martedì, luglio 30, 2013
lunedì, luglio 29, 2013
Venusia
Una serie di scaffali ed insegne luminose, lunghe debordanti file di deodoranti per
uomo/donna in approssimati e colorati barattoli di lamiera, offerte dell’ultima
ora su cartelli che spuntano quasi nel mezzo della corsia, pacchetti di farina
ammassati, goffi e pieni sacchi di iuta pieni di riso, fagioli, lenticchie o
spezie allevatrici o riparatrici dell’animo umano, lamette di ogni tipo appese
in comode confezioni di cartone fresco di stampa appena uscito dall’industria
di turno & pronto all’uso, lamette di ogni genere, buone per una rasatura
da tre volte al giorno o tre volte alla settimana, bibite per ogni palato,
birre & superalcoolici solo per intenditori, quest’ultimi tenuti sotto
vetro se di pregio, assorbenti e pannolini come allo spaccio militare,
sacchetti per la spazzatura, plateau di carne & pesce in lunghi e solitari
banchi frigo, sacchetti di verdure surgelate, settimanali patinati di sordidi
pettegolezzi per casalinghe depresse e annoiato dal ritardo del ciclo, riveste
di fitness per obesi, giornaletti illustrati per soli uomini, cassiere pronte
ad accoglierti, cassiere pronte al diluvio universale come ad una bella
ripassata nel locale scarico merci, cassiere con una paga da fame che sono
grate di appartenere a quella catena di market, la più fidelizzata nel Paese,
gente in fila per la riscossione della raccolta punti per un asciugacapelli di
quart’ordine, una pentola, una macchina del caffè, un frullatore, un punteruolo
per rompere il ghiaccio, un di set di coltelli finti-giapponesi, un
ventilatore, un servizio di asciugamani o di tovaglie, un biglietto del cinema,
un viaggio, una promessa di matrimonio, un redde rationem, un’estrema unzione,
per rimediare una scopata dopo anni o solo dopo un quarto d’ora, un occhio
finto, unghie finte, una fotocamera, un cellulare, un televisore,
un vaso per i fiori, un funerale garantito in piena regola, un film in voga, un best-seller che la o lo porterà ad una
soffice quanto nascosta masturbazione, chi per un biglietto della lotteria … siamo
tutti in cerca di fortuna o di amore.
E’
il mio giorno libero e ci sono quattro posti in cui vado quando non lavoro: i
supermercati, le librerie, i cinema & i bar. Soprattutto i bar.
Passato
il supermercato, andando con ordine, viene il turno delle librerie.
Stavo
andando al Libraccio di viale Vittorio Veneto, guidando in modo sconsiderato
per essere le dieci di mattina ma mi piace fare certe accelerazioni e poi
inchiodare o pure sgommare sul pavé in curva lasciando andare un po’ la
macchina e riprendendola subito dopo, quando, finite alcune di queste mie
bravate, attraverso il finestrino del passeggero mi capita sott’occhio una
donna con capelli biondi tinti, buon fisico, pelle grinzosa e soda, tiene
nell’avambraccio destro una borsa di hermes da almeno 7.000 pezzi e credo,
mentre sta parlando all’ultimo iphone sistemandosi degli occhiali da sole di
cristian-dior, che dopo tutta quest’inutile descrizione, credo che abbia solo
voglia di una cosa: di sballarsi un po’ di mattina e di scopare fino allo
sfinimento in un lussuoso hotel di piazza della Repubblica, almeno fino alle
sei, o forse fino alle nove di sera, mentre il marito va a sbattersi un’altra,
o se lo fa sbattere, cosa da non escludere per niente.
Intanto
è solo un’alta mogliettina insoddisfatta con un marito deficiente e due figli
scemi che la annoiano.
Almeno
la scena me la sono immaginata così.
Lo
so: cinico, crudele, squallido se proprio vogliamo.
Cosa
meglio di un giro con me & una lunga cavalcata durante la giornata?
Decido
di affiancarmi.
