sabato, agosto 31, 2013
mercoledì, agosto 14, 2013
martedì, agosto 13, 2013
50 centesimi
Sto
guardando una moneta da 50 centesimi, 50 cents. Cristo. La sto girando tra il
pollice e l’indice della mano sinistra.
Come
si sono rovinate le mie mani negli anni. La pelle si è gonfiata, dilatata, poi
ritirata e poi ancora rigonfiata. I lavori che ho fatto, la vita che ho fatto.
Questa
moneta è davvero brillante, zecca dello stato, fresca di.
Appena
sono entrato in casa stasera è scoppiata una lampadina della cucina.
Cattivi
presagi. Vetri per terra.
In
casa mia non c’era nessuno, sono stato l’unico essere umano a sentire quel
particolare tipo di rumore. Come un fiore che sboccia, uno squarcio nell’aria
di poco conto.
Non
credo che sia sentito molto al di fuori del mio appartamento: nel mio stabile sono
rimaste poche persone e la città è in gran parte disabitata per via delle
vacanze.
Sono
qua ancora solo per qualche giorno. Poi parto. Vado via. Per molto tempo.
Mi
sono fissato con questa moneta perché mi ricorda l’assegno per gli alimenti che
ho dato a mia moglie stamattina. Un bell’assegno scoperto. Sto tagliando la
corda, se non si era ancora capito. Che mi vengano a prendere in India, o in
qualsiasi altro posto dove andrò.
Ho
detto India perché l’altra sera ho visto il film di Scorsese su George
Harrisone.
The
quiet one. Niente di personale, George, ma se devo sceglierne uno, scelgo John.
Sono
stato licenziato due mesi fa. Lavoravo in una tipografia. Riduzione del
personale cari miei. E tra i sacrificabili il mio nome svettava, ho scalato la
classifica dei reietti, inarrestabile. In cima alla lista.
Ho
cercato lavoro fino a settimana scorsa. Qualsiasi tipo di impiego. Niente.
Mi
sono umiliato davanti a presuntuose teste di cazzo: non è servito o, forse, non
è bastato.
Allora
mi sono detto: non c’è niente che mi tiene qua. Posso andarmene. E non tornare.
Domani
decido dove. E la mia vita prenderà il suo corso, sarà come un grande fiume in
cui mi immergerò e sprofonderò sul fondo, facendomi trascinare dalla corrente,
dagli eventi, dalle circostanze.
Di
una cosa sono sicuro: andrò in giro a fare fotografie.
Sono
quindici anni che non la prendo in mano. Ho un nikkor del ’78.
Un
obiettivo 20 mm. E tanti saluti.
Voglio
fotografare fino allo sfinimento.
Ho
cinquecento rullini. Li ho comprati a un terzo del prezzo visto che il carico
di cui facevano parte è uno di quelli classici, che scappa dal cassone di un
camion, uno di quelli che scivola via, che cade per cause di forza maggiore.
Quanto
mi possono durare cinquecento rullini? Tre anni? Può darsi.
Cosa
fotograferò? Quello che capita, anche se la mia predilezione va per le strade,
per i bassifondi, e per le facce sfatte.
Poi
non è neanche detto che non trovi un lavoro onesto.
Però
per un po’ me la godrò.
Forse
vado in Olanda.
No:
troppo vicino.
In
un paesino sperduto dell’entroterra californiano.
Ecco,
questa può funzionare.
Mi
compro una roulotte e mi arrangio con qualche lavoretto.
Fotograferò
il deserto californiano. Le carcasse degli animali.
Magari
apro un piccolo laboratorio di foto. Sviluppo e stampa.
Prima
dell’incidente, in casa avevo una camera oscura.
Si
tratta solo di ricominciare.
Se
un uomo sopravvive alla morte della moglie e del figlio, non può anche
ricominciare un’altra vita, in un altro Paese?
L’errore
che ho fatto è stato quello di risposarmi dopo con quella mia vecchia compagna
di scuola.
Dovevo
aggrapparmi a qualcosa, a qualcuno. E lei è spuntata fuori.
Dopo
un anno mi sono reso conto che non l’amavo e che lei, peggio, cercava solo
compagnia perché era terrorizzata dall’idea di dover passare il resto della
vita da sola.
