lunedì, novembre 10, 2014

Sceso dalla macchina





Sceso dalla macchina vide quello che mesi dopo chiamò la MATURITA’. Davanti aveva casa sua con l’anta semichiusa dell'autorimessa e al primo piano, dietro una finestra dai vetri di zolfo, la sagoma lignea e statica della moglie, imprigionata in una magrezza asettica degna di un soggetto di una tela di Hopper. Prima di scendere dalla macchina si guardò tra i piedi e vicino ai pedali dell’auto vide due scontrini e una lattina schiacciata di birra olandese: li raccolse e li mise in un sacchetto di carta marrone già pieno di altra spazzatura del viaggio. Si lanciò in una sequenza imperturbabile di bestemmie e picchiò i pugni sul volante - cristo ci siamo. Fece un verso e mise i piedi a terra ed andò ad aprire completamente la basculante lasciata in quella terra di nessuno, a mezz’asta. La moglie avrebbe potuto spalancargliela, sapeva che gli piaceva entrare dritto senza fare la minima fatica. Di solito gliela lasciava tutta aperta quando tornava dalla spesa. Ma questa volta non era andato a fare rifornimento di cibi, bevande e detersivi. Era andato a fare uno dei suoi viaggi per il suo libro, e questo a lei non importava. L’autorimessa semichiusa e la sua tetra silhouette alla Emily Dickinson ad Amherst erano il suo manifesto disappunto.
Risalito in macchina spense lo stereo che stava riproducendo le note di una registrazione di un suo amico jazzista. Era del buon materiale, degli standards reinterpretati con una Fender Telecaster leggermente distorta. Faceva molto John Scofield. C’erano poi delle rivisitazioni di E.S.P. di Miles Davis. Ascoltando quell’ora e mezza di incisione per strada aveva prestato molto attenzione alle fasi della vita del suo amico. Aveva dovuto concludere come anche il suo estro si era calmato con l’età. Era diventato un uomo pacifico, di ragione. Tutti tendono a far pace con chi si ha attorno. Almeno che non si voglia rivoluzionare.
Mise la dannata auto dentro l’involucro di mattoni e legno; prendendo la borsa nel baule della Mercedes Pagoda 280 SL verde scuro, si lanciò in un retropensiero: la rivista.
Fino a qualche mese prima aveva fatto il critico musicale militante. Un paio di decenni fitti di musica saturante, locali, musicisti, fotografi, sale fumose, camere d’albergo sfatte. Il rock era il suo primo interesse, poi venivano il blues, il jazz e la classica. Passava settimane in giro per il mondo. Andava a scovare chitarristi texani sconosciuti e li proponeva al pubblico della rivista e a qualche amico discografico. Magari avrebbe scovato un’altro Stevie Ray. Prima di fare il critico musicale aveva fatto il reporter per una piccola rivista estera e prima ancora qualsiasi tipo di lavoro pur di andare avanti. Poi una mattina o forse era un pomeriggio, lesse o gli dissero, che era morto Lou Reed. Aveva scritto un lungo articolo intitolato "Morte di Lou Reed" e l’attacco era stato: Possiamo dire che il mondo finisca qua. A quest’ora. Niente di personale, cari lettori.
Se ne andò la sera stessa. La rivista gli riconobbe una buona liquidazione, con la quale avrebbe potuto vivere bene un anno e mezzo. La sera delle dimissioni, che era quella della morte di Lou Reed, morto a migliaia di chilometri a Long Island, quando la moglie gli chiese cosa avrebbe fatto e come avrebbe pagato i conti nei prossimi mesi lui le rispose che si sarebbe dedicato ed occupato dell'arte nella sua forma più pura: la speculazione. Al che la moglie si diresse verso una bottiglia di gin Beefeater Burrough’s Reserve e se ne versò mezzo bicchiere con ghiaccio, acqua ghiacciata e limone. Bevve e disse a suo marito, testa di cazzo.
L’immagine di sua moglie con la testa alla finestra della camera del primo piano e quella tazza di tè verde tenuta tra due mani come una dimessa ancella di Apollo, gli aveva dato sui nervi: era la concreta e perfetta antitesi con ciò che lui intendeva per speculazione. Tra sé e sé la definì un’inutile apparizione freudiana. Era ancora nell’autorimessa e guardava gli scatoloni impilati che contenevano dischi e libri, e solo alcuni, dei vestiti. La disintossicazione era durata quasi più di un anno. Pochi giorni da un anno dalla morte di Lou Reed venne dimessa. Ed adesso era lì in casa, ad attenderlo.
Il peso di dover convivere con una donna che aveva tentato il suicidio attraverso un’autodistruzione pilotata e che già aveva fatto un tentativo secco ed immediato oltre vent’anni addietro, prima che lui la incontrasse, lo deprimeva.
I due si incrociarono in salone. Lui gettò le chiavi della macchina nel piatto d’argento sopra la credenza e lei si mise davanti alla televisione. Se mi dai la lista vado a fare la spesa. Se non ti dispiace vorrei venire anch’io. Bene, andiamo.

