sabato, novembre 16, 2013

Il Portiere della Fabbrica










Questo racconto breve è dedicato a diverse persone che conosco.
Elencarle tutte sarebbe ingiusto e noioso. 
Le persone interessate, da cui rubato racconti personali & vicende umane,
questa volta mi perdoneranno per un furto platealmente dichiarato.
D'altronde, ogni buon  rapinatore di banca,
dovrebbe sempre annunciarsi con un elegante 
"Signori, questa è una rapina".



   
Le prime ore della mattina erano le preferite da mia madre.
Alzata poco dopo le quattro andava in cucina e si metteva per qualche minuto davanti alla finestra, guardando fuori.
Il buio era ancora forte e le luci che provenivano dalle parti interne dei caseggiati erano poche, incerte, pallide e sparute.
Dopo essersi preparata il caffè, un caffè molto forte che forse era già pronto dalla sera prima ed andava solo leggermente riscaldato, visto che odiava le cose bollenti a seguito di lunghe ed interminabili malattie che ebbe per tutta la vita all’apparato respiratorio, se ne versava una tazza colma e di lato preparava un bicchiere di acqua gassata con succo di limone fresco, limone che era stato appena spremuto poco prima.
Il caffè e l’acqua erano seguiti da altro caffè ed altra acqua; era una donna rigorosa e molte volte agiva in sequenza ordinata, in qualsiasi faccenda fosse implicata, con animo più o meno coinvolto, più o meno controvoglia.
A quel punto prestava maggior attenzione alle voci che provenivano dalla radio, una vecchia radiolina regalata da un ammiratore sconosciuto del quartiere, quando io non ero ancora nato. Ne andava fiera, come un mazzo di fiori regalato da un estraneo e da tenere per una vita intera.
Lei me l’aveva sempre raccontata così, era lei che ne parlava, che parlava di quella semplice radio: io ho sempre saputo che era stato il suo amante anche se non riuscii mai ad identificarlo e quando le mie strampalate ricerche di bambino giunsero ad un punto morto di non ritorno, pensai che l’amante fosse morto.
Mentre la radio andava, diceva: ecco che sentiamo cosa succede pel il mondo.
Intorno alle cinque estraeva dal frigo alcuni petti di pollo e li passava, trascinandoli, in una ciotola riempita con della farina.
Al termine di questo passaggio, non prima che la farina fosse uniforme e compatta sulla superficie della carne, veniva il turno della pastella di un denso color crema.
Terminata questa procedura, i petti, così lavorati, venivano appesi uno per uno con una molletta su un filo di plastica trasparante che correva sotto i pensili della cucina, da un punto opposto all’altro.
Stavano in quella condizione per un tempo pari a tre quarti d’ora, a prendere aria, trasudare ed ad indorarsi di polvere.
Non credo fosse un particolare trucco culinario che avesse appreso o congeniato, quanto fosse solo una semplice forma di esorcismo o addirittura di accanimento verso i petti di pollo.
Quindi arrivava, inevitabile e determinante, il momento della frittura.
Disponeva sui fuochi a gas, la solita padella che usavamo da anni per cucinare di tutto ma che prontamente era, sempre da lei, pulita e tirata a lucido per un nuovo utilizzo.
Prendeva una bottiglia di olio per fritture varie, in sostanza olio di semi, e ne versava quasi un litro nella padella concava, grigia.
Buona parte dei risvegli della mia vita, per non dire tutti, sono stati accompagnati da quello sfrigolio di olio che combatteva contro l’impanatura dei petti di pollo.
Quando muovevo la testa nel letto sentivo l’odore che s’ingolfava di aromi da lei sparsi e che si distendeva per i nostri trenta metri quadrati di casa.