Come
si fa coi cani, cazzo. Un compagno, un padrone.
La
separazione è stata semplice. Lei ovviamente ha preteso soldi, i soldi, perché
ha sostenuto con fervore isterico che l’avessi ripudiata e che la colpa della
separazione era addebitabile solo ed unicamente al sottoscritto.
Al
giudice gli ho detto: la signora ha ragione, colpa mia.
Pago
quello che c’è da pagare. E ho tolto il disturbo.
Lei
non si immagina che sto per sparire.
Nel
deserto californiano potrò parlare a mio figlio, a qualche sua traccia di
spirito che rimane in questo mondo, anche se non credo che esista niente dopo
di qua.
Loro
sono morti quella mattina e basta.
Ho
visto le loro ceneri, le ho annusate, le ho toccate e le ho gettate nel
Naviglio.
E’
assurdo come tutto si riduca a niente. Ma questa è l’unica verità.
Non
mi resta che fare i bagagli.
domenica, agosto 11, 2013
sabato, agosto 10, 2013
Il senso delle carni
Quando
l’ho incontrata, o meglio la prima volta che mi sono veramente reso conto di
lei – era la quarta volta credo che la vedevo, aveva dei capelli neri lunghi
fino al sedere al modo di Donna Jean Godchaux, e poco dopo la fine dei capelli
sbucava una copia tascabile di Naked Lunch di Burroughs.
Allora mi era venuto
subito in mente un film di seconda categoria degli anni Settanta con Robert
Redford la cui trama si imperniava su polverosi ed inutili gare di motociclette
su sterrato in quel della California.
Alla
fine del film ti rimangono impressi gli occhiali di Redford - a goccia con
lenti gialle, e quella copia sempre gialla di Naked Lunch che spunta dalla
tasca sinistra del sedere di attillati blue-jeans a zampa, dalla vita bassa,
indossati dalla protagonista femminile di cui non ricordo il nome.
Avevo
ventitre anni e da lì a breve sarei già stato sposato e padre di un bambino di qualche mese. Almeno
questo era quello che gli astri, se si guardavo in cielo, sembravano
preconizzare.
La
mia compagna si era dimenticata di assumere l’anticoncezionale e bam!, eccoci.
Quando
me l’aveva detto al telefono, ero in un corridoio dell’università e stravo
entrando in aula per una lezione.
Rabbia,
angoscia, oppressione, ingiustizia, delusione, disgrazia.
Un’altra
parola iniziava ad impregnare la mia corteccia cerebrale e a defluire nel mio
sistema nervoso e a scendere e a correre in tutto il mio corpo: aborto.
La
mia reazione al telefono fu violenta, con quel tipo di violenza verbale che io
so adottare in certe situazioni. E’ una violenza che rimane impressa e
sconvolge, disorienta e svuota, di solito, il mio interlocutore.
Le
cose tra di noi rovinavano già da mesi e lei se ne venne fuori con questa
notizia.
Dopo
averle messo giù, chiedendole un po’ di tempo, il che voleva dire andare al bar
a sedermi e farmi diverse birre e altro, per fortuna erano già le sette di
sera, e il giorno dopo era sabato, e mentre ero al bancone al secondo giro ed
avevo già chiamato la mia compagna per dirle che avremmo dovuto riflettere bene
perché qualsiasi fosse stata la decisione presa quella avrebbe cambiato tutto,
ho visto Aline.
Aveva
una maglietta fucsia, con un importante squarcio sulla schiena, cosa che notai
in un secondo, un terzo momento, a causa della lunghezza dei capelli ed avevo
una gran voglia di parlarle.
Un’altra
parola, dopo quella di ore prima [… aborto …] spingeva nella testa e batteva
sulla lingua: abisso.
Intanto
continuavo a guardarla mentre discuteva con quella che credo fosse poco più che
una conoscente, perché per essere un’amica avrebbe avuto un eccessivo distacco
o forse il suo stare al mondo era condizionato da una raffinatezza di matrice
intellettuale che la portava ad atteggiamenti del genere, perennemente affettati
nelle movenze e nel linguaggio, immagino, una presa di posizione di enorme
distacco dal mondo e dai suoi abitanti, una dichiarazione universale della sua
prospettiva visiva.
