Preparato per la gloria o preparato per niente, sempre pensato, oppure peggio, condannato alla noia.
Le loro festività, le loro cadenze di calendario, i loro giorni sì o no, non ci sono mai interessati. Qui, o almeno a me. Lei forse la pensa diversamente. Lei e i suoi due figli. Mi manca qualcuno? No. Qui, adesso, io.
Accumulare cose, distrarsi, cambiare posizioni politiche, storiche al buio. Prendersi una storta, farsi dei lividi. La prima delle cinque si è fatta una famiglia. Tre figli morti. Le manie, psicopatologia generale di Jaspers. Cosa ci faccio, con il dispaccio del generale. Anche sapendo che tutto questo ha una durata del tutto indefinibile, non contabile, almeno finché mi chiedo perché. Bloccato in questo deserto, interpreto il mondo come posso. Non aspetto segnali, non un segnale. Ho fatto quello che dovevo fare per anni, per tenere in piedi la baracca. Torna dalla tua seconda moglie mi ha detto. Non era mia moglie. Più sposati di voi non c’era nessuno. Vieni a lavarmi capelli lungo la schiena. Non avere paura quando si attraversano strade di otto miglia in un paese straniero e dall’altra parte a 20 metri si mettono a sparare, vai solo avanti per la tua strada. Direbbero, frase molto in voga nei film, fai quello che devi fare, fai quello che serve per sopravvivere, si fa quello per tirare avanti. Non credo che possa permettermi di usare queste frasi, questi termini, visto che sto spacchettando lo Zaharathustra di Jung (qualche migliaio di pagine) su questo tavolo davanti a questo deserto beckettiano. Willie? Winnie? Finale di partita in dei bidoni? Erano giorni felici, comunque cose di questo genere.
Si capisce che ho ricevuto un’istruzione, o che meglio me la sono fatta. Fatto diversi lavori per un anno. Poi ho atteso. Ho preso parte. Mentito per lungo tempo. Girato intorno, entrato, quindi andato lontano dal giardino delle delizie e approdato ad una veranda di un locale ai margini di un deserto beckettiano, o pinteriano per i palati più deboli. Non parliamo di Weimar, sarebbe del tutto fuori luogo. Sembravano che le cose decollassero. Col locale e poi con lei. E devo dire che la realtà si spinse oltre i winnie e i willie del caso, spinto oltre le mie migliaia di letture quando lo stato mi teneva a bada. Ma non aspettavo un segnale e non lo volevo. Venne il caso. Lei aspettava un bambino. Ne arrivarono due. Io volevo solo la bambina, solo una bambina. Il maschio non era previsto. Che se lo crescesse suo padre, il suo vero padre. Io volevo crescere una leader dei diritti civili. Certo che avevo paura che a cinquant’anni rimanesse un po’ fuori dal giro. D’altronde la vita ci mette davanti ad una scelta secca. Impegno o idiozia. Il disimpegno non esiste. Un amico mi disse che aveva letto in una biblioteca di Utrecht, lui che poi era fissato con Dresda per via del bombardamento e dell’arte, di un autore olandese che scrisse che la vita è l’unica occasione di essere seri. Mi ricordo che dopo averla sentita pronunciare, eravamo in un bar dopo una sua conferenza all’università - università di un paese medio orientale, io sbattei il bourbon sulla cattedra di servizio dicendogli, questa l’hai scritta tu.
Era un mio amico, un sociologo con diverse specializzazioni. Gli interessava del mondo accademico nella misura in cui gli pagasse lo stipendio, giusto per mantenere una vita decente diceva. Ragionava sempre per estremi, per paradossi o si metteva in testa un’idea e la portava avanti per mesi, a seconda di come gli girasse. Si faceva influenzare molto dalle persone, non che io ne sia esente. Era suscettibile all’adulazione e alle giovani donne. Io sono sempre stato l’opposto. Se uno mi dice bravo io gli dico gira al largo che ti rompo l’osso del collo. Sono famoso in zona con la mia mossa. Lo trascinamento dei clienti fuori dal bar. Li prendo da dietro, loro non se l’aspettano e d in qualche secondo li getto nella terra. Non mi dire che questa città non ha un cuore: questa è la mia battuta di addio.