-
Signora scusi. Mi scusi signora. Potrebbe dirmi dov’è il Libraccio di viale
Vittorio Veneto?
-
Prego?
-
Il Libraccio di Vittorio Veneto.
-
Viale Vittorio Veneto lo trova andando dritto, così. Il Libraccio non so cosa
sia.
-
E’ una libreria. Molti libri. Nuovi ed usati. Una manna letteraria, qualche
volta.
-
Ah, capisco. Guardi l’unica cosa che deve fare è andare avanti.
-
Lo vuole vedere, vuole venirci con me?
-
Ma cos’è un pervertito?
-
Niente affatto. L’ho vista per strada. Non capita tutti i giorni di incrociare
una donna del suo calibro.
Ecco
ci è caduta. L’ho stesa. Si è messa la mani nei capelli ed ha messo il
cellulare nella borsa. Guarda l’orologio.
-
Non le salto addosso, stia tranquilla. E’ una libreria, un posto pubblico, non
un bordello. Vuole venire con me?
-
Senta è una situazione bizzarra. Mi sta mettendo in imbarazzo.
-
Lungi da me. Magari trova qualche bel libro. Scommetto che le piacciono i
gialli ed i libri romantici.
-
E lei come fa a saperlo?
-
Sono uno studioso dei comportamenti umani. Giro il mondo, conosco persone, le
analizzo, le penetro a fondo.
-
Ma cosa fa? Lo psicologo?
-
No è lei che probabilmente ha frequentato la facoltà di psicologia con
l’intento di diventare una psicoterapeuta. Ma non ha mai esercitato perché si è
sposata ed ha fatto la moglie e la mamma. Intanto suo marito guadagna una barca
di soldi.
Ci
siamo. Sale in macchina.
-
Piacere io sono Venusia.
-
Io Filippo.
-
Senta questa è una follia. Non so come ha fatto a sapere, a capire buona parte
della mia vita in pochi minuti.
O
è un veggente o un genio o non so che cosa. Prima di partire, ah sia ben inteso
che vengo solo a questo “libraccio”, poi mi riaccompagna qui nello stesso punto
dove mi ha caricato, come una putt… pardon, mi dica cosa fa lei?
-
Lavoro come capo redattore alla Nuove Direzioni, una casa editrice di teatro.
Ho tre lauree: lettere, filosofia ed antropologia. E poi scrivo. Saggi,
intuizioni, visioni e qualche volta, per deformazione professionale, testi
teatrali. A novembre un mio testo verrà portato in scena. Speriamo bene. Mi
scusi se sono stato spavaldo, sfrontato, diretto.
-
Ma lei va in giro a raccattare donne per strada con stupide scuse tipo questo
“libraccio”?
-
Troppo sexy per farti scappare.
-
Va bene andiamo.
Dunque
… Siamo stati al Libraccio dove io ho comprato venti libri e lei uno, immagino
per ricordo della nostra avventura, un libricino con aforismi di saggezza orientale,
ovviamente su mio consiglio.
Abbiamo
anche incontrato un paio di miei amici e siamo stati li a parlare un bel po’.
Dopo
io e Venusia abbiamo deciso di pranzare e si sono fatte le quattro.
E’
venuto fuori che era sposata e che aveva due figli. Ma il particolare
determinante che mi era sfuggito, che non avevo considerato nelle mie
estemporanee equazioni umane, era che da 5 anni era divorziata e che i figli
vivono in Svizzera in un collegio per le elite.
Dalle
quattro alle sei siamo stati alla pinacoteca di brera e da lì ci siamo mossi
per andare a fare l’aperitivo al Nottingham Forest, anche se sono anni che non
bevo più cocktails e soprattutto che non ci mettevo più piede.
Lei
è impazzita per la i supercocktail di Dario, il miglior bar tender di Milano.
Abbiamo
bevuto dalle sei alle undici. Io sette cocktail lei cinque. Una buona media, un
discreto bilancio.