Stava
bevendo un cocktail rossastro: negroni o spritz, viste le venature arancioni.
Tanto
ghiaccio, una cannuccia ed una carnosa e sugosa fetta d’arancia, che
galleggiava in verticale, affogata tra cubetti di ghiaccio scavati ed
appiccicata al bordo del bicchiere sagomato.
Consumare
quel drink denotava una certa sua tendenza al conformarsi, consapevole o meno,
a quello che la tendenza general-consumistica dettava in quel periodo e questo stonava
con quanto detto prima, la mia prima impressione su di lei, l’impressione madre,
non mi piaceva, ma come dice il detto popolare “non si può avere tutto nella
vita”. Pessima citazione.
Dopo
rabbia, angoscia, oppressione, ingiustizia, delusione, disgrazia, abisso e
aborto, era il tempo di una svolta.
L’amica
era uscita a fumare.
Mi
sono alzato e sono andato a parlarle.
Non
ho potuto evitare di notare Naked Lunch.
Oh
bene, mi fa davvero piacere. E’così che abbordi le donne? O sai fare di meglio?
Tutto qua?
Ho
guardato a lungo i tuoi capelli, la tua schiena, la tua maglietta, le tue
movenze, ho sentito come pronunci le parole ed ho visto come muovi le labbra e
come tieni in mano un drink.
Scarsi
progressi. Puoi fare di meglio. O no?
Non
so … Vuoi un numero da clown? Vuoi che ti offra un altro giro? Vuoi andare da
qualche parte?
Guarda
i drink di solito le offrono alle battone. Sarebbe bello andare in giro mentre
tu fai numeri da clown in continuazione. Potrei trovare una scusa con la mia
amica.
Trovala.
Tu
torna al tuo posto. Fatti trovare pronto tra cinque minuti.
Così
fece. Disse all’amica che voleva stare un po’ da sola.
Quando
quella fu andata, mi fece un gesto ed uscimmo.
Mi
chiese “dove andiamo”.
Iniziamo
a camminare.
Ho
una gran voglia di fare tardi.
Domani
è sabato pensai e dovevo solo decidere quale era la mia posizione sul mio
futuro figlio: diniego, non-vita vs accettazione, pro-vita.
Nei
mesi successivi, come si può presumere, la mia vita cambiò.
Qualche
giorno dopo la verità sulla mia prossima paternità crollò. La notizia era falsa.
Lei,
la mia compagna, si era sbagliata.
Comunque
sarebbe stata risoluta verso l’aborto.
Bene,
le dissi. E dopo quest’ultima affermazione direi che la nostra corsa termina
qui, non trovi?
Lei,
disse solo “sì” e un “mi dispiace”, mi dispiace moltissimo, è andato tutto
storto tra noi, non l’avrei mai detto.
Neanche
io. Ti sarò sempre legato.
Anche
io. Sei stato il mio primo uomo, nel senso di uomo vero e di quell’altro senso.
Lo
so, il senso delle carni.
Immediatamente
dopo chiamai Aline.
Ti
passo a prendere.
lunedì, agosto 05, 2013
domenica, agosto 04, 2013
Uscita di scena
Varie
tazze di caffè da mezzo, da tre quarti di litro, su tavoli con tovaglie
all’americana occupati in buona parte da quotidiani irreggimentati da una
staffa di legno di vecchia data, quotidiani con carta che sfrigola in mani di
donne con unghie laccate da smalto oppure donne con unghie al naturale, che
mentre leggono vane qualche colonna di un famoso editorialista del Paese decidono
di darsi una precisa, puntuale e seria occhiata nello specchietto del
porta-cipria per vedere come è il loro viso in quel momento, se compatto,
turgido e statico come una venere urbana di una statua oppure sfatto,
decadente, permeato da un’espressione cupa, inconsolabile e perdente,
quotidiani che poi saranno piegati e riposti in un bidone di ferro a pochi
metri da lì nelle cantine dello stabile, su una parete decine di fotografie di
guerra stile Robert Capa e ancora di più su un’altra, disposta frontalmente,
scatti alla Henri Cartier-Bresson, un contrasto voluto, un contrasto noto, una cosciente
creazione di un sistema antitetico già al suo interno, motu proprio, destinato
a resistere e a convivere in questa sala di un bistro di Amsterdam, il Bushmile
Restaurant Café, dove in una delle sale che danno sul retro ci sono impilati dal
pavimento di legno dell’inizio del secolo scorso fino al soffitto centinaia di
libri usati, dei generi più svariati, si va da biografie che ricordano i
campioni dello sport del passato ad improbabili titoli di fantascienza - C’è
vita su Saturno?, Plutone chiama Terra, Marziani in Amazzonia, da trattati di
fisica, zoologia, di mineralogia a volumi di medicina dedicati ad interventi a
cuore aperto, da saggi di scienza delle finanze al Manifesto del Partito
Comunista di Karl Marx ed ancora qualche raccolta di estratti di romanzi dei
maestri della letteratura dell’Ottocento – Hugo, Zola, Dickens, Carroll, Tolstoj,
Dostoevskij.
