domenica, agosto 04, 2013

Uscita di scena



Varie tazze di caffè da mezzo, da tre quarti di litro, su tavoli con tovaglie all’americana occupati in buona parte da quotidiani irreggimentati da una staffa di legno di vecchia data, quotidiani con carta che sfrigola in mani di donne con unghie laccate da smalto oppure donne con unghie al naturale, che mentre leggono vane qualche colonna di un famoso editorialista del Paese decidono di darsi una precisa, puntuale e seria occhiata nello specchietto del porta-cipria per vedere come è il loro viso in quel momento, se compatto, turgido e statico come una venere urbana di una statua oppure sfatto, decadente, permeato da un’espressione cupa, inconsolabile e perdente, quotidiani che poi saranno piegati e riposti in un bidone di ferro a pochi metri da lì nelle cantine dello stabile, su una parete decine di fotografie di guerra stile Robert Capa e ancora di più su un’altra, disposta frontalmente, scatti alla Henri Cartier-Bresson, un contrasto voluto, un contrasto noto, una cosciente creazione di un sistema antitetico già al suo interno, motu proprio, destinato a resistere e a convivere in questa sala di un bistro di Amsterdam, il Bushmile Restaurant Café, dove in una delle sale che danno sul retro ci sono impilati dal pavimento di legno dell’inizio del secolo scorso fino al soffitto centinaia di libri usati, dei generi più svariati, si va da biografie che ricordano i campioni dello sport del passato ad improbabili titoli di fantascienza - C’è vita su Saturno?, Plutone chiama Terra, Marziani in Amazzonia, da trattati di fisica, zoologia, di mineralogia a volumi di medicina dedicati ad interventi a cuore aperto, da saggi di scienza delle finanze al Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx ed ancora qualche raccolta di estratti di romanzi dei maestri della letteratura dell’Ottocento – Hugo, Zola, Dickens, Carroll, Tolstoj, Dostoevskij.
Perché non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Solite domande di qualche mia amica.
Parigi-no-perché ci sono stato sette volte, di cui cinque a scrivere ed il risultato è stato deludente, sciatto, privo di quella spinta che ci vuole per inventare tutto da zero.
Ma anche ad Amsterdam ci sei stato più volte.
Solite amiche, che non mollano l’osso.
Perché non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Sì, cinque volte ad Amsterdam. Ma con Amsterdam ho un legame speciale.
Lì, sei anni prima, avevo scritto La rivolta nel quartiere, il secondo romanzo con cui avevo sfondato, il cui successo mi aveva fatto dimenticare le miserie del primo La foresta brucia.
La rivolta nel quartiere vendette oltre un milione di copie, avevano comprato i diritti per farne un film, anche se poi non lo fecero mai perché la casa cinematografica fallì a causa di un altro progetto faraonico che andò male e li trascinò a fondo.
Forse fu meglio così, visto che fin da subito vi furono accesi diverbi sulla loro concezione del libro e quindi del film.
Giusto per partire, volevano cambiare il titolo da La rivolta nel quartiere in Il quartiere è in rivolta, intenzione questa frutto di stupidi sondaggi che queste società fanno presso il loro campione che per lo più è composto da indomiti cinefili che conoscono a memoria la storia del cinema e con essa migliaia di film, gente che va nelle sale di proiezione almeno cinque volte a settimana e che poi di solito sono registi mancati, o peggio ancora falliti, per non palare della loro primigenia ossessione, ovvero quella di sentirsi destinati per diritto divino alla carriere recitativa.
Qui ad Amsterdam per il mio terzo libro, che deve uscire per contratto con il mio editore, entro metà settembre.
Quindi ho tre settimane, visto che la consegna è prevista per la fine della penultima di agosto.
La verità è che ho scritto La rivolta nel quartiere pensando solo ed esclusivamente al fatto di avere riscontro, di avere successo: e tutto è andato ben oltre le mie previsioni.
Interviste, mezze pagine di giornali, soldi e anche una donna, che non avevo da anni.
Sono colpevole? No che non sono colpevole.
Sono sicuro di non sentirmi colpevole?