Io
ho retto benissimo ed ho fatto lunghi e circolari discorsi alla mia maniera,
discorrendo della letteratura del novecento mentre lei si limitava ad
interrompere con mirabolanti incursioni, veramente sorprendenti, concludendole
con una dichiarazione di rancore ed odio nei confronti di Jacques Lacan e i
suoi seminari.
Affamati,
l’ho portata sui navigli dove le ho fatto mangiare un panino con fegato
pasticciato da Enzo, un baracchino di fiducia che sta tra il naviglio grande e
Miani.
Dopo
di che abbiamo fatto un lungo giro a piedi con qualche birra in mano e ci siamo
diretti al Nidaba per ascoltare un po’ di blues.
Sul
finire della serata, fuori dal Nidaba, quando Max e Barbara ci hanno detto “è
ora di chiudere” ed erano le tre, abbiamo di nuovo camminato fino alle quattro.
Ad
un certo punto lei mi ha detto: ora mi puoi riportare dove mi hai caricata.
In
tutta la giornata non mi era mai passato per la mente neanche un attimo di
portarla in hotel.
Forse
avrei dovuto chiederglielo, forse lei se lo aspettava e se lo meritava.
Arrivati
vicino a piazza della repubblica mi ha chiesto di portarla in via san marco al
22, dove abita.
Lì,
sotto il portone di casa, mi ha detto che erano state le diciotto ore più
interessanti e piene di vita che ricordava.
-
Allora a domani? Ha continuato.
-
Sì.
-
Posso venirti a prendere fuori all’uscita dal lavoro.
-
Ok.
-
Dov’è precisamente.
-
Via Lecco 18.
-
A che ora?
-
Le cinque.
-
Via Lecco 18, alle cinque. Cioè tra 12 ore.
-
Esatto.
Ci
siamo salutati con un bacio sulla guancia prolungato in cui io ho odorato
fortemente la sua pelle ed i suoi capelli.
-
Andiamo con calma, anche se lo farei qui in macchina.
-
Andare con calma non fa per me.
-
Ho tutto il tempo che vuoi, per te.
E
mi ha messo una mano nei pantaloni dove ovviamente mi ha trovato pronto.
Ci
sarà da divertirsi, mi ha sussurrato nell’orecchio, leccandomelo.
Lo
spero, le ho ribattuto e le ho tirato un morso sul collo.
Avevo
qualche ora di sonno davanti.
In
giornata sarei stato su di giri, fuori controllo.
Niente
di nuovo.
domenica, luglio 28, 2013
Linda
Ho
sempre pensato fosse meglio giocare su più tavoli, forse per il solo fatto di
pensare e di realizzare di dividere, parcellizzare il rischio.
Sono
qui in un bagno di un residence di Berlino, probabilmente costruito negli
ottanta, i ruggenti ottanta di Strehler e Craxi a Milano, del cd. socialismo
liquido, e sto per chiamare mio padre, il grande industriale della chimica, l’uomo
da duecentocinquanta milioni.
Tutte
le volte che dovevo alzare il telefono e fare quella sequenza di numeri che
composti mi mettevano in contatto con la sua voce autorevole, ficcante, dura e
composta in ogni frangente, ricordavo con disdegno e dolore una nostra
conversazione o forse la nostra conversazione, quella in cui i nostri due mondi
si scontrarono ed esplosero, frantumandosi, annientandosi a vicenda e non si sarebbero
mai più riavvicinati.
- Papà
io sono un regista e voglio fare il regista.
- Bene
ti manderemo da quel medico dei matti, tanto in casa c’è già qualcuno che ci
va, giusto? Quello che ha lo studio in vincenzo monti, almeno una volta nella
tua misera vita avessi dimostrato il tuo interessamento agli affari, alle cose
di famiglia, per non parlare della tua virilità, fatti una moglie e dammi
almeno un erede degno del nostro nome!
- Papà
non ti è mai passato per quel cervello del cazzo che morirai, magari anche a
breve? E già che ci siamo affrontiamo pure il capitolo mia sorella ovvero tua
figlia, la lesbica.
