in pericolo di vita. Sto andando
lì.
- Hai
bisogno di soldi?
- No,
ho tutto. Ti chiamo quando esco di là
- Ok.
- Non
dire niente a mamma. Ci parlo io quando ho sistemato tutto.
-
Chiamami.
- Sì
certo. Ciao.
- Ciao.
Mia
sorella era in un ospedale a Mitte. Era in una stanza con altre due ragazze.
Credo
che grosso modo stessero nelle sue condizioni perché le facce delle persone
fuori dalla porta, parenti o conoscenti che appoggiavano la fronte al vetro che
faceva da finestra sulla stanza e che la sbattevano con frequenza di un vecchio
e tramortito gong, erano devastate.
Era arrivata
a quattro. Quattro tentativi di suicidio in trentotto anni di vita.
Di
sicuro c’è chi ha fatto di peggio, c’è chi ce l’ha fatta al primo colpo.
Strike, scacco matto, nessun diritto di replica e tanti saluti.
Elsa mi
è venuta incontro e mi abbracciato, disperata.
Grazie
Elsa, le ho detto.
Io non
ce la faccio più, non so più cosa fare. E si è messa a piangere.
Vai
pure a casa. Ci sto io qui.
Va
bene, torno in serata.
Oramai
non mi chiedevo più il perché, e sinceramente non so se me lo fossi mai chiesto
le altre volte.
Linda
era una rinnegata, era quello che Artaud chiamava il suicidato della società a
proposito di Van Gogh.
Lei non
ce l’ha mai fatta a venirne fuori, come ho fatto io, anche se io ho avuto i
miei bei scompensi.
Non c’è
l’ha mai fatta ad uscire da quel meccanismo di quel tipo di società borghese
per cui o se uno di loro o sei sputato fuori e vieni messo in un ossario.
Tu devi
fare le loro cose, devi fare i loro studi, devi avere un lavoro rispettato, devi
vestirti come loro, devi avere una bella macchina, due o tre suntuose belle seconde
case, una bella moglie, qualche bel figlio, un pingue conto in banca, devi
votare per chi difende i tuoi interessi economici non importa che sia giusto o
sbagliato, devi andare nei soliti locali per essere notato o nei posti per potersi
frequentare e praticare la maldicenza, devi essere iscritto al tennis club, al
golf club per imbastire affari, devi donare risibili somme all’associazione
volontaristica che aiuta i bambini del Mozambico, devi andare a messa, devi
sposarti in chiesa, devi avere il televisore di ultima generazione, devi andare
nell’hotel extra-lusso della Micronesia, devi viaggiare in business, non devi mai
dare confidenza al prossimo perché è lui il vero potenziale pericolo, l’altro,
il diverso.
Linda, in
questo contesto che vive di una sua propria linfa propagatrice della stessa
menzogna in cui è immersa e di cui è imbevuta ed avvelenata, era il diverso per
antonomasia, era il suicidato della società par excellence.
Seconda
erede di uno dei più importanti gruppi dell’industria chimica del Paese,
secondogenita di una delle famiglie più influenti del Nord Italia, dopo che il
figlio, cioè io, aveva scelto un’altra vita, tutto era ricaduto su di lei.
Si era
trovata a fare una facoltà in cui non aveva il minimo interesse e che frequentava
a malapena, e proprio in quegl’anni era oramai chiaro, almeno a me e mia madre,
la sua chiara e definita inclinazione sessuale: le piacevano gli individui del
suo stesso sesso, si masturbava pensando alle sue amiche non agli uomini.
Il
disagio era enorme. Continui problemi di peso, andava su e giù come un
palloncino gonfiabile.
La
risposta a tutto ciò, per farla breve, fu la droga. E quando la droga non le
bastò più, o forse l’aveva gettata in uno stato di disperazione incontrollabile
o forse le aveva reso tutto più chiaro, ovviamente in modo tossico, fece il
passo verso la grande mietitrice.
Ultimamente
si era trasferita a Berlino, ed io con quel lavoro sul confine tra il Texas e
la Louisiana, sarei stato per un po’ lì in città con lei.
Quando
sono arrivato a Tegel al posto suo c’era Elsa ed io ho capito subito.
Elsa
non dire niente ti prego. Lei mi ha detto: mi dispiace.
Sapevo
che Linda non era venuta perché era talmente fatta che non poteva neanche
uscire di casa, o forse perché in modo ancora più egoistico si era appena fatta
un giro in vena.
Negli
ultimi anni, Linda, aveva preso una strada definita, nel senso che faceva la
fotografa e che era una tossicodipendente con tendenze maniacali suicide e che
era dichiaratamente omosessuale.
Nel
campo della fotografia aveva avuto le sue soddisfazioni. Aveva esposto qua e
là. Aveva avuto molti scatti pubblicati su riviste del settore e non,
soprattutto all’estero.
Si era
specializzata in due ambiti: quello delle aree industriali dismesse e quello
dello delle manifestazioni per i diritti dei LGBT.
E aveva
avuto un discreto successo, diversamente da me, nonostante lei ripeteva
ossessivamente che la mia arte rispetto alla sua era più vera, più forte, più
diretta, più immaginifica e che lei aveva a malapena un decimo della mia
impronta, della mia visione del mondo, della mia cultura.
Sono
solo una dilettante di passaggio, diceva e rideva.
Le
ribattevo che non era affatto vero.
A Berlino
sono venuto perché, oltre al lungometraggio su quelle terre paludose e
maledette – confine Texas-Louisiana - c’eravamo detti, io e Linda, di fare un
lavoro assieme.
Secondo
me sarebbe stato grandioso.
Volevamo
fare un giro delle periferie delle città dell’Europa dell’Est, e filmare e
fotografare.
No so
quando si risveglierà e come.
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