Varie
tazze di caffè da mezzo, da tre quarti di litro, su tavoli con tovaglie
all’americana occupati in buona parte da quotidiani irreggimentati da una
staffa di legno di vecchia data, quotidiani con carta che sfrigola in mani di
donne con unghie laccate da smalto oppure donne con unghie al naturale, che
mentre leggono vane qualche colonna di un famoso editorialista del Paese decidono
di darsi una precisa, puntuale e seria occhiata nello specchietto del
porta-cipria per vedere come è il loro viso in quel momento, se compatto,
turgido e statico come una venere urbana di una statua oppure sfatto,
decadente, permeato da un’espressione cupa, inconsolabile e perdente,
quotidiani che poi saranno piegati e riposti in un bidone di ferro a pochi
metri da lì nelle cantine dello stabile, su una parete decine di fotografie di
guerra stile Robert Capa e ancora di più su un’altra, disposta frontalmente,
scatti alla Henri Cartier-Bresson, un contrasto voluto, un contrasto noto, una cosciente
creazione di un sistema antitetico già al suo interno, motu proprio, destinato
a resistere e a convivere in questa sala di un bistro di Amsterdam, il Bushmile
Restaurant Café, dove in una delle sale che danno sul retro ci sono impilati dal
pavimento di legno dell’inizio del secolo scorso fino al soffitto centinaia di
libri usati, dei generi più svariati, si va da biografie che ricordano i
campioni dello sport del passato ad improbabili titoli di fantascienza - C’è
vita su Saturno?, Plutone chiama Terra, Marziani in Amazzonia, da trattati di
fisica, zoologia, di mineralogia a volumi di medicina dedicati ad interventi a
cuore aperto, da saggi di scienza delle finanze al Manifesto del Partito
Comunista di Karl Marx ed ancora qualche raccolta di estratti di romanzi dei
maestri della letteratura dell’Ottocento – Hugo, Zola, Dickens, Carroll, Tolstoj,
Dostoevskij.
Perché
non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Solite
domande di qualche mia amica.
Parigi-no-perché
ci sono stato sette volte, di cui cinque a scrivere ed il risultato è stato
deludente, sciatto, privo di quella spinta che ci vuole per inventare tutto da
zero.
Ma
anche ad Amsterdam ci sei stato più volte.
Solite
amiche, che non mollano l’osso.
Perché
non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Sì,
cinque volte ad Amsterdam. Ma con Amsterdam ho un legame speciale.
Lì,
sei anni prima, avevo scritto La rivolta
nel quartiere, il secondo romanzo con cui avevo sfondato, il cui successo
mi aveva fatto dimenticare le miserie del primo La foresta brucia.
La rivolta nel quartiere vendette oltre un
milione di copie, avevano comprato i diritti per farne un film, anche se poi
non lo fecero mai perché la casa cinematografica fallì a causa di un altro
progetto faraonico che andò male e li trascinò a fondo.
Forse
fu meglio così, visto che fin da subito vi furono accesi diverbi sulla loro
concezione del libro e quindi del film.
Giusto
per partire, volevano cambiare il titolo da La
rivolta nel quartiere in Il quartiere
è in rivolta, intenzione questa frutto di stupidi sondaggi che queste
società fanno presso il loro campione che per lo più è composto da indomiti
cinefili che conoscono a memoria la storia del cinema e con essa migliaia di
film, gente che va nelle sale di proiezione almeno cinque volte a settimana e
che poi di solito sono registi mancati, o peggio ancora falliti, per non palare
della loro primigenia ossessione, ovvero quella di sentirsi destinati per
diritto divino alla carriere recitativa.
Qui
ad Amsterdam per il mio terzo libro, che deve uscire per contratto con il mio
editore, entro metà settembre.
Quindi
ho tre settimane, visto che la consegna è prevista per la fine della penultima
di agosto.
La
verità è che ho scritto La rivolta nel
quartiere pensando solo ed esclusivamente al fatto di avere riscontro, di
avere successo: e tutto è andato ben oltre le mie previsioni.
Interviste,
mezze pagine di giornali, soldi e anche una donna, che non avevo da anni.
Sono
colpevole? No che non sono colpevole.
Sono
sicuro di non sentirmi colpevole?
Ho
sempre negato il fondamento del senso di colpa, qualcosa di profondamente
cristiano, qualcosa soprattutto di cattolico, una pura costruzione mentale
afflittiva, che non ha alcun posto nel dominio della ragione. In sostanza
qualcosa di illogico e che pertanto va eliso dal sistema. Spazzato via.
Se
scrivessi così, se elucubrassi. Che
parole importanti che so dire.