A quel
punto mio padre era sull’orlo di un infarto. Mi ricordo il suo respiro nel
telefono. Probabilmente stava sudando. Avrà allentato il nodo della cravatta da
cinquecento euro e avrà chiamato l’interno della sua assistente personale
giusto per il gusto di insultarla e accanirsi su di lei per dare sfogo al
crollo delle sue granitiche ed inscalfibili idee, idee teutoniche da vero
capitano d’industria, poggianti sulla sua fede incrollabile nel mercato, sulla
sua arcigna convinzione che tutto è comprabile e vendibile nella vita, perché
tutto è business e il denaro deve correre, deve girare più in fretta possibile
e deve farlo nel maggior numero di mani possibili perché nella catena della
trasmissione del denaro arriva un punto in cui esso passa per le mani dell’uomo
giusto, uno come lui ad esempio, ed è allora, è lì che il denaro assurge al
rango di capitale e il capitale si trasforma in lavoro e il lavoro finisce
nelle tasche di quell’uomo capace sotto forma di ritorno d’investimento
composto da capitale di rientro e margine di profitto, il cd. utile e questo
cd. utile costituisce ricchezza aggiunta e la ricchezza è denaro spendibile, è
l’unica linfa vitale che tiene insieme gli uomini, le società, gli Stati, le
Nazioni, è il collante unico e supremo, quello su cui si innestano e si
propagano le valute monetarie del mondo che sono il titolo legale di miliardi
di transizioni quotidiane, miliardi di operazioni di debito e credito e queste
sono le vite delle persone, sono la cifra degli individui ed ogni uomo ha la
sua.
Questo
è a grandi linee un discorso che mi fece quando avevo sette anni e credo che
adesso, mentre magari sta firmando un contratto d’acquisizione di un terreno da
lottizzare e cementificare oppure mentre sta chiacchierando affabilmente lungo
le buche del golf club di Monza con un armagnac del ’72, queste cose lo stiano
sorreggendo,
Sto
preparando con un giornale del posto, il Transoceanic Language, una rivista
specializzata di cinema e arti visive in generale che si propone di fare da
trait d’union tra Europa e Stati Uniti, un lungo e contrastato footage sulle
città di confine tra il Texas e la Louisiana.
Faremo
una proiezione in un locale vicino ad Alexander Platz, ci aspettiamo un
centinaio di persone, niente di più.
Adesso
devo chiamare mio padre e devo dirle di Linda, mia sorella. Non ho scelta, devo
farlo.
- Ciao,
sono io.
- Sì,
dimmi. Fai in fretta che ho telefonata sotto.
-
Ascolta, vado dritto al punto.
-
Sbrigati.
-
Linda.
- Linda
cosa?
- L’ha
fatto. Un’altra volta.
- Ha
fatto cosa? No,non quello, spero …
- Sì,
hai capito bene.
- Ma
non era lì con te a Berlino?
- Sì,
ma io non posso controllarla 24 ore su 24.
- Come
l’ha fatto stavolta?
- E’ un
mese e rotto che va avanti a crack. L’ha trovata Elsa. la sua compagna di
adesso.
- Come?
-
Taglio longitudinale delle vene del solo braccio sinistro. L’ha presa per un
pelo.
- Ora
dov’è?
- In
ospedale, sott’osservazione continua. Non è in pericolo di vita. Sto andando
lì.
- Hai
bisogno di soldi?
- No,
ho tutto. Ti chiamo quando esco di là
- Ok.
- Non
dire niente a mamma. Ci parlo io quando ho sistemato tutto.
-
Chiamami.
- Sì
certo. Ciao.
- Ciao.
Mia
sorella era in un ospedale a Mitte. Era in una stanza con altre due ragazze.
Credo
che grosso modo stessero nelle sue condizioni perché le facce delle persone
fuori dalla porta, parenti o conoscenti che appoggiavano la fronte al vetro che
faceva da finestra sulla stanza e che la sbattevano con frequenza di un vecchio
e tramortito gong, erano devastate.
Era arrivata
a quattro. Quattro tentativi di suicidio in trentotto anni di vita.
