[che] senza quella forza non potevo andare avanti, quella forza inappropriata e ingestibile di quando si è appena diventati uomini e si inizia a scoprire il mondo, a vederlo per quello che è - magari si era sperato che non fosse tale ma alla prova dei fatti, di fronte ad una verità che non fa sconti, un uomo non può che constatare, sempre che quella cosa molto dubbia e di certo particolare alla quale diamo il nome di coscienza glielo permetta, di essere giunto dove non si sarebbe mai voluti arrivare ovvero a non poter più voltarsi per guardare il passato. Ecco allora un uomo che ci dà le spalle, mezzo chino su un bancone argentato e fuori l’aria è pesante, gonfia, piena della schiuma che ristagna torbida, stupida e tramortita, rimasta ai lati dei marciapiedi, una schiuma formatosi dall’alcol fuoriuscito dalle bottiglie lanciate da forti bevitori, da senzatetto, da senza-meta, e dal liquido urticante usato per il lavaggio delle strade, l’aria bruciata nel fumo insopprimibile che esce dai tombini fognari, con i coperchi mezzi sollevati per noncuranza. Attraverso questa aria malsana, malnutrita, la schiena china di quell’uomo che potrebbe dirci voglio un altro futuro o drammaticamente, non voglio più niente. Alle sue spalle, proprio a ridosso della vetrina, una fila di tavoli con divani dalla pelle livida e solo uno di essi è occupato. Nel locale, in questa sorta di covo urbano per disfattisti apocalittici o solo per gente che semplicemente non vuole tornare a casa o non può tornarci perché non paga l’affitto da mesi o la moglie l’ha cacciato dopo l’ennesima ubriacatura con conseguente distruzione di mezzo appartamento, in una situazione tale, un uomo e una donna sono seduti, lui con la testa a tratta riversa sul bancone, lei di tre quarti mentre guarda fuori dalla vetrina con occhi gonfi verso un pianeta distante milioni di miglia - buchi neri. L’onore della cronaca vorrebbe che si dicesse che ci sono altre due persone e che precisamente esse sono nel retro del locale fuori dalla cucina; un uomo e una donna, il cuoco e la cameriera, stanno sorseggiando caffè nero corretto con tequila a buon mercato, versata da una bottiglia in plastica con un’etichetta che riporta in lettere dorate: 1.75 litri. Tutto questo succede intorno a quello che si propaga circolarmente intorno al grande asse interplanetario di Canal St., a notte fonda, dove le prime certezze di un ragazzo che si è appena fatto uomo possono essere violentate con una tale forza da svegliarsi il giorno dopo e desiderare di aver vissuto diversamente. L’uomo è ancora lì, cinto a forza in una camicia dal tessuto invernale con un marcato disegno a scacchi, colori: verde e nero, una di quelle che un tempo si addicevano ai pescatori o ai boscaioli. La donna è ancora lì, stessa posizione, profilo a tre quarti, sta scartando quello che è per lei il quarto pacchetto di sigarette della giornata. La pelle delle braccia è quella di una che ha fatto la vita e che di sicuro ha avuto significanti trascorsi di tossicodipendenza (eroina, crack, metanfetamine) e probabilmente sta uscendo da una perdurante intossicazione da alcool. Le spalle di quell’uomo e la sua postura rivelano due opposti: un senso di orgoglio, dignità - deve avere avuto il suo momento di gloria da qualche parte, in qualche posto, in qualche modo e uno spinto senso per la decadenza, una sfrenata propensione al disfacimento. Forse rientra in quella categoria di uomini che definiamo creatori. Chi crea qualcosa dal niente, un qualcosa come potrebbe essere un’opera d’arte, è colui che combatte e lotta con l’eterno estenuante divenire di se stesso; la realtà per lui è solo un grande contenitore in cui è capitato, il pianeta terra è più che altro una distorsione di natura cosmica, in cui il flusso delle sue idee è costretto a scorrere senza soluzione di continuità. L’esternità è un palcoscenico piuttosto malconcio: tanto vale passarci, visto che altre possibilità non sono contemplate. Il creatore sa talmente bene di cosa sia fatta la vita che non ha interesse ad essere nell’attimo. Il suo essere presente si concretizza nel vedere quello che sta attorno, in quello che può o non può accadere, le imperdonabili ed impredicabili diramazioni della vita. Una volta accadute e realizzate, scema il suo interesse. Valutare le variabili attraverso la percezione. Una volta, mentre lavoravo a Morgan City come portuale stagionale, lessi la dichiarazione di un fotografo svizzero passato a miglior vita in un tragico incidente d’auto. Durante un’intervista, alla domanda quali fossero i migliori scatti che avesse mai fatto, egli rispose candido, con poche parole: gli scatti che non ho fatto. Ecco a voi servita l’essenza del creatore. Vivere nella possibilità o nell’impossibilità di quello che è stato o non è stato, così da permanere costantemente nel suo habitat naturale ed esistenziale: l’intracciabilità. Grazie alle parole del fotografo ho qualcosa per avvicinarmi alla storia di quest’uomo, almeno per la parte raccontabile. Un fotografo anche lui. Un poeta sperimentalista. Scrittore d’avanguardia, attore, commediografo, drammaturgo, pittore, regista mancato, narratore di strada … Cosa cambia. Potrebbe essere anche un giornalista per quanto mi riguarda, o un meccanico. Non c’è riscatto in questa notte, forse l’alba si affaccerà da qualche altra parte della città, ma non qui. Il buio è contaminato dai fumi, dalla schiuma e da qualche lampione mal funzionante. L’alba non arriverà tanto facilmente come fa altrove. Posti più aperti, là nella sconfinatezza delle regioni e delle terre oltre al fiume; nelle altre città dove la vita segue uguale giorno per giorno, casa per casa, uomo per uomo. Popolazioni. La genuinità dei buoni propositi viene lasciata ad altri. I due sono ancora nella stessa identica posizione e ripetono gli stessi gesti nell’invariabilità temporale di quest’epoca di esaltazione e diniego. Sono destinati a non parlarsi. Questa è la spietatezza della vita, la tenera crudeltà alla quale ci siamo abituati. Un liquido embrionale in cui siamo maturati, invecchiando, fino a fiatare in botti piene d’odio ingiustificato. Lui non può far altro che ordinare qualcos’altro da bere stando chino, lei non altro se non guardare fuori dalla vetrina, fumando attraverso un vetro ricoperto da una grassa umidità uniforme. Entrambi, ora, potrebbero parlarsi, dirsi qualcosa come "abbiamo avuti tempi migliori”. Sarebbe solo un catastrofico riflesso di vite non state. L’inevitabilità di questa città, ci porta qua, dietro a Canal St. E non possiamo far altro che imbatterci in noi stessi, per un’altra sera e per tutto il perdurare della notte. E’ vero, Daphne?
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