Se
avessi una prosa più vicino possibile alla verità, alla vita delle persone … Invece
scrivo dei prolissi romanzi storici, che poi sono profondamente antistorici,
cioè delle balle spaventose, delle colossali menzogne, in cui mischio un po’ di
tutto per fare piacere al mio cliente, il lettore.
Lor
signori, al vostro servizio.
Che
merda.
Ordino
una bottiglia di whiskey irlandese.
Mi
dia una bottiglia di Paddy. Ho visto che l’avete.
Mi
scusi ho capito bene, signore?
Sì,
le confermo quanto appena detto.
Arriva
subito signore.
Sono
le undici di mattina.
Io
non sono un bevitore di roba pesante. O meglio non lo sono più. A tratti.
Ora
ho una voglia sfrenata di bere. Oggi è una giornata di svolta.
O
inizio a scrivere un’altra menzogna o non la scrivo del tutto e mi scolo la
bottiglia intera e dopo sto in giro. Cose tipo pub, coffee shop, vetrine
illuminate da una luce impolverata di sudore, e molta roba da bere.
Ho
scritto una cosa sul blocchetto blu. Quando uno può dire con se stesso di
essere veramente uno scrittore?
Io
lo sono. Sì. Perché lo dicono gli altri.
Dio
esiste? Sì. Perché lo dicono gli altri.
Perché
forse tutti si sono messi d’accordo.
Sono
al secondo bicchiere. Tre dita piene ciascuno. Abbastanza scandaloso.
La
gente dei tavoli attorno incomincia a guardarmi male.
C’è
una famigliola allegra che mi guarda malissimo.
Probabilmente
sono disturbati dal contrasto tra il mio aspetto esteriore e quello che sto
facendo: cioè scolarmi una bottiglia intera verso le undici di mattina.
Sono
un uomo elegante, ho addosso un gessato di cashmere, un doppiopetto blu scuro
con righe verde acqua, righe sottili, ma sto per abbattermi su questa bottiglia
e questo può destare sorpresa, meraviglia ma non ho nessuna voglia di enfatizzare
questo particolare.
Sto
iniziando a scribacchiare qualcosa, forse un abbozzo di descrizione di una
donna, una donna giovane, sto scrivendo in modo molto secco, pulito, devo dire
la verità, devo essere prolifico.
Devo
far convivere queste due aspetti, dire la verità ed essere prolifico, forse è
questa la strada, una scrittura di prolifica verità.
Sto
blaterando, sto curvando, sto scendendo.
Prolifica
verità? Dio esiste? No.
Uno
spettro si aggira per l’Europa?
Se
non sbaglio si diceva che era il comunismo. Ma il comunismo è solo acqua
passata.
Ho
perso l’orientamento, sbando, ho perso il buon senso, la fede, l’autostima, ho
dissolto la mia coscienza, l’ho sperperata, l’ho fatta a pezzi con il mio
comportamento scellerato.
Chi
è che mi costringe a stare qui, a formulare queste specie di memorie brutali …
Ah,
quel contratto, il fatto che ho ricevuto un piccolo anticipo? No.
E’
la mia brama, la mia volontà di affermarmi, la mia volontà di potenza, la mia
intenzione di vivere in una realtà alternativa attraverso i miei romanzi,
realtà preferibile a quella che mi ha portato fino a qui, a quella della mia
vita.
Forse
non scriverò più. Nemmeno una riga per la lista della spesa.
L’idea
di diventare uno scrittore che mi ha letteralmente ossessionato per anni, ora
mi risulta rivoltante, fuori luogo, fuorviante.
Questa
descrizione che ho appena buttato giù fa schifo. E’ pomposa, falsa.
Mi
sto traendo in inganno da solo.
Sto
fallendo. Beckett diceva: fallisci, fallisci meglio.
La rivolta nel quartiere, una colossale
menzogna.
Con
quel libro ho fatto credere agli altri tutt’altro rispetto a quello che sono, a
quello in cui credo, gli ho riempito la testa di belle parole, leggere,
comprensibili, gli ho fatto passare qualche ora piacevole in compagnia di sole
novanta pagine, un romanzetto storico che tra qualche mese verrà ingoiato dall’oblio
della letteratura.
Mi
sono condannato da solo. Ho fatto la scelta sbagliata. Ho seguito quello che il
mio agente e gli editor mi hanno consigliato di fare, mi hanno obbligato a
fare.
Ho
ceduto. Ho barattato la mia dignità, l’intera mia persona, per un po’ di fama,
per il dannato consenso altrui.
Ora
me ne vado di qua. Mi faccio incartare la bottiglia e me ne vado.
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