Di
sicuro c’è chi ha fatto di peggio, c’è chi ce l’ha fatta al primo colpo.
Strike, scacco matto, nessun diritto di replica e tanti saluti.
Elsa mi
è venuta incontro e mi abbracciato, disperata.
Grazie
Elsa, le ho detto.
Io non
ce la faccio più, non so più cosa fare. E si è messa a piangere.
Vai
pure a casa. Ci sto io qui.
Va
bene, torno in serata.
Oramai
non mi chiedevo più il perché, e sinceramente non so se me lo fossi mai chiesto
le altre volte.
Linda
era una rinnegata, era quello che Artaud chiamava il suicidato della società a
proposito di Van Gogh.
Lei non
ce l’ha mai fatta a venirne fuori, come ho fatto io, anche se io ho avuto i
miei bei scompensi.
Non c’è
l’ha mai fatta ad uscire da quel meccanismo di quel tipo di società borghese
per cui o se uno di loro o sei sputato fuori e vieni messo in un ossario.
Tu devi
fare le loro cose, devi fare i loro studi, devi avere un lavoro rispettato, devi
vestirti come loro, devi avere una bella macchina, due o tre suntuose belle seconde
case, una bella moglie, qualche bel figlio, un pingue conto in banca, devi
votare per chi difende i tuoi interessi economici non importa che sia giusto o
sbagliato, devi andare nei soliti locali per essere notato o nei posti per potersi
frequentare e praticare la maldicenza, devi essere iscritto al tennis club, al
golf club per imbastire affari, devi donare risibili somme all’associazione
volontaristica che aiuta i bambini del Mozambico, devi andare a messa, devi
sposarti in chiesa, devi avere il televisore di ultima generazione, devi andare
nell’hotel extra-lusso della Micronesia, devi viaggiare in business, non devi mai
dare confidenza al prossimo perché è lui il vero potenziale pericolo, l’altro,
il diverso.
Linda, in
questo contesto che vive di una sua propria linfa propagatrice della stessa
menzogna in cui è immersa e di cui è imbevuta ed avvelenata, era il diverso per
antonomasia, era il suicidato della società par excellence.
Seconda
erede di uno dei più importanti gruppi dell’industria chimica del Paese,
secondogenita di una delle famiglie più influenti del Nord Italia, dopo che il
figlio, cioè io, aveva scelto un’altra vita, tutto era ricaduto su di lei.
Si era
trovata a fare una facoltà in cui non aveva il minimo interesse e che frequentava
a malapena, e proprio in quegl’anni era oramai chiaro, almeno a me e mia madre,
la sua chiara e definita inclinazione sessuale: le piacevano gli individui del
suo stesso sesso, si masturbava pensando alle sue amiche non agli uomini.
Il
disagio era enorme. Continui problemi di peso, andava su e giù come un
palloncino gonfiabile.
La
risposta a tutto ciò, per farla breve, fu la droga. E quando la droga non le
bastò più, o forse l’aveva gettata in uno stato di disperazione incontrollabile
o forse le aveva reso tutto più chiaro, ovviamente in modo tossico, fece il
passo verso la grande mietitrice.
Ultimamente
si era trasferita a Berlino, ed io con quel lavoro sul confine tra il Texas e
la Louisiana, sarei stato per un po’ lì in città con lei.
Quando
sono arrivato a Tegel al posto suo c’era Elsa ed io ho capito subito.
Elsa
non dire niente ti prego. Lei mi ha detto: mi dispiace.
Sapevo
che Linda non era venuta perché era talmente fatta che non poteva neanche
uscire di casa, o forse perché in modo ancora più egoistico si era appena fatta
un giro in vena.
Negli
ultimi anni, Linda, aveva preso una strada definita, nel senso che faceva la
fotografa e che era una tossicodipendente con tendenze maniacali suicide e che
era dichiaratamente omosessuale.
Nel
campo della fotografia aveva avuto le sue soddisfazioni. Aveva esposto qua e
là. Aveva avuto molti scatti pubblicati su riviste del settore e non,
soprattutto all’estero.