Lui, il nostro sociologo part-time, l’uomo dalla veggenza universale, si perde in faccende vacue. Encomi, gratifiche, donne giovani dalla tinta biondastra. L’altra sera mi diceva per l’ennesima volta che nella vita, ci conosciamo da 37 anni, mi sono sempre voluto sobbarcare follie esistenziali. A te piacciono le donne alla frontiera, quelle che non hanno da darti niente. Quelle che scappano o che sono prigioniere. Stai attento a come parli. Nel mentre sono andato a prendere una bottiglia nuova di whiskey irlandese e l’ho piazzata a metà del tavolo, tra me e lui. Attento a come parli. Senti chi parla, il prossimo padre di due bambini non suoi. Dai fai la tua marcia, professore, dimmi tutto. Ti dicevo che non hai mai saputo vivere sottobraccio come noi, come tutti noi. Erano tutti figli miei, ti ricordi Arthur Miller, anche se tutti ci stordivamo per Henry. Ti ricordi al Memorial, quando hai improvvisato. Ti sei voluto mettere davanti a questo deserto, a dissertare sulla vita. Diserzione mnemonica, lessica e disarticolazione del proprio tessuto esistenziale. Smettila di fare il coglione con me con le parole. Ma non eri tu quello che parlavi di deserto beckettiano o se vogliamo pinteriano. Scomoda bernhard o brecht che vomito in diretta. Vedi tu vieni qua, fai migliaia di chilometri in aereo, mi parli nella nostra lingua, mi fai fare figure coi clienti e ti metti a pontificare: Non sono io quello che è finito in prigione per omicidio. Involontario. Colposo. Era venuto a trovarmi mentre le rose si alzavano da terra, in quella stagione di gravidanze stentate, perché gli rimanevo solo io. Stava morendo. Mi chiedeva i perché della mia vita. Mi chiedeva di stargli vicino. Io ero stato uno che aveva cambiato rotta più volte nel corso di pochi decenni, ma gli ultimi fatti, la sua morte e la mia fissità in quel deserto con due figli non miei, lui che era venuto da me, fin da me, per chiedermi i perché, davano al tutto un sapore del tutto nuovo, o del passato che ritorna. Gli parlavo di quello che avevamo fatto, i nostri cambiamenti rispetto alle nostre famiglie, di come avessimo fatto qualcosa di buono, ma non ne ero convinto. Avevo perso quella forza sedativa che poteva parlare alla gente; nelle scienze politiche ora ridicono tutto alla semplice parola carisma. Il giorno dopo si presentò con il suo cappello chiaro, magro, scavato, indifferenza. Aveva fatto portare un mazzo composito di fiori & piante. Arrivava da Amsterdam. Una delle nostre città. C’era su scritto: sua madama Emily, i suoi due bei bambini e a Phil (Filippo). Per quello che siamo stati e per quello che sarai. Carlo.
Carlo non era il suo vero nome ma voleva rifarsi a Pasolini. Lo rivedo fino a due giorni fa qua sulla veranda e non posso fare a meno di pensare a quando mio nonno morì, e mio padre, poco dopo morì. Di notte non riuscivo a dormire. Per anni. Mi stavano addosso. Mi parlavano. Non andai a nessuno dei due funerali. Li sognai che mi parlavano nei loro abiti delle pompe funebri e mia madre e mia nonna mi chiesero come fosse possibile. Mia bis nonna disse: lui ha sempre ha avuto il dono. Sono andati da lui e non da voi. Questo vi faccia riflettere. Per me era solo chimica: qua non c’era niente di vero, sin dal giorno in cui ero nato. Una brutta puntata, cari parenti. Carlo era venuto da me da un punto di terra ad un altro come per dirmi: andiamo lungo il fiume pazzo, mi accompagni attraverso la morte, pur sapendo che ero cresciuto in odore di vitalità precaria e che in carcere le cose erano andate male e che non avevo più nessuno a casa, come lui. Il giorno dopo con un cappello a mezz’asta. Un sorriso che mi diceva potrebbe essere stato il vento. Era stata solo la malattia e il suo famoso discorso del 99% sarebbe stato pronunciato da lì a poco. La sua teoria poggiava su lunghi studi fatti sui libri e nelle accademie, nei suoi viaggi di reportage sociologico e nelle sue sterminate frequentazioni. La terza volta che lo vidi era ad una trattoria cino-coreana non lontana dal Louvre. Su una tovaglietta di carta scrisse con un pennarello verde - 99%. Guarda da qui discende tutto. Per differenza, diceva che quella somma necessitava di un 1% per raggiungere la totalità. Senza quell’uno per cento la visione del mondo non poteva essere completa, intera. Carlo era conosciuto per tenere i quaderni delle sue lezioni sempre aperti: non si sarebbero potuti chiudere mai perché avrebbe sempre considerato un nuovo fenomeno, un ulteriore particolare, una parola casuale,elementi che calati nei suoi insiemi stabili al novantanove per cento, avrebbero modificato quello status quo. Il novantanove per cento era il suo moloch, era quello contro cui lottava: non gli avrebbe sacrificato niente. In fin dei conti, come ammetteva alle fine delle serate, il 99% non era altro che gli altri. Faceva affidamento su quell’uno per cento per trovare un motivo per andare avanti, conscio che non l’avrebbe ripagato mai. Carlo era un totalitario, che si ergeva sui pilastri del pensiero occidentale: kant, marx, nietzsche, freud e ben pochi altri. E tutta la vita ha parlato di questi e della gente che aveva incontrato. Ha voluto che lo cremassi e che lo spargessi sulle rive di quel pazzo fiume, un rigagnolo appena bagnato e che fatica a scorrere. Ecco cos’era il suo uno per cento.