Perché
non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Solite
domande di qualche mia amica.
Parigi-no-perché
ci sono stato sette volte, di cui cinque a scrivere ed il risultato è stato
deludente, sciatto, privo di quella spinta che ci vuole per inventare tutto da
zero.
Ma
anche ad Amsterdam ci sei stato più volte.
Solite
amiche, che non mollano l’osso.
Perché
non Parigi, perché non Parigi, è così bella.
Sì,
cinque volte ad Amsterdam. Ma con Amsterdam ho un legame speciale.
Lì,
sei anni prima, avevo scritto La rivolta
nel quartiere, il secondo romanzo con cui avevo sfondato, il cui successo
mi aveva fatto dimenticare le miserie del primo La foresta brucia.
La rivolta nel quartiere vendette oltre un
milione di copie, avevano comprato i diritti per farne un film, anche se poi
non lo fecero mai perché la casa cinematografica fallì a causa di un altro
progetto faraonico che andò male e li trascinò a fondo.
Forse
fu meglio così, visto che fin da subito vi furono accesi diverbi sulla loro
concezione del libro e quindi del film.
Giusto
per partire, volevano cambiare il titolo da La
rivolta nel quartiere in Il quartiere
è in rivolta, intenzione questa frutto di stupidi sondaggi che queste
società fanno presso il loro campione che per lo più è composto da indomiti
cinefili che conoscono a memoria la storia del cinema e con essa migliaia di
film, gente che va nelle sale di proiezione almeno cinque volte a settimana e
che poi di solito sono registi mancati, o peggio ancora falliti, per non palare
della loro primigenia ossessione, ovvero quella di sentirsi destinati per
diritto divino alla carriere recitativa.
Qui
ad Amsterdam per il mio terzo libro, che deve uscire per contratto con il mio
editore, entro metà settembre.
Quindi
ho tre settimane, visto che la consegna è prevista per la fine della penultima
di agosto.
La
verità è che ho scritto La rivolta nel
quartiere pensando solo ed esclusivamente al fatto di avere riscontro, di
avere successo: e tutto è andato ben oltre le mie previsioni.
Interviste,
mezze pagine di giornali, soldi e anche una donna, che non avevo da anni.
Sono
colpevole? No che non sono colpevole.
Sono
sicuro di non sentirmi colpevole?
Ho
sempre negato il fondamento del senso di colpa, qualcosa di profondamente
cristiano, qualcosa soprattutto di cattolico, una pura costruzione mentale
afflittiva, che non ha alcun posto nel dominio della ragione. In sostanza
qualcosa di illogico e che pertanto va eliso dal sistema. Spazzato via.
Se
scrivessi così, se elucubrassi. Che
parole importanti che so dire.
Se
avessi una prosa più vicino possibile alla verità, alla vita delle persone … Invece
scrivo dei prolissi romanzi storici, che poi sono profondamente antistorici,
cioè delle balle spaventose, delle colossali menzogne, in cui mischio un po’ di
tutto per fare piacere al mio cliente, il lettore.
Lor
signori, al vostro servizio.
Che
merda.
Ordino
una bottiglia di whiskey irlandese.
Mi
dia una bottiglia di Paddy. Ho visto che l’avete.