Si era
specializzata in due ambiti: quello delle aree industriali dismesse e quello
dello delle manifestazioni per i diritti dei LGBT.
E aveva
avuto un discreto successo, diversamente da me, nonostante lei ripeteva
ossessivamente che la mia arte rispetto alla sua era più vera, più forte, più
diretta, più immaginifica e che lei aveva a malapena un decimo della mia
impronta, della mia visione del mondo, della mia cultura.
Sono
solo una dilettante di passaggio, diceva e rideva.
Le
ribattevo che non era affatto vero.
A Berlino
sono venuto perché, oltre al lungometraggio su quelle terre paludose e
maledette – confine Texas-Louisiana - c’eravamo detti, io e Linda, di fare un
lavoro assieme.
Secondo
me sarebbe stato grandioso.
Volevamo
fare un giro delle periferie delle città dell’Europa dell’Est, e filmare e
fotografare.
No so
quando si risveglierà e come.
sabato, luglio 27, 2013
Lettere selezionate
Secondo
libro di lettere
jack kerouac
selected letters 1957 – 1969 __________
prosa
genuina spontanea vera ovvero verità d’America
eroi della
grande notte occidentale imperversano
se
stamattina ho letto buke
col
resoconto di uno suo tour europeo del ‘79
_________________ [da vero wino
ora
ritorno con il vino di skid row
tenderloin,
frisco
kerouac in
una camera ammobiliata
da pochi
dollari alla settimana
solito
tokaj & bourbon
lettere
& macchina da scrivere
lettere ai
buoni bhikku d’America
ginsberg cassidy snyder whalen holmes
kerouac che
si è sposato 4 volte
tante pene
nelle parole di Gabrielle, la madre
tante
preoccupazioni per il suo tesoro testa d’angelo
magari
finito nel catalogo di ginsberg, quello famoso
delle
migliori menti della sua generazione distrutte dalla pazzia
nell’ascensore
dell’edificio
dove si
trovano gli uffici della viking press
si è
scolato un po’ di roba
&d ha
firmato il contratto per ON THE ROAD
a 35 anni con
una lunga lista di rifiuti
& con 11 libri scritti in 6 anni
si dispera
perché sono inediti
& la
lista dei fallimenti inizia a gonfiarsi
l’unico pubblicato
è stato
the town & the city, anni addietro
gli hanno
dato subito 1.000 $ in mano
ma al botteghino
è stato un disastro
denver,
ozone park
da qualche
parte in texas
mexico
city, new York & la solitra frisco
(scrive san
fran, qualche volta)
chiamava
affettuosamente la benzedrina
“benny” o “bennie”
ne
prendeva dosi massicce
per stare
sempre in alto
& per squarciare
il velo della conoscenza
&
vedere il volto di dio
chiamava l’alcool
con il suo nome
& per
questo a 47 anni ha chiuso la partita
con un
fiotto di sangue nello stomaco
ha chiesto
scusa alla madre in un rantolo
non ha
chiesto aiuto
non ha
voluto essere soccorso.
venerdì, luglio 26, 2013
Ivo Nastic
Ivo
Nastic il carcere italiano l’ha conosciuto bene. In quindici anni di fortune alterne
nel nostro Paese, è entrato ed uscito quattro volte – estorsione, stupro, rapina,
spaccio.
Tutte
accuse costruite ad arte, tutte messe in scena, tutti malintesi in cui Ivo era
assurdamente ed ingiustamente incappato, mentre lui restava innocente ed
integralmente estraneo ai fatti: signor giudice, mi dispiace, ma non so di cosa
stiate parlando, io sono un brav’uomo, un semplicissimo padre di famiglia che
vuole guadagnarsi il pane vivendo in modo onesto, mi chiamo Ivo Nastic e sono
fiero del nome che porto.