Una volta ho visto i petti di pollo ribollire, sobbalzare, lottare in quella padella rovente, per non essere fritti e dissi a mia madre: sembra un convento wagneriano e le mi chiese cosa e io dissi no, no, niente scusa mi sono appena alzato.
Quella mattina come tutte le altre della mia vita con lei, me la trovavo di fronte, sommersa ed avvolta da una delle vecchie vestaglie, due vestaglie, una di panno azzurro l’altra una sorta di tessuto scozzese, che aveva alternato orgogliosa per più di vent’anni dalla morte di mio padre.
Almeno due volte a settimana mi diceva, tirandomi a sé, poco dopo essermi presentato sulla soglia della cucina, già vestito con la tuta da lavoro blu elettrico con lo stemma dei padroni oramai sbiadito da migliaia di lavaggi, ben rasato, profumato con un dopobarba comprato da lei al mercato, con i capelli puliti ed in ordine, “guarda che bel giovanotto abbiamo qua, tuo padre sarebbe fiero di te e dei sacrifici che hai fatto, fai un abbraccio alla mamma, il mio uomo di casa”.
L’altro uomo di casa, l’assente a vita, mio padre, era una persona onesta, mite, giusta.
Una delle cose che mi aveva insegnato, oltre al senso di responsabilità che ogni persona nella comunità degli uomini deve avere e oltre al rispetto che egli stesso deve coltivare ed avere per gli altri, soprattutto per chi è più sfortunato o per chi non ha niente o ha perso tutto – che molte volte sappiamo essere due ipotesi coincidenti, aggiungeva lui – era il modo di come comprare l’aranciata amara dai chioschi dai giardini di Porta Venezia.
Mio padre posava sul bancone di vetro e ferro del chiosco, qualche spicciolo, che a fatica tirava fuori dalle tasche cedenti dei pantaloni di velluto.
Vedendo quella scena, mentre contorceva la schiena e le braccia per arrivare con le mani fino all’ultimo centesimo per comprarmi l’aranciata amara, io, bambino, ogni tanto ridevo, e ridevo di santa grazia.
Di solito la prendeva bene, forse perché pensava che avevo così tanta emozione e gioia nell’attesa di bermi l’aranciata.
Una serata di settembre, avrò avuto sette anni, nella stessa identica scena, ripetutasi per anni, aggiunsi un “ma papà!”. Lui la prese male e mi picchiò.
Da quella sera mio padre non cenò più a casa con noi per un mese.
Pensavo di aver sbagliato qualcosa, ma lo odiavo per quello che mi aveva fatto.
Una mattina prima di andare a scuola, scendendo dal letto mi feci male ai piedi.
I miei piedi avevano appena sbattuto contro la più grande cassa di aranciata amara che avessi mai visto.
La domenica stessa mi portò allo stadio a vedere l’Inter.
Finita la partita, uscimmo dallo stadio e camminammo.
Mi fece sedere su una panchina per strada.
Mi disse che a casa non c’erano molti soldi e che lui si sentiva in colpa.
Mi disse che l’unica cosa che poteva fare per me era essere onesto e comprarmi ogni tanto l’aranciata amara al parco.
“Di più papà non è riuscito a fare”.
Girò la sua faccia dall’altra parte.
Gli chiesi qualcosa come “papà, stai male?”, e quando si rigirò verso di me aveva il volto disfatto.
Mio padre morì il giorno che parai tre rigori nella finale del torneo di calcio rionale.
Prima della partita mi aveva fatto promettere che avrei parato tutto.
Vincemmo il campionato rionale grazie alle mie parate.
Alla fine della partita venne a parlarmi l’osservatore dei portieri dell’Inter.
Mi propose di andare a provare da loro. Signore, dovrebbe parlare con i miei genitori, gli dissi.
Mentre ero in campo, dando un’occhiata sugli spalti, avevo visto mia madre ma no mio padre, che aveva detto che sarebbe arrivato dopo, prima doveva passare in banca, in piazza Fontana.
Avevo 14 anni. Era il 1969 a Milano, Italia.



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