Mi
scusi ho capito bene, signore?
Sì,
le confermo quanto appena detto.
Arriva
subito signore.
Sono
le undici di mattina.
Io
non sono un bevitore di roba pesante. O meglio non lo sono più. A tratti.
Ora
ho una voglia sfrenata di bere. Oggi è una giornata di svolta.
O
inizio a scrivere un’altra menzogna o non la scrivo del tutto e mi scolo la
bottiglia intera e dopo sto in giro. Cose tipo pub, coffee shop, vetrine
illuminate da una luce impolverata di sudore, e molta roba da bere.
Ho
scritto una cosa sul blocchetto blu. Quando uno può dire con se stesso di
essere veramente uno scrittore?
Io
lo sono. Sì. Perché lo dicono gli altri.
Dio
esiste? Sì. Perché lo dicono gli altri.
Perché
forse tutti si sono messi d’accordo.
Sono
al secondo bicchiere. Tre dita piene ciascuno. Abbastanza scandaloso.
La
gente dei tavoli attorno incomincia a guardarmi male.
C’è
una famigliola allegra che mi guarda malissimo.
Probabilmente
sono disturbati dal contrasto tra il mio aspetto esteriore e quello che sto
facendo: cioè scolarmi una bottiglia intera verso le undici di mattina.
Sono
un uomo elegante, ho addosso un gessato di cashmere, un doppiopetto blu scuro
con righe verde acqua, righe sottili, ma sto per abbattermi su questa bottiglia
e questo può destare sorpresa, meraviglia ma non ho nessuna voglia di enfatizzare
questo particolare.
Sto
iniziando a scribacchiare qualcosa, forse un abbozzo di descrizione di una
donna, una donna giovane, sto scrivendo in modo molto secco, pulito, devo dire
la verità, devo essere prolifico.
Devo
far convivere queste due aspetti, dire la verità ed essere prolifico, forse è
questa la strada, una scrittura di prolifica verità.
Sto
blaterando, sto curvando, sto scendendo.
Prolifica
verità? Dio esiste? No.
Uno
spettro si aggira per l’Europa?
Se
non sbaglio si diceva che era il comunismo. Ma il comunismo è solo acqua
passata.
Ho
perso l’orientamento, sbando, ho perso il buon senso, la fede, l’autostima, ho
dissolto la mia coscienza, l’ho sperperata, l’ho fatta a pezzi con il mio
comportamento scellerato.
Chi
è che mi costringe a stare qui, a formulare queste specie di memorie brutali …
Ah,
quel contratto, il fatto che ho ricevuto un piccolo anticipo? No.
E’
la mia brama, la mia volontà di affermarmi, la mia volontà di potenza, la mia
intenzione di vivere in una realtà alternativa attraverso i miei romanzi,
realtà preferibile a quella che mi ha portato fino a qui, a quella della mia
vita.
Forse
non scriverò più. Nemmeno una riga per la lista della spesa.
L’idea
di diventare uno scrittore che mi ha letteralmente ossessionato per anni, ora
mi risulta rivoltante, fuori luogo, fuorviante.
Questa
descrizione che ho appena buttato giù fa schifo. E’ pomposa, falsa.
Mi
sto traendo in inganno da solo.
Sto
fallendo. Beckett diceva: fallisci, fallisci meglio.
La rivolta nel quartiere, una colossale
menzogna.
Con
quel libro ho fatto credere agli altri tutt’altro rispetto a quello che sono, a
quello in cui credo, gli ho riempito la testa di belle parole, leggere,
comprensibili, gli ho fatto passare qualche ora piacevole in compagnia di sole
novanta pagine, un romanzetto storico che tra qualche mese verrà ingoiato dall’oblio
della letteratura.
Mi
sono condannato da solo. Ho fatto la scelta sbagliata. Ho seguito quello che il
mio agente e gli editor mi hanno consigliato di fare, mi hanno obbligato a
fare.
Ho
ceduto. Ho barattato la mia dignità, l’intera mia persona, per un po’ di fama,
per il dannato consenso altrui.
Ora
me ne vado di qua. Mi faccio incartare la bottiglia e me ne vado.
Iscriviti a:
Post (Atom)