E’
a Milano da 8 anni, gli altri li ha passati a Palermo, Napoli, Reggio Calabria,
Brescia, Torino e lo puoi vedere bazzicare attorno a corso Buenos Aires con la
sua stazza massiccia ma guizzante, lui, di origine serba, ex combattente della
milizia paramilitare “Serbia, Dio & Patria”, una delle tante che
sguinzagliava il proprio pugno di ferro sul suolo slavo durante gli anni della
guerra civile che lui chiama guerra di liberazione o una cazzo di guerra santa.
La
corporatura debordante in un metro e settantacinque di persona fa da appoggio
alla sua faccia levigata e oserei dire impreziosita da un maestoso segno che va
dalla mascella fino su all’occhio destro, un segno dovuto ad una scheggia a
seguito di un’esplosione di un ordigno, un segno che gli invade tutta l’intera
faccia e ne coinvolge, deturpandone in modo sadico, tutte le possibili
espressioni che possa azzardare di provare.
Tu
lo guardi, magari quando ti passa affianco in strada con quella sua finta aria
nobile e ti urta, e pensi, questo non scherza, questo non gioca al tuo livello,
pensi a sangue, pugni, pestaggi, urla tutto condito da una bella dose di
violenza gratuita e se non propriamente gratuita, a buon mercato.
Agli
occhi dei miei conoscenti, nelle loro intonse coscienze perbene, questa
frequentazione porterebbe ad una clamorosa disapprovazione ed ad un pubblico
disgusto ma tant’è, che io ed Ivo siamo diventati da qualche mese grandi amici,
buoni compagnoni o chiamatelo come diavolo volete. Lui esagera sempre e alzando
la voce: saremo fratelli di sangue, principe!
I
nostri incontri sono circoscritti al bar F. a pochi metri da piazzale Lima.
Ivo,
come ogni buon professionista del suo mestiere, è ben radicato nel territorio
& tra le altre cose gestisce il business delle “macchinette”, così come le
chiama lui.
In
poche parole, sapete, presta a strozzo e fornisce tutti quei servizi annessi che
un affare del genere si porta dietro.
I
malcapitati, di solito gente che riversa davanti ad uno schermo che si illumina
e scintilla in cui stupide figure roteano attraverso un vetro unto & patinato
dalle ditate di centinaia, se non migliaia
di persone al giorno, dal sudiciume e dallo schifo del locale in cui si trovano,
gente che trascorre ore inutili e distruttive, che cerca di annientare
fallimenti colossali e frustrazioni incancellabili davanti alle macchinazioni di
una ferraglia mangia-soldi, ecco questi lui li chiama “i maiali”, e qualche
volta quando è di buon animo, “i cani”.
Maiali
o cani che siano, sono i suoi clienti e per questo vengono annotati
scrupolosamente nella sua immancabile e vitale agenda con ogni tipo di
informazione oltre al nome, al cognome, all’occupazione se c’è, alla famiglia
se ce l’hanno e più importante di tutto, ai debiti, se esistono e a quanto essi,
ancora più importante, ammontano.
Non
metterti mai in affari con gente a cui non puoi fare del male o se non per
forza fargli del male, farli cagare sotto. Ma proprio tanto intendo. Ieri sera
uno mi si è pisciato nei pantaloni, davanti, cristo. Ed ero pure con la mia
nuova bay. Gli ho detto fai proprio schifo, brutto pezzo dimmerda, come cazzo
di uomo e come cazzo di cliente.
Pagami,
o se no sarò io a pisciarti addosso la prossima volta.
Si
è messo a piagnucolare. L’ho colpito con un rovescio. E vai a casa a cambiarti,
verme.
Comunque
quando si parla di clienti preferisce il termine maiali, perché del maiale non
si butta via niente, non dite così anche voi qua?
Quando
dice queste cose ci guardiamo negli occhi e non mollo lo sguardo per fargli
capire che tra me e lui sussiste ancora una barriera e magari gli dico chiudi
quella fogna, testa di cazzo, ma lui va matto per queste situazioni da saloon,
gli piacciono queste frasi ad effetto, stile Hollywood, e magari si spinge a
citarmele direttamente in inglese, imitando l’attore o persino ricreando il
contesto del film di turno.
