I perché si sprecavano sulla panca di quella stazione ferroviaria della costa orientale d’oltreoceano.
Vasilij Grossman, Herbert Marcuse e un dizionario dei termini marxisti maggiormente rappresentativi del XX secolo erano delle parole che si vedevano stampate sulle copertine, o sui dorsi, di tre libri usciti appena di testa o di fianco da uno zaino. L’attesa di oltre cinque ore in quella hall dal bianco spiazzante delle tessere del mosaico dei pavimenti, tessere ornate di intrecci dorati & di ebano, mi davano modo di non pensare al mio ritorno a casa. Presi il treno per l’aeroporto e lì l’attesa era di quasi pari tempo e lo zaino era chiuso e io guardavo tutto, guardando in giro, e dovevo pensare al ritorno a casa, perché era lì che stavo andando.
Una ragazza che avevo conosciuto per strada e con cui avevamo condiviso un tratto che era durato diversi giorni e quasi quattromila chilometri aveva definito il mio zaino 'il banco dei pegni' per quante cose trasportasse, cose che lei giudicava di valore. Dopo avermi fatto girare la testa in modo che la guardassi e che fossi a pochi centimetri dalla sua faccia e dalla sua bocca mi aveva detto: questa è un’era selvaggia.
Il giorno dopo se ne era andata lasciandomi i suoi recapiti, una busta di tabacco ancora chiusa, una cassa di birra quasi finita e dei soldi sparpagliati qua e là sulla credenza della camera, vicino alla televisione. In bagno ne trovai altri e quando guardai nello specchio non tanto per vedermi ma solo per sorreggermi prima di piegarmi nel lavandino ed immergere la faccia e la testa nell’improvvisata bacinella di acqua ghiacciata, lessi un messaggio d’amore scritto nello specchio con un rossetto color rosa-fuksia, un rossetto dalla compattezza grassa, parole che mi ringraziavano dei giorni precedenti e che mi profetizzava una mia futura migrazione nel suo paese e addirittura un fidanzamento. Follie delle cinque di mattina dove il sole davanti a quel terreno rossastro ringhiava montando, rotolando per le valli, invadendole, bucandole, devastandole, corrodendole in cerca di denti d’oro e isterici cespugli si trascinavano per centinaia di metri vorticando, dando una dignità pietosa & acida al paesaggio che fuori dal finestrone sopra il condizionatore fuori servizio si presentava indefesso e libertario. Qualche cactus dal ghiaccio diceva Grace Slick. La battuta che faceva sul mio zaino, quella del banco dei pegni, stava a significare anche che se fosse caduto in mano sua e se io fossi diventato di sua proprietà, probabilmente mi avrebbe spinto a vendere il suo contenuto, se non tutto, di sicuro una gran parte. Vedeva un grande potenziale economico, di puro profitto diceva, nella liquidazione di quell’armamentario: libri usati, interi blocchi di carta sigillati su cui avevo vissuto per mesi, macchine fotografiche analogiche, dozzine di rullini sparsi con scatti di città e di ambientazioni discutibili - a proposito: lo scatto che ho fatto a quello specchio con quella disinvolta e squinternata dichiarazione d’amore mi da ancora da vivere oggi, a distanza di anni, grazie Wanda.
Famiglie venute in vacanza per il parco di divertimenti, ragazzine eccitate per la fine della scuola e pronte a perdere la verginità sotto un ulivo immacolato benedetto da WS Burroughs, papà scomodi tenuti a casa a produrre reddito e a spassarsela in club di sano e puro divertimento, il lavoro nella grande città, uffici postali assemblati alla bella e meglio per i mesi festivi, promozioni irrinunciabili nei centri di dispaccio di liquori sotto casa, supermercati aperti 18 ore al giorno con scritte accattivanti (cavalca la tigre!), cucine asiatiche sul retro poco prima della collina che trasudano anatre appese intrise di olio di semi in cui sono stati fritti pesci, gatti, uomini d’azzardo surgelati, passaporti, dita di schiavi del lavoro ora inservibili, promozioni pubblicitarie su mega schermi luminosi affissi sul grattacielo nuovo di pacca della banca ombra più potente di quella di Stato, un sabato pomeriggio al parco con ragazze incoscienti che civettano con il telefono adagiato e premuto, un sabato pomeriggio dove dall’altra parte del mondo si compilano codici morali, della loro lezione, di certi volumi assorti a legge dell’umanità attraverso i millenni, la cerimonia degli addii, le confessioni pilotate di Sartre, una resistenza dell’anima, le notizie dalla TV parlano sempre del M.O. e stanotte l’esercito di davide è entrato nei confini dello stato del popolo più disgraziato del mondo, per fare una partita a dadi con del piombo fuso direttamente dai forzieri degli scantinati di Brooklyn, NY State. La Bibbia, la Cristianità, l’Islamismo io e W. ne parlavamo dopo giornate vissute sulla banchina, lei a prendere il sole io a coprirmi, l’isolazionismo in difetto tra due corpi, le sue magliette bianche, il pericolo di farsi influenzare e rimanere travolti da un paese, da una città, da un quartiere in cui alla fine si è trascorsa solo un decimo della propria vita, venerdì notte illuminata da lampade a gas e gocce pendenti invertite e piegate di zolfo, venerdì prima che si arrivi, i limiti della città altra su un cartello verde riquadrato, strisciato e scritto di bianco, discorsi sulla nuova sinistra soffocati dalla voce temperata di Frank Sinatra che sconvolge la distanza, le condizioni della propria esistenza durate lo spazio di tempo di un pagamento di un pedaggio autostradale, basta lanciare delle monetine in un cesto di rete metallica traforata blu elettrico poi la sbarra si alza e vai e sei libero e puoi spingere, ogni giorno ci sente più dolci e carini per farsi fottere un po’ meglio dalla controparte - frase estrapolata ora da un manuale del buon venditore, 500 pagine, cartelli di pompe funebri appesi ai ponti, alle immissioni stradali, slogan di politici che promettono più lavoro, meno tasse, la lotta alla povertà, alla droga, sussidi alle famiglie numerose, tu stasera sei proprio carina come vorresti essere, come dicono nella clausola di recesso degli assorbenti appena comprati alla pompa di servizio, ora puoi risalire a bordo.
Il mio posto è il 15 c, sul corridoio, come richiesto.
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