Ho sempre negato il fondamento del senso di colpa, qualcosa di profondamente cristiano, qualcosa soprattutto di cattolico, una pura costruzione mentale afflittiva, che non ha alcun posto nel dominio della ragione. In sostanza qualcosa di illogico e che pertanto va eliso dal sistema. Spazzato via.
Se scrivessi così, se elucubrassi. Che parole importanti che so dire.
Se avessi una prosa più vicino possibile alla verità, alla vita delle persone … Invece scrivo dei prolissi romanzi storici, che poi sono profondamente antistorici, cioè delle balle spaventose, delle colossali menzogne, in cui mischio un po’ di tutto per fare piacere al mio cliente, il lettore.
Lor signori, al vostro servizio.
Che merda.
Ordino una bottiglia di whiskey irlandese.
Mi dia una bottiglia di Paddy. Ho visto che l’avete.
Mi scusi ho capito bene, signore?
Sì, le confermo quanto appena detto.
Arriva subito signore.
Sono le undici di mattina.
Io non sono un bevitore di roba pesante. O meglio non lo sono più. A tratti.
Ora ho una voglia sfrenata di bere. Oggi è una giornata di svolta.
O inizio a scrivere un’altra menzogna o non la scrivo del tutto e mi scolo la bottiglia intera e dopo sto in giro. Cose tipo pub, coffee shop, vetrine illuminate da una luce impolverata di sudore, e molta roba da bere.
Ho scritto una cosa sul blocchetto blu. Quando uno può dire con se stesso di essere veramente uno scrittore?
Io lo sono. Sì. Perché lo dicono gli altri.
Dio esiste? Sì. Perché lo dicono gli altri.
Perché forse tutti si sono messi d’accordo.
Sono al secondo bicchiere. Tre dita piene ciascuno. Abbastanza scandaloso.
La gente dei tavoli attorno incomincia a guardarmi male.
C’è una famigliola allegra che mi guarda malissimo.
Probabilmente sono disturbati dal contrasto tra il mio aspetto esteriore e quello che sto facendo: cioè scolarmi una bottiglia intera verso le undici di mattina.
Sono un uomo elegante, ho addosso un gessato di cashmere, un doppiopetto blu scuro con righe verde acqua, righe sottili, ma sto per abbattermi su questa bottiglia e questo può destare sorpresa, meraviglia ma non ho nessuna voglia di enfatizzare questo particolare.
Sto iniziando a scribacchiare qualcosa, forse un abbozzo di descrizione di una donna, una donna giovane, sto scrivendo in modo molto secco, pulito, devo dire la verità, devo essere prolifico.
Devo far convivere queste due aspetti, dire la verità ed essere prolifico, forse è questa la strada, una scrittura di prolifica verità.
Sto blaterando, sto curvando, sto scendendo.
Prolifica verità? Dio esiste? No.
Uno spettro si aggira per l’Europa?
Se non sbaglio si diceva che era il comunismo. Ma il comunismo è solo acqua passata.
Ho perso l’orientamento, sbando, ho perso il buon senso, la fede, l’autostima, ho dissolto la mia coscienza, l’ho sperperata, l’ho fatta a pezzi con il mio comportamento scellerato.
Chi è che mi costringe a stare qui, a formulare queste specie di memorie brutali …
Ah, quel contratto, il fatto che ho ricevuto un piccolo anticipo? No.
E’ la mia brama, la mia volontà di affermarmi, la mia volontà di potenza, la mia intenzione di vivere in una realtà alternativa attraverso i miei romanzi, realtà preferibile a quella che mi ha portato fino a qui, a quella della mia vita.
Forse non scriverò più. Nemmeno una riga per la lista della spesa.
L’idea di diventare uno scrittore che mi ha letteralmente ossessionato per anni, ora mi risulta rivoltante, fuori luogo, fuorviante.
Questa descrizione che ho appena buttato giù fa schifo. E’ pomposa, falsa.
Mi sto traendo in inganno da solo.
Sto fallendo. Beckett diceva: fallisci, fallisci meglio.
La rivolta nel quartiere, una colossale menzogna.
Con quel libro ho fatto credere agli altri tutt’altro rispetto a quello che sono, a quello in cui credo, gli ho riempito la testa di belle parole, leggere, comprensibili, gli ho fatto passare qualche ora piacevole in compagnia di sole novanta pagine, un romanzetto storico che tra qualche mese verrà ingoiato dall’oblio della letteratura.
Mi sono condannato da solo. Ho fatto la scelta sbagliata. Ho seguito quello che il mio agente e gli editor mi hanno consigliato di fare, mi hanno obbligato a fare.
Ho ceduto. Ho barattato la mia dignità, l’intera mia persona, per un po’ di fama, per il dannato consenso altrui.
Ora me ne vado di qua. Mi faccio incartare la bottiglia e me ne vado.





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