Certo
in quegl’attimi di tensione frequenti – in ogni nostro incontro ce ne sono
almeno un paio, fissi, rituali, più o meno forti, dove lui insulta tutta la
linea materna del mio albero genealogico e riesce a raggiungere indescrivibili
punte di odio, io gli sto davanti, con i gomiti sul tavolo e lo fisso a dieci centimetri,
se non meno, faccia a faccia, e ci guardiamo isterici nelle pupille e sento il
suo sudore della faccia che fiotta e vedo la sua cicatrice contrarsi,
dilatarsi, muoversi come un serpente su quella pellaccia grassa e dopo questo
bel quadretto ci rimettiamo tranquilli ed ordiniamo, con un pugno sul tavolo od
un mezzo urlo seguito da una bestemmia, un giro doppio o triplo per entrambi,
whiskey ragazzo, non farci perdere tempo, qui, diretto, subito.
Dopo
aver tracannato almeno mezza dose di quanto nel bicchiere io gli dico tu sei il
mio nemico e lui professore vai a leggere i tuoi libri del cazzo.
Da
qualche tempo sta lontano dal giro che scotta, estorsioni, furti, sfruttamento
della prostituzione, spaccio ad elevate quantità – quintali, e si limita alle
macchinette; in più credo che faccia il protettore di qualche ragazza che
lavora a domicilio.
L’altra
sera, era un mercoledì, sono andato al bar F. per il nostro appuntamento.
Ero
su di giri perché Ivo mi aveva accennato che voleva avere una mano in una
faccenda di natura squisitamente culturale e mi ero fatto qualche cocktail prima,
con una ragazza che ho conosciuto da due settimane. Un bel paio di gambe e un
ottimo cervello.
Il
barista mi ha chiamato al bancone. Mi ha dato un bigliettino piegato in due.
Con scritto sopra. Aprilo poi ridammelo, che lo brucio.
Ho
pensato il solito Ivo, sarà qua fuori a ridersela alle mie spalle.
Ho
aperto il biglietto. Nella prima riga c’erano tre lettere ed una croce. Ivo †.
Nella
seconda: trovato accoltellato.
Il
barista mi ha poi detto che Ivo gli aveva detto di informarmi se gli fosse
successo qualcosa. Sai ti voleva molto bene.
Gli
ho chiesto un triplo, subito, diretto.
Dopo
due sorsi ho tirato il bicchiere contro il muro.
Ho
lasciato qualche soldo in più per il danno.
mercoledì, luglio 24, 2013
lunedì, luglio 22, 2013
domenica, luglio 14, 2013
sabato, luglio 13, 2013
giovedì, luglio 11, 2013
domenica, luglio 07, 2013
martedì, luglio 02, 2013
Nota introduttiva a DISTRETTI
In
un suo libro Henry Miller scriveva “Io sono città! Io sono la città!”: proprio
da questa esclamazione senza compromessi, posso prendere le mosse per parlare
di DISTRETTI.
DISTRETTI
è innanzi tutto una raccolta di miei scritti scelti dal luglio 2011 all’inverno
2012, grosso modo un anno e mezzo di vita.
Uso
la parola scritti perché ritengo che sia
la più corretta, la più efficace per sgomberare subito il campo da eventuali
equivoci definitori sulla mia scrittura che a seconda delle volte viene
qualificata o rubricata sotto le voci narrativa contemporanea o moderna, arti
sperimentali, studi poetici, poesia etc. etc.
Io sono la città. DISTRETTI nasce da
questa idea o quantomeno ne è una constatazione, una derivazione diretta o
indiretta, conscia od inconscia che sia.
I
“distretti” sono i nuclei costitutivi di questo mondo oramai completamente
urbanizzato i cui i confini hanno cessato di esistere perché non servono più,
perché non interessano più.
Di
fatto troverete la vita delle persone, di fatto troverete i racconti delle vite
delle persone e su queste le mie annotazioni e l’intreccio che il mio vissuto
ha formato con esse.
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