Si misero in macchina e lei gli fece notare con tono sprezzante come la Mercedes che lei gli aveva regalato fosse tenuta come una "cloaca a cielo aperto" e che avrebbero dovuto farla lavare immediatamente, oltre a far scrostare il pianale e lucidare la pelle dei sedili. Lui convenne sul fatto. Dopo aver fatto quanto detto, imboccarono l’uscita per dirigersi al supermercato. La moglie mentre buttava nel carrello salumi imbustati e pancarrè, gli chiese come stesse andando col suo libro e con le sue ricerche. Sono ad un terzo, tenendo in mano un barattolo da mezzo chilo di maionese per controllarne la scadenza. Sono sei mesi che sei ad un terzo. E tu sei convalescente. I terapeuti dicono che non devi concederti tensioni. Lo sai. Proseguirono attraverso le corsie e gli scaffali altri tre metri e lei gli chiese di raccontarle un po’ del libro. Ne parlarono fino all’ora di cena e la moglie bevendo una bevanda gassata al pompelmo e agognando un gin, gli fece i complimenti, almeno per il piano dell’opera. E’ un’opera pretenziosa. E’ un’enciclopedia del rock che conta. Già, potremmo metterla in questi termini; sei molto gentile. Andarono a letto e a letto ripresero a parlare. La settimana dopo finalmente una piccola casa editrice indipendente, erede di una ben più gloriosa che aveva fatto parte del panorama di quello che anni prima veniva chiamato l’underground, accettò il suo progetto e si dichiarò disponibile a pubblicare a costo zero e a seguirne la commercializzazione. Marito e moglie valutarono i pro e contro di quella scelta. Meglio piccoli e liberi oppure continuare a tentare con i nomi più prestigiosi dell’editoria. Optarono per un libro su misura e lui prese contatti con la casa editrice che gli aveva scritto. Il libro uscì ad aprile dell’anno dopo e le vendite nei primi tempi si fermarono a qualche centinaio. Quando le portò la copia con dedica, una dedicata a sua moglie, definita per iscritto l’amore della sua vita, lei lo guardò incredula. Teneva tra le mani un volume immaneggiabile, un trattato sul rock. Mille settecento ottantadue pagine di rock. Un tomo tolemaico degli anni duemila, apostrofò. Lui se la prese e uscii di casa. Dopo due ore che era fuori casa lei lo raggiunse dove era sicura di trovarlo: il suo american bar preferito. Lo trovò al bancone con una copia del suo libro mentre lo mostrava agli avventori e ne illustrava il contenuto. Vide che un gruppo di persone, tra cui riconobbe ex colleghi del marito ed amici di lunga data, stavano lì attorno ad ascoltare. Suo marito stava spiegando, stava parlando al suo pubblico. Tempo prima avrebbe potuto avere una reazione duplice ed alternativa: l’avrebbe affrontato e aggredito o se ne sarebbe andata, scappando. Invece si diresse vicino al bancone e prese a baciarlo. Il giorno dopo era domenica e lui era sulla sua scrivania in pelle e legno del suo studio. Quando lei le portò il caffè lo sorprese nell’atto di arrotolamento di una sigaretta di tabacco inglese. Aveva un’aria compiaciuta. Le andò in contro e la portò davanti alla finestra che dava sul giardino. Erano vicini, non stretti uno all’altra. Lei volle dirgli che era dispiaciuta per non avergli dato un figlio. Lui liquidò la cosa come vecchia e le ripeté che non ne aveva mai avuto il reale bisogno e che una donna come lei gli aveva dato altro, una maturità consapevole.





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